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18 san marco


E l’illusione di non essere più nella Milano affacendata e rumorosa, dura e s’accresce quando s’arriva in fondo alla via, sul ponte Marcellino. S’ode il tonfo cadenzato e lo scrosciare d’acqua di una ruota di mulino, giù nel naviglio, e un picchiare secco di scalpellini. Di qui un portone che s’apre su una lunga sostra di pietre abbagliante sotto il sole; a dritta il casone scuro della tintoria, con la porta simile a un trabocchetto che voglia trascinare la gente giù, per gli scalini bagnati e viscidi, nello stanzone bujo, su quei mucchi di stoffe scolorite... Di contro, il massiccio, arcigno fianco a mattoni della chiesa di San Marco, con quel largo tetto sulla tozza torre delle campane — che ha l’aria di un frate che si sia tirato umilmente il cappuccio sulla fronte.

Una volta non era, no, così umile, ci dicono le storie. Ha avuto un passato di alterezza e di splendore anch’esso, come il Padre Cristoforo, il vecchio campanile di San Marco. Esso rizzava il suo svelto e alto cono a mattoni al disopra del terrazzo, a dominare tutto il presbitero e il grande chiostro dove passeggiavano salmodiando gli Eremitani, e il camposanto davanti e intorno alla chiesa, dove venivano a dormire l’ultimo sonno i patrizi milanesi.