Voci di campanili/San Gottardo

San Gottardo

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La Torre di Massimiano e il monastero maggiore Sant’Eustorgio
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SAN GOTTARDO




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È
la vivida pennellata che dà risalto all’uniforme biancore del Duomo. La maravigliosa mole che s’eleva frastagliandosi, come canzone fiorita di trilli armoniosi, non fa parer meno bella la tranquilla, serena arte che sorride dalla torre di Francesco Pecorari.

Campanile a cui tutti gli occhi si drizzavano curiosi nella prima metà del trecento, verso il quale tutte le orecchie tendevano con piacevole sorpresa. Di lassù battevano le ore! Il tempo, che non era segnato per i poveri che dal sorgere e dal tramontar del sole, ora era diviso, misurato dalla sonora campana di San Gottardo. Per i vasti orti, nelle strette vie abitate dagli artieri, arrivava il dan, dan, dan, che doveva risuonare stranamente fatale all’orecchio dei [p. 63 modifica]vecchi i cui giorni erano contati, e a quello del Visconti giovane e potente, che lì, nel palazzo accanto alla chiesa, tormentato per la gotta, forse prevedeva la sua fine immatura.

Il campanile si rizza ancora oggi snello e poetico al disopra del tozzo palazzo reale; di un mare di prosaici tetti che sembrano stringerlo, premerlo ai fianchi, tentar di soffocarlo: nulla, nulla più d’artistico intorno ad esso, neppure la chiesa eretta con sì devoto amore da Azzone Visconti sul sacro terreno di quel San Giovanni alle Fonti, che forse vide in bianca tunica di neofita Sant’Ambrogio e Sant’Agostino.

Il santo protettore dei gottosi non salvò dalla morte il suo divoto, e morto non protesse le sue ossa nel bel sepolcreto di marmo scolpito da Balduccio da Pisa, dove egli avea creduto di poter dormire fino al giorno del Gran Giudizio. Tutto è scomparso, anche lo splendido palazzo fabbricato nel vasto Brolo, degno della chiesa che gli sorgeva accanto, coi maravigliosi giardini e serragli e fontane, e la corte d’onore dove il Petrarca vide banchettare in pompa sfarzosa, sotto padiglioni di arazzi tessuti d’oro, e dalla quale si accedeva alla famosa sala della Gloria, che Giotto dipinse. [p. 64 modifica]

Chi distrusse? Nessuno: tutto fu lasciato cadere miseramente in rovina, e la storia non ci dice perchè mai i Duchi di Milano abbandonarono il palazzo dove l’arte aveva profuso tanti tesori.

O campanile di San Gottardo, tu solo potresti dirci se dal sangue di Giovan Maria sprizzato sulle porte della tua chiesa, non siano sorte paurose superstizioni e fatidiche minaccie, misteriosi uccelli dall’ali nere che misero tutti in fuga.

All’estremo della città, verso Porta Giovia, andavano alzandosi ampie, massiccie torri che parevano irridere alla leggerezza e alla leggiadria della torre acuta di San Gottardo, — quasi un anacronismo in quell’epoca in cui l’arte avea bisogno di irrobustirsi e di armarsi, o almeno di adornare tutto ciò che fosse abbastanza forte e solido per poter difendere e offendere.

Chi più si curò dell’antico Broletto? il tempo, l’ignoranza e la volgarità degli uomini, come fiumana che nulla arresta, travolsero ogni cosa intorno al mirabile campanile, minacciante anch’esso tratto tratto di sfasciarsi, tenuto su, rafforzato, consolidato da ristauri che lo deturpavano, legato con fascie di ferro che lo ammaccavano e spezzavano i capitelli delle sue colonne, [p. 65 modifica]riempito ne’ vuoti dove il tempo, le intemperie o le rondini portavano maggior rovina. Non crollò, rimase miracolosamente in piedi; i fulmini colpivano l’angelo di rame dorato, ritto sul suo vertice; ali, testa, bandiera, tutto fu portato via, ma così mutilata, la figurina rimase ancora dritta sulla palla, coll’asta fra le mani, sulla cui cima, nella stella, è l’agnello divino colla piccola croce sul dorso.

Come una madre che al di sopra delle onde invadenti solleva la sua creatura perchè alcuno la salvi, il tempo tenne in piedi sino alla fine del nostro secolo il bel campanile, perchè un artista dal gusto squisito, dalla coltura profonda, dalla volontà ferrea — quegli a cui Milano deve la salvezza di tanti antichi monumenti che si disperava ormai di ricuperare — ridasse anche a questo la solidità, l’eleganza e la leggerezza che aveva perdute.

Eccolo ora perfetto, colla torre ottagonale così maraviglioso lavoro di terracotta, ad archetti e finestre tramezzate, che va facendosi sempre più sottile e leggiadra man mano che si eleva, fino alla galleria a colonnine binate in marmo bianco, che sorregge il rosso cono cestile con l’arcangelo, il quale sembra gioioso di dare al vento [p. 66 modifica]la sua vecchia bandiera Viscontea e di poter rammentare a molte generazioni ancora la sua storia e la sua leggenda.

Perchè ha una leggenda anche il campanile di San Gottardo.

Un giorno un bombardiere, nel castello di Porta Giovia, fu condannato a morte: egli era il più esperto, e il privarsene era ben doloroso; ma giustizia voleva la sua condanna. All’ultimo momento gli fu detto: — Mira col tuo cannone la testa dell’arcangelo Michele ch’è sulla cima di San Gottardo. Se tu la pigli, hai salva la vita.

— È un burlarlo sull’orlo della fossa — pensarono i compagni.

Il bombardiere fu fatto salire su una torre del Castello; mirò, fece il segno di croce, scaricò: la testa dell’angelo fu recisa di netto ed egli fu salvo.

Quando è accaduto questo? — incerto tempore.... — sta scritto sul dorso dell’angelo.