Voci di campanili/Sant'Eustorgio
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SANT’EUSTORGIO
Laggiù dove «furono le prime stanze della cittade nostra» come dice lo storico, la leggenda fa arrivare dalla Palestina quegli che dopo la morte di Cristo credette in lui, e tutto penetrato dello spirito di fratellanza, «avendo un campo lo vendè e portò i denari e li pose ai piedi degli apostoli» perchè li distribuissero a quelli che ne avevano bisogno.
Barnaba, figliol di consolazione, si chiamava: il discepolo che prende per mano Saulo, già convertito sulla via di Damasco e battezzato col nome di Paolo, e agli apostoli che diffidano di lui dice com’egli sia uno di loro. Barnaba, che penetrò primo in Antiochia, e dai convertiti alla fede è amato e stimato come «l’uomo da bene,» e vedendo quanto si possa fare per la religione di Cristo, torna a Tarso in cerca del suo protetto, del compagno dotto ed eloquente perchè lo aiuti, e dalle moltitudini essi, per la prima volta, vengono chiamati col nome di Cristiani. Ma passati a Listra altre turbe nuove li chiamano Iddii, col nome di Giove e di Mercurio, e recano ad essi i tori inghirlandati per sacrificarli.
A Milano, nella seconda Roma, nella nuova Atene, come veniva chiamata, arrivò dall’Oriente l’apostolo instancabile, «senza bastone e senza tasca, senza danaro e senza pane» come Cristo aveva ordinato: e parlò un linguaggio che nessun altri prima aveva osato. Nel fitto bosco silenzioso, fuori le mura della città imperiale, come gli antichi druidi, egli aduna le genti a udir la voce di Dio, non nell’urlo de’ venti o nel crepitar de’ roghi, ma per bocca di un uomo le cui parole sono di pace e di amore, e promessa di letizia ai diseredati della terra. Nella fresca acqua lì presso, egli battezza i nuovi credenti, e diventò il sacro fonte al quale i primi vescovi battezzarono, non solo gli umili, ma i grandi della città, quelli che qui governavano in nome degli imperatori che a Roma s’accanivano più ferocemente contro i seguaci di Cristo.
Ad esso vennero più tardi i malati di corpo invece de’ malati di spirito, finchè un tale non vi buttò il suo cane piagato perchè guarisse, profanando così il luogo sacro. Ma rimase e si fece sempre più viva coll’andar de’ secoli la tradizione, e una piccola chiesa sorse benedetta da Federico Borromeo, sopra la fontana: una chiesa diventata poi una caserma, tramutata in officina, ingoiata dalle case fabbricate intorno.
A pochi passi da essa s’elevò nel IV secolo un’altra chiesa, ampia, monumentale: espressione della religione francamente affermata, universalmente riconosciuta: la Basilica dei Santi Re Magi, fondata da Sant’Eustorgio e dov’egli — dice la leggenda — vi seppellì, portati dall’Oriente, i corpi dei tre Re che primi piegarono le ginocchia davanti al figlio di Dio venuto al mondo a portare la pace agli uomini di buona volontà.
I Barbari che distrussero la città imperiale, rispettarono i luoghi sacri a una religione che non conoscevano e non osarono toccare alle ossa venerate. Federico Barbarossa ebbe pure un superstizioso terrore delle mura consacrate al suo Dio, ma non si fece scrupolo di spogliare quegli altari ai quali s’inchinava a prendere l’ulivo nella Domenica delle Palme. I tre corpi preziosi che i Milanesi — temendo che la chiesa allora fuor delle mura venisse distrutta — trafugarono e nascosero sotto il campanile di San Giorgio al Palazzo, furono trovati dall’arcivescovo di Colonia che accompagnava il forte Imperatore, e rapiti, portati in Germania, furono accolti con tale entusiasmo di far elevare sopra la loro tomba una delle più splendide creazioni dell’arte gotica.
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Alla chiesa del quartiere più popolare di Milano erano riserbate le avventure più rumorose e popolari.
Pietro da Verona venne a insediarsi, come capo dell’Inquisizione, nel chiostro accanto alla chiesa. Frate domenicano, egli aveva percorsa l’Italia predicando contro i cattivi costumi e contro gli eretici, con tale ardore e tale sentita eloquenza, da sollevare la folla e farla piangere di dolore sulle proprie colpe e sugli errori degli altri.
Noi vediamo ancora nell’angolo della piazza il pulpito di pietra dal quale il domenicano parlava al popolo pigiato nel camposanto davanti la chiesa, accendendo colle parole infocate l’odio contro gli eretici, facendo apparire dovere di cristiano la persecuzione, mettendo nelle mani de’ giovani lo stendardo colla rossa croce, perchè in nome di essa combattessero anche col ferro contro chi, pur credendo in Cristo, osava sostenere opinioni contrarie ai dommi della Chiesa.
Era una serena mattina d’aprile del 1252 quando, tornando da Como con un compagno, sulla strada di Barlassina, Pietro da Verona fu assalito da sicarii sbucati dalla boscaglia, e pugnalato. Raccolto che già era spirato, portato verso la città, fu deposto nella prima basilica fuor delle mura, a San Simpliciano, e là accorse il popolo di Milano desolato, a vederlo un’ultima volta, a baciar i suoi abiti insanguinati e strapparne i lembi come reliquia sacra; e l’indomani fu trasportato, con pompa e dolore solenni, nella sua chiesa, a Sant’Eustorgio, ove fu seppellito.
Il fanatismo circondò la sua memoria, il culto santificò il suo nome: il popolo battezzava i suoi figlioli col nome di Pietro Martire, e in tutti i paesi della Lombardia e in molti fuori sorsero altari in onore dell’inquisitore assassinato.
Ma forse che lo spirito del Domenicano, — sincero nel suo fervore d’apostolo, — trovatosi al di là della vita in faccia alla verità, non sa rassegnarsi al culto di credenti ch’egli traviò senza volerlo? Le sue ossa mai non trovarono pace nella chiesa dove furono sepolte: tramutarono sarcofago e cappelle e altari: erano i suoi divoti che mai non lo lasciavano posare. La testa fu perfino staccata dal busto, e anch’essa mutò più volte di posto: portata nella casa dell’arcivescovo Giovanni Visconti, questi è preso da dolori al capo così atroci da fargli pensare che la testa del santo voglia ritornare in chiesa, e vi è riportata, mutando ancora più volte di reliquiario, finchè posò nella teca di cristallo, quasi che fosse uscito fuori per guardare un’ultima volta al mondo e dire l’ultima parola al popolo.
Perfino il magnifico dipinto del Tiziano, posto dai Domenicani di Venezia nella chiesa di San Giovanni e Paolo, — in cui Pietro da Verona, steso sul terreno, alzava gli occhi, non al pugnale che gli era sopra, ma con espressione di intensa beatitudine verso la gloria che intravvedeva luminosa nel cielo — non trovò quiete neppur esso sull’altare. Nel 1797 i Francesi se lo portarono via a Parigi insieme ai cavalli di San Marco e a tutti gli altri tesori; poi, restituito al suo altare, vi arse nel 1867 in una fiammata, che forse concesse finalmente la pace allo spirito agitato che tanti roghi accese per bruciar gli eretici.
Ora, chi entra nella chiesa di Sant’Eustorgio, e oltrepassate le cappelle cogli splendidi monumenti dei patrizi, al di là dell’altar maggiore si ritrova nella maravigliosa cappella di Michelozzo, davanti al ricco mausoleo del santo scolpito da Giovanni Balduccio da Pisa, è preso da un senso profondo di rispetto, quasi che dopo aver assistito al martirio che non lasciò pace per secoli alle ossa di Pietro da Verona, fosse penetrato dalla certezza della sua santità e della sua gloria.
Forse nella splendida cappella, ad ispirare gli artisti toscani che vi lavoravano collo scalpello e col pennello, insieme a Pigello Portinari che la faceva costruire, veniva tratto tratto anche Bianca Maria Visconti, la dolce compagna di Francesco Sforza, così divota alla chiesa, così devota al marito, così innamorata dell’arte.
Nelle esili, soavi figure d’angeli che sembrano danzare fra ghirlande di fiori e di frutti variopinti, nelle testine scolpite di cherubini che sorridono dalla fascia intorno, nei nimbi, nei raggi d’oro, in tutte le figure dell’affresco che ricopre la cappella è una così gentile idealità, che ci par di vedere le mani degli artisti farsi lievi, penetrate di turbamento e di rispetto sotto gli sguardi della Duchessa intenta all’opera loro.
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.... Uscendo sulla piazza, nel corso popoloso, fra le baracche de’ venditori ambulanti, ci rivolgiamo un’ultima volta verso la bella chiesa restaurata, alziamo gli occhi all’alto campanile rimasto immutato da quando Azzone Visconti lo eresse, e ci vien fatto di pensare alla fallacità della giustizia umana e all’infallibilità della divina.