Vita di Erostrato/Capitolo IX
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Le imprese militari
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CAPITOLO IX.
Le imprese militari.
Ma Erostrato vie più nojato di vita così molle si ricoverava spesso negli orti di Testoride, ove si ragionava alternamente della violenza di Sparta, e della magnanimità di Tebe con diverse opinioni. Temeano gli uomini provetti il destino di Sparta come quella che, per costante fortuna divenuta arbitra di tutta la Grecia, prometteva gli eventi futuri simili a’ trascorsi. I giovani per lo contrario bramosi di vicende inopinate esaltavano Tebe, e quant’erano maggiori i pericoli di quella, tanto più ne erano caldi ammiratori. Erano però tutti concordi che fosse da valoroso il farsi partecipe di così grande emulazione. Ma quantunque la maggior parte della Grecia stimasse iniqua la impresa di Sparta, pure la sua fortuna soverchiante confondeva gli intelletti; perocchè una straordinaria perversità favorita dagli avventurosi successi, opprime non che la libertà della lingua quella de’ pensieri. Pur non così in quegli orti asilo di franchi ragionamenti. Rimaneano più calmati che spenti nel petto senile di Testoride gli sdegni marziali. In quella commozione riaccesi impugnava l’antica asta, vibrava frecce dall’arco poderoso, invitando con prove tarde ma generose la gioventù ad imitarle; la quale con finti abbattimenti faceva risonare gli scudi, gli elmi, e le corazze percosse, e rombare l’aere co’ dardi, e con le fionde. Stavano intanto i veterani a contemplare lieti quell’apparecchio di vittorie. Le fanciulle palpitavano di gioja quando gli amanti coglievano il bersaglio, ed alle madri grondavano le ciglia per tenera compiacenza. Testoride considerando con quale destrezza ed animo anelava Erostrato in quella palestra, vie più si dolea della fortuna invidiosa, la quale non gli avea conceduto un tal genero che un giorno solo di tutta la sua vita insieme il più lieto, e il più funesto.
Omai la gioventù di Lemno a drappelli navigava in Grecia schierandosi molti nella parte più forte, e pochi nella più giusta. Fra questi deliberato Erostrato d’annoverarsi; lasciando a Testoride la cura di consolare con offizj pietosi Agarista, egli cheto navigò a Tebe. Ivi presentandosi ad Epaminonda allora in procinto di muovere i suoi, favellò con sì grande animo, che quell’eccelso uomo ne sentì maraviglia. Perchè non solo si mostrò consapevole delle ragioni di Tebe e le espose con forza e verità, ma quasi gli sonasse in petto una sacra voce presaga del futuro, affermava che gl’Iddii stanchi dell’orgoglio Spartano, non voleano essere più partecipi della ignominia di quello. Chiedeva anco animosamente di non stare fra la turba de’ combattenti, ma in quella banda allora denominata sacra di trecento sceltissimi giovani, i quali avean giurato di non sopravvivere alla sconfitta. Pelopida loro capitano mosso da così nobile richiesta dello straniero lo avrebbe ascritto fra quelli, se già non ne fosse stato il novero compiuto. Pure lodandolo altamente per quella generosa brama, e per non lasciare senza esperimento una occulta virtù che aspirava a manifestarsi, lo prepose a cento fanti di leggera armatura. Di che lieto il giovane fece di se voto agli Dei infernali al cospetto de’ Capitani, giurando non ritornare vinto. Ma già d’ambe le parti s’inoltravano a scontrarsi gli eserciti, i quali giunti a poco intervallo nella vasta pianura di Leuctre in Beozia fra Platea e Tespi, si preparavano al combattimento. Era notte, e un cupo silenzio dominava così nell’uno e nell’altro campo che sembravano deserti. Forbivano gli usberghi, le celate, gli scudi: altri affilavano le spade, e le aste, tutti erano bramosi dell’aurora. A’ primi albori della quale diedero il segno le trombe. Il nitrito de’ corsieri gareggiava col suono di quelle ad annunziare lo scontro. Il calpestio delle ferrate ugne manifestava la impazienza di cimentarsi. Il rombo delle frecce diè principio al combattimento. Elle quasi nembo produceano ombra sul campo. Traforavano gli scudi: si conficcavano nelle corazze e ne’ corpi con tormentose ferite. Per alleviare le quali se taluno procurava svellere il dardo, la punta oncinata vie più ne inaspriva lo spasimo opponendosi alla uscita. Nè le faretre soltanto somministravano i dardi, ma ciascuno ne coglieva de’ lanciati; finchè si venne a’ corpi. Già il sole era testimonio di così illustre contesa: al suo raggio splendevano le armi, e le armature quasi specchi abbaglianti. Usciva dalla mischia uno strepito simile a mare tempestoso. Giove tenne in bilancia la sorte fino al meriggio. Allora declinò quella de’ Spartani, i quali oppressi da Fato si volsero in fuga superati dall’impeto de’ Tebani. Questi alzarono trofei nel campo, e incontinente giovandosi della vittoria invasero il Peloponneso; Elide, Argo, l’Arcadia tutta e la Laconia si sollevarono contro i vinti. Gli Spartani da sei secoli in poi non avevano veduto entrare nelle terre loro il nemico, ed ora sofferivano così umiliante ammaestramento di bellica fortuna. Erostrato in quel conflitto con la sua banda di cento eletti avea combattuto più con fierezza, che con arte. L’ira marziale impadronendosi dell’animo suo al suono delle trombe, all’aspetto de’ nemici, alla vista della strage produsse nel petto suo una ebbrezza di sangue. Sterminava dimentico di se, e della centuria sua i nemici che lo circondavano. E però quanto si riconobbe il suo feroce valore, tanto apparve non atto a guidare l’altrui. Uscì illeso dalle disperate sue prove, nel che soltanto gli fu propizia la fortuna. Nel rimanente fu accolto da Epaminonda con freddo contegno, e però deluso nelle concepute sue speranze; sottentrò a queste uno sdegno vie più tormentoso allorchè videsi defraudato di onori militari, quando ne ottenevano molti altri intervenuti a quella giornata.