Vita (Alfieri, 1804)/Epoca III./Cap. XIII.
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1772 perfettamente guarito in Germania, ed altrove; senza dar retta all’ingordo Chirurgo di Monpellieri, avea proseguito, come dissi, il mio viaggio rapidissimamente. Ma lo strapazzo stesso di due mesi di viaggio avea molto aggravato il male. Onde al mio arrivo in Torino, sendo assai mal ridotto, ebbi che fare quasi tutta l’estate per rimettermi in salute. E questo fu il principal frutto dei tre anni di questo secondo mio viaggio.
CAPITOLO DECIMOTERZO.
Poco dopo essere rimpatriato, incappo nella terza rete amorosa. Primi tentativi di Poesia.
Ma benchè agli occhi dei più, ed anche ai miei, nessun buon frutto avessi riportato da quei cinque anni di viaggi, mi si erano con tutto ciò assai allargate le idee, e rettificato non poco il pensare; talchè, quando il mio cognato mi volle riparlare d’impieghi diplomatici che avrei dovuto sollecitare, io gli risposi: Che avendo veduti un pochino più da presso ed i Re, e coloro che gli rappresentano, e non li potendo stimare un jota nessuni, io non avrei voluto rappresentare nè anche 1772 il Gran Mogol, non che prendessi mai a rappresentare il più piccolo di tutti i Re dell’Europa, qual era il nostro: e che non rimaneva altro compenso a chi si trovava nato in simili paesi, se non se di camparvi del suo, avendovelo, e d’impiegarsi da se in una qualche lodevole occupazione sotto gli auspicj favorevolissimi sempre della beata Indipendenza. Questi miei detti fecero torcere moltissimo il muso a quell’ottimo uomo che trovavasi essere uno dei Gentiluomini di camera del Re; nè mai più avendomi egli parlato di ciò, io pure sempre più mi confermai nel mio proposito.
Io mi trovava allora in età di ventitre anni; bastantemente ricco, pel mio paese; libero, quanto vi si può essere; esperto, benchè così alla peggio, delle cose e morali e politiche, per aver veduti successivamente tanti diversi paesi e tanti uomini; pensatore, più assai che non lo comportasse quell’età; e presumente anche più che ignorante. Con questi dati mi rimaneano necessariamente da farsi molti altri errori, prima che dovessi pur ritrovare un qualche lodevole ed utile sfogo al bollore del mio impetuoso intollerante e superbo carattere.
In fine di quell’anno del mio 1773 1773 ripatriaemnto, provvistami in Torino una magnifica casa posta su la piazza bellissima di S. Carlo, e ammobigliatala con lusso e gusto e singolarità, mi posi a far vita di gaudente con gli amici, che allora me ne ritrovai averne a dovizia. Gli antichi miei compagni d’Accademia, e di tutte quelle prime scappataggini di gioventù, furono di nuovo i miei intimi; e tra quelli, forse un dodici e più di persone, stringendoci più assiduamente insieme, venimmo a stabilire una società permanente, con ammissione od esclusiva ad essa per via di voti, e regole, e buffonerie diverse, che poteano forse somigliare, ma non erano però, Libera Muratoreria. Nè di tal società altro fine ci proponevamo, fuorchè divertirci, cenando spesso insieme; (senza però nessunissimo scandalo) e del resto nell’adunanze periodiche settimanali la sera, ragionando o sragionando sovra ogni cosa. Tenevansi queste auguste sessioni in casa mia, perchè era e più bella e più spaziosa di quelle dei compagni, e perchè essendovi io solo si rimanea più liberi. C’era fra questi giovani (che tutti erano ben nati e dei primarj della città) un po’ d’ogni cosa; dei ricchi e dei poveri, dei buoni, dei cattivucci, e degli ottimi, degli ingegnosi, degli sciocchetti, e dei colti: onde da sì fatta
mistura, che il caso la somministrò ottimamente 1773 temperata, risultava che io nè vi potea, nè avrei voluto potendolo, primeggiare in niun modo, ancorché avessi veduto più cose di loro. Quindi le leggi che vi si stabilirono furono discusse e non già dettate; e riuscirono imparziali, egualissime, e giuste; a segno che un corpo di persone come eramo noi, tanto potea fondare una ben equilibrata repubblica, come una ben equilibrata buffoneria. La sorte e le circostanze vollero che si fabbricasse piuttosto questa che quella. Si era stabilito un ceppo assai ben capacé, dalla di cui spaccatura superiore vi si introducevano scritti d’ogni specie, da leggersi poi dal Presidente nostro elettivo ebdomadario, il quale tenea di esso ceppo la chiave. Fra quegli scritti se ne sentivano talvolta alcuni assai divertenti e bizzarri; se ne indovinavano per lo più gli autori, nla non portavano nome. Per nostra comune e più mia particolare sventura, quegli scritti erano tutti in ( non dirò lingua ), ma in parole Francesi. Io ebbi la sorte d’introdurre varie carte nel ceppo, lè quali divertirono assai la brigata: ed erano cose facete miste di filosofia e d’impertinenza, scritte in un Francese che dovea essere almeno non buono, se
1773pure non pessimo, ma riuscivano pure intelligibili e passabili per un uditorio che non era più dotto di me in quella lingua. E fra gli altri, uno ne introdussi, e tuttavia lo conservo, che fingeva la Scena di un Giudizio Universale, in cui Dio domandando alle diverse anime un pieno conto di se stesse, ci avea rappresentate diverse persone che dipingevano i loro proprj caratteri: e questo ebbe molto incontro perchè era fatto con un qualche sale, e molta verità; talché le allusioni, e i ritratti vivissimi e lieti e variati di molti sì uomini che donne della nostra città, venivano riconosciuti e nominati immediatamente da tutto l’uditorio.
Questo piccolo saggio del mio poter mettere in carta le mie idee quali ch’elle fossero; e di potere, nel farlo, un qualche diletto recare ad altrui, mi andò poi di tempo in tempo saettando un qualche lampo confuso di desiderio e di speranza di scrivere quando che fossa qualcosa che potesse aver vita; ma non mi sapeva neppur io quale potrebbe mai essere la materia, vedendomi sprovvisto di quasi.tutti i mezzi. Per natura mia prima prima, a nessuna altra cosa inclinava quanto alla Satira, ed all’appiccicare il ridicolo si alle cose che alle persone. Ma pure poi riflettendo e pesando,
ancorché mi vi paresse dovervi aver forse qualche 1773 destrezza, non apprezzava io nell’intimo del cuore gran fatto questo si fallace genere; il di cui buon esito, spesso momentaneo, è pesto e radicato assai più nella malignità e invidia naturale degli uomini gongolanti sempre allorché vedono mordere i loro simili, che non nel merito Intrinseco del morditore.
Intanto per allora la divagazione somma e continua, la libertà totale, le donne, ì miei 24 anni, e ì cavalli di cui avea spinto il numero sino a dodici e più, tutti questi ostacoli potentissimi al non far nulla di buono, presto spegnevano od assopivano in me ogni qualunque velleità di divenire autore. Vegetando io dunque cosi in questa vita giovenile oziosissima, non avendo mai un istante quasi di mio, né -mai aprendo più un libro di sorte nessuna, incappai ( come ben dovea essere ) di bel nuovo in un tristo amore; dal quale poi dopo infinite angosce, vergogne, e dolori, ne uscii finalmente col vero, fortissimo, e frenetico amore del sapere e del fare, il quale d’allora in poi non mi abbandonò mai più; e che,se non altro, mi ha una volta sottratto dagli orrori della noja, della sazietà, e dell’ozio; e dirò più, dalla disperazione; verso la quale a poco a poco io mi 1773 sentiva strascinare talmente, che se non mi fossi ingolfato poi in una continua e caldissima occupazione di mente, non v’era certamente per me nessun altro compenso che mi potesse impedire prima dei trent’anni dall’impazzire o affogarmi.
Questa mia terza ebrezza d’amore fu veramente sconcia, e pur troppo lungamente anche durò. Era la mia nuova fiamma una donna, distinta di nascita, ma di non troppo buon nome nel mondo galante, ed anche attempatetta; cioè maggiore di me di circa nove in dieci anni. Una passeggera amicizia era già stata tra noi, al mio primo primo uscire nel mondo, quando ancora era nel primo Appartamento dell’Accademia. Sei e più anni dopo, il trovarmi alloggiato di faccia a lei, il vedermi da essa festeggiato moltissimo; il non far nulla; e l’esser io forse una di quelle anime di cui dice con tanta verità ed affetto il Petrarca:
ed in somma il mio buon Padre Apollo che forse per tal via straordinaria mi volea chiamare a se; fatto si è, ch’io, benchè da principio non l’amassi, nè mai poi la stimassi, e