Versi sciolti dell'abate Carlo Innocenzio Frugoni/10
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AL P. FEDERIGO SANVITALI
DELLA COMPAGNIA DI GESU’
Sopra gli studi Poetici di esso dottissimo Padre; e com-
menda il Signor Conte JACOPO SANVITALI pel fa-
vore che presta alle belle arti, e per le altre sue ra-
re doti.
Umil risposta da le tacit’ ombre
De l’amena Vigatto, ove la bionda
Cerere, e il buon Leneo vestono i Campi,
5De i celebrati Terzi estivo albergo?
Forse i bei versi tuoi scordar potei,
Inclito Federigo, e ognor la mente
Anzi non ebbi, quante mai nel Cielo
Sorsero da quel dì candide lune
10Ebbra, e gioconda del lor dolce suono?
Quando quel soglio tuo, come tentata
Indica vena i suoi tesor dischiude,
Agli occhi miei non aspettato aperse
Occulti sensi, e le parole adorne,
15Per soverchio piacer qual mi restassi,
Per me tel dica la faconda Euterpe,
Che, quando indi pensose alzai le ciglia,
Destra m’apparve, ed in ver me sorrise.
Manto di gemme avea, ghirlanda avea
20D’Etrusco alloro, e tra le rosee dita
Ebano armato di sonore corde,
Guiderdon de gli Eroi, Vita de i Nomi;
E con quel volto, che purpurea luce
Di superna beltà spargendo vibra
25Faville di bel foco, e a che, mi disse,
Maravigliando vai? Credevi forse,
Che l’almo Ingegno, onde a ragion superbo
Fassi de’ Sanvitali il nobil sangue
L’Itale argute cetre, a i Toschi modi
30Severo troppo non avesse in pregio?
Ben Ei de gli anni suoi sul fiorir primo,
Come spirante nel suo cor secreta
Libera del Ciel volle aura vittrice,
Titoli antichi, e lusinghieri doni,
35E splendor lungo di ricchezze avite,
Garzone invitto, abbandonar poteo.
Ma poiche de la Mente aperte 1’ali
Ne 1’auree di Lojola egregie scole
Tentando i vasti, venerandi abissi,
40Col taciturno meditar profondo
De la Divinità lo arcane cose,
I beati principj, e i sempre giusti
Decreti sculti in adamante eterno,
E l’alte leggi, onde di Grazia sorge
45L’ordine augusto, e quelle, onde Natura
Prende moto, e governo, ebbe egli cerco,
Non egli i dolci lavor nostri, ond’ hanno
Del supremo Fattor 1’opre ammirande
Lode, che colassù grata a Lui sale,
50Come offerto vapor d’arabo incenso,
Nè i fonti nostri, onde canora lingua
Le fatidiche note, e i grandi accenti
Pieni del primo, immenso Vero attinge,
Disdegnar seppe: anzi nel casto petto
55Dove suo seggio Sapienza elesse,
Io gli estri vivi, io le sublimi forme
E le immagini altere io si gl’impressi,
Ch’egli repente al slavo Mela in riva
Versi cantò, che nel perenne Cedro
60Parma a le tarde età riponga, e serbi.
Tu, ch’io propizia pur mirai nascente
Non ultima di Giano oscura gloria,
Per cenno mio più nol tacer, che questo
Singolar pregio suo più fra le genti
65Ir taciuto non dee. Disse, e spirando
Divino odor da le dorate chiome
La Dea disparve. Or, Federigo, vedi
Donde in Te venne il novel pronto ardore,
Che l’arduo calle di perpetuo timo,
70Di spesso Mirto, e di Pierie rose
Sempre ridente, ove vagar solea
Il Savonese mio, sì dolcemente
Ti trasse a depredar, nova d’industri,
Puri, nettarei carmi ape Maestra.
75Non io, che vidi il sacro Bosco, e vidi
L’intonso Apollo, e le eloquenti Dive,
Ti fei Poeta, ma di pochi amica
La stetta Euterpe di sua man ti scorse
In Elicona, ove ti diè di Cigno
80Le audaci penne, e 1’animoso canto.
Ed oh se mai t’avea la natal piaggia,
Quando al Tuo Narbonese, in Ciel già fatto
Lucido Spirto su le tue paterne
Sponde spiegò solenne pompa il Tempio,
85Che da Rocco si noma, ove di Lui,
Poiché cessaro gli Oratori illustri,
Presero a ragionar le nostre Muse,
Quale or d’altr’ Inni, che Tu esperto Fabbro
Sai ricercar su le loquaci fila
90De l’armonico tuo gemmato plettro
Raro egli fregio in su gli Altari avrebbe?
Queste Tu intanto ne 1’aperto giorno
Or ora apparse non vulgari carte,
Ricche de i pregi suoi, ricche de i doni,
95Che rado apre fra noi 1’Arte de’ Vati
Saettatrice del vegnente obblio,
Ricevi, e degna de’ tuoi dotti sguardi.
Qual non in esse troverai ferace
Bella Messe Febea, che a l’agil lume
100Nata del pensar retto, e poi da l’ampie
Del fecondo saper vene irrigata
Su i venturosi suoi floridi solchi,
Colse il tuo gran Germano alma felice,
Che viva d’onor fede, e vivo esemplo
105Di quante in nobil cor denno aver stanza
Magnanime Virtudi, il patrio lido,
E carca d’anni, e di vetusta fama
L’arbor paterna, e questo secol guasto
Largamente rischiara, e raccor gode
110Sotto il suo Manto i gloriosi studj,
Che già di Mecenate, e già d’Augusto
Caro diletto, e memoranda cura,
Poveri di favor, non senza amaro
E ingrato obbrobrio tuo, squallidi, e mesti
115Or van per le tue terre, Italia, errando?
Non ei per oro, che da voglie avare
Somma quaggiuso mal si dice, e tiensi
Felicitate, nè per molte insegne,
Che appese a i Muri san di prische stirpi
120Memoria, e sembran rampognar tacendo
I molli insiem degeneri Nepoti,
Crede dover, lento sedendo in piuma
Non curar l’arti, ne le quai non ave
Parte, o diritto la volubil sorte,
125Nostre, finchè beviam queste soavi
Aure di vita, e nostre a i fausti tempi,
E a gli avversi non meno, e nostre ancora
Di là dal cencr muto, e dopo il vano
Estremo onor de la marmorea tomba;
130Ma queste egli ama, e di gentil fatica
Vago in queste s’avvolge, e del suo lauro
Mirabilmente tutto Pindo onora.
Or chi mi vieta, che di buon legnaggio
Te rimirando sì lodato germe,
135Eccelso Federico, io fra i mortali
Te non erga a le stelle, e Te non chiami
Di bell’invidia degno, a cui fu dato
Sì prode uscir da generosa Pianta,
Che tanto al Ciel le verdi cime alzando
140Quanto il profondo piè stende sotterra,
De i numerosi secoli non sente
Le insidie, e i danni, e quasi legno eletto,
Che in ben guardato suoi securo alligna
Lungo il corrente umor di limpid’ acque,
145Quanto più invecchia, più robusta, e lieta
Vien d’altri miglior frutti, e d’altri rami.