Varcata il mezzo avea
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ii
il letto
Per le nozze di Francesco Gonzaga, principe di Mantova,
e di Margherita infanta di Savoia.
(1608)
Varcata il mezzo avea
del suo negro sentiero,
e del nostro emispero
la Notte il sommo a posseder sorgea.
La faretrata dea
da la cima del cielo
con saette argentate il denso velo
fería de l’aria bruna,
sí che dubbio facea s’er’alba o luna.
Quanti lumi cortesi,
signorili e ridenti,
ha nel suo tetto ardenti,
tanti n’avea l’eterno tempio accesi;
né d’alcun’ombra offesi
eran lor chiari rai;
né de l’ottavo giro aperse mai
piú sereni splendori
piú bella notte a piú felici amori.
Taceano d’ogn’intorno
ne le festive scene
e le danze e le cene,
onde il Mincio e la Dora alzano il corno;
e nel real soggiorno
de’ ricchi alberghi altèri
giá sonnacchiosi avean paggi e scudieri
a ciascun lume spento
dato sepolcro in forbice d’argento.
In quieti riposi,
tra molli lini e bianchi,
traean languidi e stanchi
Margherita e Francesco, i regi sposi;
e ’n arringhi amorosi
dove l’ire e i contrasti
erano vezzi, ove vezzosi e casti
eran scherzi gli schermi,
guerreggiavano in pace, atleti inermi.
Fu lor campo e steccato
cameretta soave,
la cui secreta chiave
volgea, fido custode, arciero alato.
Qui con l’eroe ben nato
era franca ed ardita
la leggiadra aversaria a fronte uscita.
Eran loriche e scudi
contro i teneri colpi i seni ignudi.
Gran padiglione in alto
facea raccolto in giro
con porpora di Tiro
ombra ricca e pomposa al dolce assalto;
dove trapunti a smalto
avea superbi e vaghi
trofei d’Emanuelli e di Gonzaghi,
con topazio e piropo,
da negra man trattato ago etiòpo.
Sparso il morbido letto
di spiriti odorati
aveano arabi fiati;
e per tutto essalava il nobil tetto
sospir di fumo eletto,
vapori almi e divini,
aliti preziosi e peregrini,
aure pure e leggiere
d’indiche gomme e di misture ibere.
Vigilava con loro
presso le care piume
con scarso e debil lume
vacillante favella in doppier d’oro;
e parea dire: — Io moro,
anch’io, luce lasciva,
con voi moro e mi struggo in fiamma viva. —
Ma intanto a dramma a dramma
le bell’alme struggea piú viva fiamma.
Formavan le bell’alme
ed amanti e nemiche
risse d’amor pudiche,
e ’n lieta lizza, a dilettose palme
provocando le salme,
innocenti omicide,
alternavan tra lor dolci disfide,
dove pungenti e caldi
eran trombe i sospiri, i baci araldi.
Pioveano i baci a groppi,
grandinavano a mille;
quante il foco ha faville,
atomi il Sol, cotanti eran gli scoppi.
Amor tenaci e doppi,
piú che d’edre o di polpi,
ordina i nodi e, raddoppiando i colpi
de’ baci senza fine,
il numero scrivea su le cortine.
Mandan le bocche unite
fin giú ne’ cori i baci;
i cori, mal capaci,
trânno ne’ baci fuor l’alme invaghite;
l’alme, d’amor rapite,
sen van felici e liete
nel fonte del diletto a trar la sete,
lá dove lor son fatte
poppe le labra e la dolcezza è latte.
Spesso i baci in oblio
pone il garzon, rivolto
a vagheggiar quel volto,
raggio gentil de la beltá di Dio.
Quivi l’occhio e ’l desio
ferma e sospira e tace;
e quasi aquila a Sol, farfalla a face,
arde e dice tacendo:
— Vo’ mirando morir, mirar morendo. —
Ne’ tremuli zaffiri
de le luci beate,
le luci innamorate
talor torcendo in pietosetti giri,
suoi giocondi martíri
le racconta e distingue,
e ’n una lingua sol forman due lingue
parolette sorrise,
spesso da baci e da sospiri uccise.
— O bellezza celeste,
de’ miei dolor conforto,
soavissimo porto
de l’amorose mie gravi tempeste,
son pur le membra queste
(e non sogno e non fingo?),
son pur quelle ch’amai, queste ch’io stringo?
pur del mio bene intatto
possessor fortunato oggi son fatto?
Ma chi contende e vieta
mercede ai giusti preghi?
perché toccar mi neghi
de le speranze mie l’ultima mèta?
perché, cortese e lieta,
quel fior meco non cogli,
ond’hanno in breve a derivar germogli,
ch’empier di nobil frutto
denno, nonché l’Italia, il mondo tutto?
S’è ver ciò che predice
la mia Manto indovina,
s’a ciò, che ne destina
in sue promesse il ciel, creder ne lice,
degli avi emulatrice,
simile a noi, da noi,
con lunga scaturigine d’eroi,
verrá che nasca a regni,
fia che cresca a’ trofei, serie di pegni. —
Fresca rosa somiglia
la vergine a quel dire;
e, come ricoprire
voglia se stessa pur sotto le ciglia,
languidetta e vermiglia
i lumi abbassa, e ’ntanto
in risposta non rende altro che pianto;
ond’egli a poco a poco
beve in duo rivi d’acqua un mar di foco.
Sul talamo, sostegno
de’ notturni trastulli,
i volanti fanciulli
traslata avean d’Amor la reggia e ’l regno.
Chi pon con scaltro ingegno
sotto la guancia bella
origlieri di rose a la donzella;
chi del giovane stanco
fa de le piume sue piume al bel fianco.
Or in sí fatto agone,
mentre a strette contese
di ripari e d’offese
son la bella guerriera e ’l bel campione,
sul fin de la tenzone,
tra le fughe e le mosse,
l’alme drizzando a l’ultime percosse,
con incontro d’amore
l’una è còlta nel sen, l’altro nel core.
Cosí vinto, l’invitto,
mentre trafigge e ’mpiaga,
cade e sovra la piaga
resta in battaglia il piagator trafitto.
Lentan nel gran conflitto
i cori ai sensi il freno;
vengon, tremando e sospirando, meno
gli spiriti anelanti;
cessan dai moti lor gli occhi tremanti.
L’alme sui vanni accorte,
tra quelle gioie estreme,
spiegando il volo insieme,
giá del cielo d’Amor vedean le porte;
e, morendo la morte
di quel piacer sí caro,
fôran giunte a bearsi ambi di paro;
ma, nel mirarsi in viso,
giudicano men bello il paradiso.
Amor, poscia che strinse
l’uno a pugnar con l’altro,
giudice accorto e scaltro
de la pugna dubbiosa, il vel si scinse;
e di sua man s’accinse
ne la benda a raccôrre,
quando vedesse alfin l’armi deporre
la bella coppia essangue,
de la prima ferita il primo sangue.