Una famiglia di topi/Capitolo ottavo
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CAPITOLO OTTAVO
ra le poche famiglie rimaste fedeli ai conti Sernici (poichè, pur troppo! nella sventura si trova di rado chi abbia tanto buon cuore da starci vicino e farci coraggio), c’era la famiglia Delpiano, composta solamente d’una giovane vedova, buona come un angelo, e del suo figlioletto Vittorio, quasi coetaneo di Nello e il suo miglior amico. Si può dire che que’ due ragazzi fossero a dirittura cresciuti insieme. E se fin qui non s’è ancor nominato Vittorio Delpiano, gli è che il fanciullo era stato quasi un anno presso il nonno paterno, ricco signore un po’ bislacco, che lo adorava a segno da minacciar di continuo la signora Delpiano di diseredare il nipote, s’ella non glielo lasciava vicino il maggior tempo possibile.
La vedova, che il nonno non vedeva di buon occhio perchè, a parer suo, aveva portata sventura al figliuolo ch’era morto dopo appena due anni di matrimonio, doveva, pensando all’avvenire di Vittorio, rassegnarsi a star tutto quel tempo priva del suo bambino; e lei si consolava passando molte ore in casa Sernici, dove i ragazzi, per il gran bene che le volevano, erano giunti perfino a chiamarla zia; e carezzava, carezzava Nello, come s’egli fosse la creatura di lei.
Quando finalmente Vittorio tornava, si faceva festa, una vera festa del cuore; tutti ridevano, s’abbracciavano, godevano come poche volte si gode nella vita.
Quell’anno, quando il piccolo Delpiano lasciò il nonno, sapeva di già, dalle lettere di Nello, della famiglia de’ topi; e Dio sa quanto ne aveva fantasticato presso quel vecchio originale, che si professava nemico giurato di qualunque bestiola, e si vantava che in casa sua, di bestie, entravano soltanto le mosche, perchè venivano dalle finestre, senza invito.
Quando poi Vittorio vide i sorci indiani, rimase a bocca aperta dall’ammirazione.
― Ma è proprio vero che conoscono il loro nome? ― domandava egli a Nello con un sorriso incredulo e curioso.
― Guarda! rispondeva l’altro, cominciando a chiamar i topini, che accorrevano ubbidienti, a uno a uno, come tanti cagnoli.
― Pare impossibile! ― esclamava Vittorio, rapito.
― E sai come Dodò fa la sentinella col fucile!
― Davvero?
― Guarda! Dodò, serio, grave, afferrava la sua piccola arma di legno, e restava lì piantato, immobile, appoggiando la testa alla canna, assai più lunga di lui.
— Bravo Dodò, mio Dodò! — diceva Nello al buon topino; e gli offriva, subito dopo, una pallottola di zucchero in ricompensa de’ begli esercizi, fatti con tanta precisione.
— E questo? — badava a dir Vittorio, indicando Moschino. — Mi piace più di tutti con quel bel disegnino nero sul dorso!
— Questo è un gran birichino — dichiarava la Rita, sorridendo; — ma la mamma dice che si fa perdonar tutto, a furia di grazia e di furberia. —
La Lilia poco si faceva vedere: andava frugacchiando un po’ da per tutto in casa, secondo il suo solito. Quanto a Bellino, così giucchino com’era, ebbe soltanto un successo di leggiadria, per il candore di neve della sua veste e per gli occhietti che parevano di rubino.
Quella che a dirittura sedusse il piccolo Delpiano fu la Ninì.
Appena egli la vide, fu preso da una tenerezza particolare per una topina così naturalmente malinconica.
— O ch’è malata? — domandò con premura.
— No, no; — assicurarono i ragazzi Sernici, carezzando la Ninì — sta benissimo; ma non ruzza mai e non bacia mai nessuno. È stata sempre come la vedi, da quando è nata. ―
Vittorio badava a pigliarla in mano, a tenersela accosto alla bocca, a susurrarle tante parole tenere.
E finì col dire: ― Ne avete troppi de’ topini, voi altri, e non potete attendere a tutti, s’intende.
La signora Delpiano, che leggeva nel cuore del figliuolo, fece un segno d’intelligenza alla contessa, poi disse:
― Che si scommette che Vittorio vi chiede una di queste bestioline, la Ninì, per esempio?... Non è vero che si chiama Ninì la sorcina malinconica? ―
I ragazzi Sernici si guardarono arrossendo; e più rosso di loro, a dirittura di bragia, si fece il loro piccolo amico.
Rita cominciò:
― Come si fa.... ―
E Nello continuò il pensiero di lei:
― A star senza la Ninì? ―
Allora Vittorio, incoraggiato dal sorriso di sua madre e della contessa, trovò le parole giuste.
― Se mi date la Ninì, è lo stesso che se la teneste voi altri. Ve la porto sempre qui; sapete che sta bene, che io la tengo come la tenete voi, anzi..... meglio.
— Meglio? — gridarono all’unisono la Rita e Nello, meravigliati, quasi offesi. L’altro si spiegò:
— Meglio, sì, perchè io penso soltanto a lei.
— Non te la possiamo dare — dichiarò recisamente la Rita.
Nello baciava la topina, e guardava l’amico senza far parola.
A un tratto, Vittorio, da bimbo com’era, si mise a singhiozzare e corse a nascondere il viso sul seno della propria mamma.
I ragazzi Sernici, che aveano buon cuore, si commossero molto per la pena dell’amico loro; e Rita, la prima, gli andò vicino con belle maniere, a supplicarlo di non disperarsi così; non c’era ragione di piangere;... Nello e lei gli volevano tanto bene....
O via, non la finiva, dunque?
Dopo un po’ d’esitanza, la bambina andò a dire qualcosa all’orecchio della madre. La contessa protestò.
— Non voglio messe piane, lo sai; quando siamo in conversazione, non si parla sotto voce. In tanto — soggiunse — ho capito, e son più che contenta. Date pure uno de’ vostri topini a Vittorio; e lui gli sarà affezionato quanto voi due. —
La Rita sorrise, forse con un’ombra di rincrescimento; non già per mancanza di affetto verso il compagno di suo fratello, ma perchè il dividere dagli altri uno de’ membri della famigliola topesca le faceva male al cuore.
Nello fu meno inquieto; ciò non ostante disse a Vittorio:
— Devi portarcela qui tutte le volte che vieni, bada bene! —
L’altro, gongolante di gioia, prometteva tutto quel che volevano; saltava, rideva, copriva di baci la bestiola; non fu tranquillo se non quando la contessa Sernici gli ebbe affidata la topina accomodata sopra un lettuccio di bambagia, un vecchio panierino di scuola.
E intanto la contessa raccomandava alla signora Delpiano:
— Mi raccomando, veh! Bisogna che le voglia bene anche tu. È tanto carina quella piccola sentimentale! —
Fu così che la Ninì lasciò la dolce casa che l’avea vista nascere.
Sulle prime, quando Vittorio, giunto a casa sua, cavò la sorcetta dal panierino, essa non capì di che cosa poteva trattarsi. Girava la testa a torno, annusando; e si meravigliava di tutta quella novità. Guardinga, co’ fianchi che le palpitavano forte, col musetto dai baffi mobili e irrequieti sempre volto in su, percorse più volte in lungo e in largo la stanza dove l’avevano méssa, ch’era quella da letto di Vittorio. Sentiva un odor nuovo, sconosciuto, nelle persone e nei mobili.
O come si trovava lì sola? Che cosa aveva fatto perchè i suoi cari padroncini l’avessero mandata via a quel modo? Quando avrebbe riveduto i genitori, i fratelli, la sorella e principalmente la sua cara Rita?
Gli occhietti neri e malinconici le si velarono di lacrime; ed era rimasta lì immobile sotto un sofà, quando rientrò Vittorio e si mise a cercarla, chiamandola per nome.
Ninì non si mosse. Non avea voglia d’ubbidire a chi non conosceva.
Cerca, cerca, finalmente il ragazzo la trovò, e la riprese. Le aveva portato un biscotto e un piattino di crema.
— Tieni, mangia, Ninì! — ripeteva egli desideroso di vederla subito assuefarsi a lui e diventargli ubbidiente.
Ma Ninì non degnò d’uno sguardo il biscotto e nemmeno d’una leccatina la crema, che pure mandava un grato odore di vainiglia.
— Vuoi bere, Ninì bella? — chiese il bimbo; e andò in fretta a prenderle un bicchierino d’acqua fresca.
Neanche bere volle.
Allora Vittorio se la mise su la spalla, e le pigliò la testolina fra le dita, grattandole dolcemente il collo, come aveva visto che facevano i Sernici; ma la Ninì volle scendere,
e quando fu di nuovo per terra, corse a rimpiattarsi, come prima, sotto il sofà, poi sotto un armadio, di dove ci volle del bello e del buono per farla uscire.
— Lasciala stare — consigliava la signora Delpiano al figliuolo. — Se tu le fai paura, non s’addomesticherà mai con te: è meglio lasciarla tranquilla. In tanto, mettile lì vicino da mangiare e da bere, perchè non soffra; e a poco a poco lei stessa vedrai che cercherà di avvicinarsi a te. —
Ma Vittorio da quell’orecchio non ci sentiva; e continuò a dar la caccia alla Ninì, finchè sua madre non lo chiamò a pranzo.
Era un ragazzo di buon cuore e, per solito, anche abbastanza ragionevole; ma l’esser egli figlio unico d’una madre vedova, la quale non vedeva che per gli occhi di lui, lo aveva fatto crescere un po’ capriccioso e sempre risoluto a non essere contrariato in ciò che gli piaceva di fare.
Quel giorno, per esempio, si prese più d’una sgridata, una sgridata leggiera del resto, dalla mamma; perchè avrebbe voluto alzarsi ogni momento da tavola, per andar a vedere che cosa faceva la Ninì.
La topina, quando si trovò sola, ricominciò i giri e le ricerche per la camera. Oh, se avesse potuto trovare un buchino donde scappare, e tornarsene a casa sua! In tanto le veniva in mente il racconto spaventevole che Moschino le aveva fatto delle proprie peripezie del mondo. Per andare a casa Sernici chi sa di dove bisognava passare! Dal mondo, certo.... E, a questa idea, la Ninì era còlta da uno sgomento indicibile. Perchè, perchè, Dio di misericordia, l’avevano data via appunto lei, così triste sempre? Ah, quella tristezza che l’aveva oppressa fin dalla nascita, senza ch’ella ne sapesse la ragione, doveva essere il presentimento dell’avvenire, che le si preparava così desolato, solitario, pieno di angoscia! Le bestie son come gli uomini: hanno il loro destino; e guai se il destino è nemico!
Su tali dolorose considerazioni la sorprese Vittorio, che avea terminato di desinare, e tornava a tormentarla; per troppa simpatia, s’intende.
La topina si lasciò acchiappare, ma non ci fu verso di farle toccar cibo. Annusava ciò che le veniva offerto, poi si tirava in dietro.
Per la notte, la signora Delpiano preparò a Ninì una cassettina, dove le fece una morbida materassa; ma la sorcetta, quando tutti furono andati a letto, saltò via: e il giorno di poi era di nuovo laggiù sotto l’armadio, dove non si poteva pigliarla che a gran fatica.
— Se questa bestiola continua a inselvatichirsi e a non mangiare, bisogna assolutamente riportarla ai Sernici — disse la madre di Vittorio al bambino. Ma questi ricominciò a far greppo, e tornaron le lacrime.
Non era certo per ostinazione che la povera Ninì non volea mandar giù nè anche un bocconcino. Proprio non le andava; le pareva d’aver un nodo stretto alla gola, come se l’avessero tirata a forza con una corda; e stava lì ferma dinanzi a que’ piattelli, dove ogni poco Vittorio ammucchiava frutti, chicche ogni sorta di ghiottonerie, sperando d’invogliar di qualcosa quella bella topina, così afflitta e così scontrosa. Per altro, nè carezze nè cibi valsero a nulla: la Ninì rimase indifferente e, ch’è peggio, digiuna.
Quello che più coceva a Vittorio, gli era che, non ostante i suoi pensieri per la topina e il piacere che provava vicino a lei, doveva pur andare alle lezioni. Quella di disegno gli era sopra tutte penosa, perch’era sua maestra una vecchia signorina russa, stravagante come dieci cavalli matti, la quale non tollerava nemmeno che il fanciullo alzasse gli occhi durante quell’ora che lei gli stava davanti.
Qualche giorno dopo che la Ninì era stata portata in casa Delpiano, capitò, secondo il solito, la lezione di disegno; e, con vivo rincrescimento, Vittorio si separò per un’ora intera dalla sua topina.
La Ninì s’era persuasa alla fine, per la gran fame, a sgretolare qualche briciolo di savoiardo, incoraggiata dalle carezze più tenere del nuovo padroncino; ma pensava sempre a tutto ciò che aveva lasciato, e il suo musetto s’era fatto ancor più sottile e malinconico aveva gli occhi come allargati, a forza di guardar davanti a sè, dove potesse trovare la porta di casa. Ah, se Rita e Nello fossero venuti a visitar Vittorio, ella si sarebbe cacciata in tasca a Nello o dentro lo scollo della Rita, o meglio ancora sotto la grossa treccia bionda che pendeva dalla nuca della ragazza; e lì nascosta, aggrappata, felice, non li avrebbe più lasciati mai, mai!
Almanaccando tutto ciò nel suo povero cervellino di topina afflitta, la Ninì badava, come sempre, a rovistare la stanza; spariva sotto il letto, entrava ne’ cassetti socchiusi, esplorava ogni più angusto ripostiglio. A un tratto, il cuore le fece un balzo di gioia. Un balcone, dove si saliva per tre gradini, era spalancato.
La Ninì corse su. Chi sa che di lì non fosse potuta ritornare presso la sua cara famiglia!
C’erano sul balcone alcuni vasi di fiori, rose, camelie, garofani e delle piante rampicanti che ricadevano in fitti rami, per modo da formare de’ ricami di verzura lungo la ringhiera di ferro.
Impetuosamente, nella smania della libertà, la topina si spinse avanti tra le foglie....
Un grido sottile e acuto risonò per l’aria; e un piccolo corpo bianco, simile a un fiocco di neve, cadde sul lastrico della via, e vi restò immobile.
Dei passanti si fermarono, poichè di topi indiani non se ne veggono dimolti; e mai su la strada. La Ninì faceva pietà anche a quelli che avevano il cuore duro più del macigno.
In quel momento una testa ricciuta di bimbo s’affacciò al balcone di dove la bestiolina era precipitata: era Vittorio. Gli bastò un’occhiata, e capì tutto.
Diè un grido; e, come un pazzo, corse a chiamar sua madre: poi giù per le scale, come le gambe lo reggevano.
Facendosi strada tra la gente li raccolta, raccattò, tremando, la sua topina, e la riportò in casa.
Un filo di sangue colava di tra’ dentini ambrati della povera creaturina, e le arrossava il pelo fino alla pancia. I baffi lunghi e setosi le pendevano sul nasetto pallido e anch’esso stillante sangue dalle narici contratte; gli occhi erano vitrei, e d’una tristezza nuova: la tristezza della morte.
Vittorio, livido in viso, non ostante che sua madre tentasse ogni via di consolarlo, guardava fisso, senza dir parola, la povera Ninì, che gli s’irrigidiva in mano.
Di scatto, si buttò sur una poltrona, con la testa nascosta, e scoppiò in un pianto convulso, che parea lacerargli il petto.
La notte ebbe un febbrone e dovette starsene in letto due giorni.