Una famiglia di topi/Capitolo settimo

Capitolo settimo

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CAPITOLO SETTIMO



lcuni giorni dopo quell’eroica avventura, Moschino, fosse la paura avuta o l’umido preso o il troppo zucchero mangiato per riconfortarsi lo stomaco, cominciò a sentirsi un prurito per tutta la pelle; sicchè ogni momento doveva grattarsi fin quasi a farsi uscire il sangue.

Su le prime nessuno gli badò più che tanto; ma una mattina che la Rita lo prese in mano e gli sollevò il pelo, lo vide tutto così scorticato, che faceva pietà. Gli eran [p. 118 modifica]venute delle bollacce, che stentavano a risecchirsi; e Moschino, per mitigare lo spasimo, vi cacciava dentro le unghie, e faceva peggio.

Rita corse piangendo dalla mamma, e le fece vedere il topino. La mamma la consolò, e le promise di chiamare un veterinario. Il veterinario disse che bisognava radere il pelo, lavar bene Moschino con acqua di crusca e ungerlo tutte le sere, prima d’andare a letto, con unguento di zolfo canforato.

Povero Moschino! La contessa se lo prese su le ginocchia, gli mise un asciugamano sotto, e, con un paio di forbicine da ricamo, cominciò a levar via quel bel pelino leggiero, che parea proprio una seta. Moschino gridò per un poco; ma alla fine si rassegnò, s’accovacciò con la testolina inclinata da una parte, e lasciò che gli facessero quel che volevano.

Povero Moschino! Com’era brutto così, con la pelle rossiccia che gli si vedeva, [p. 119 modifica]spelacchiato, le orecchie basse, ingrullito dalla mortificazione! Appena la contessa ebbe finito di tosarlo, il topino, senza nè anche voltarsi in dietro, scivolò giù per la veste, e via di corsa a traverso le stanze, s’andò a nascondere in un cantuccio della cucina, perchè nessuno potesse notare la sua vergogna.

Un topino come lui, il più bello di tutt’i topini, ridotto in quello stato! Che cosa avrebbero detto i suoi fratelli, vedendolo? Quel sapientone di Dodò che gli avrebbe ricordati i suoi ammonimenti; quell’acqua cheta di Nini, che l’avrebbe guardato di sotto in su, facendo le viste di non badare a lui; quello zuccone di Bellino.... tutti, tutti in un modo o nell’altro gli avrebbero data la baia! Ah! Moschino [p. 120 modifica]non ci poteva pensare. E il peggio era che il pelo non gli sarebbe cresciuto prima d’un par di mesi!...

Rimase lì fino a sera, quando la Letizia lo sorprese e lo portò a tavola.

— Oh povero Moschino! — disse il conte; e gli carezzò la pelle ardente come quella di un uccellino.

Moschino s’arrischiò d’andare co’ suoi, sperando che non s’avvedessero del mutamento; ma sì! Gli furono tutti intorno a fiutarlo, a mordicchiarlo; così che Moschino, dopo essersi liberato con due buone zampate da’ suoi persecutori, si lasciò sdrucciolare giù dalla tavola sul grembo della Rita.

— Sì, sì, staʼ lì, Moschino mio, povero Moschino, — disse la buona bimba — ti darò io da mangiare, senza che nessuno ti veda. —

E così fece. Adagiò Moschino sul tovagliolo, nell’ombra; e ogni tanto gli porgeva un biscotto, una fetta di pera, un po’ di latte [p. 121 modifica]nel piattino, un po’ d’erba: tutta roba fresca, che faceva bene al topino malato di calore.

Per tutto il tempo ch’ei restò senza il pelo, Moschino non volle mai nè mangiare nè dormire co’ suoi fratelli. Bisognò preparargli un lettuccio a parte, in una paniera ch’era servita a’ bambini per la merenda; e a tavola o la Rita o Nello se lo tenevano su le ginocchia e gli porgevano il cibo. Così gli era risparmiata qualunque umiliazione.

A poco a poco Moschino guarì: le bolle gli si disseccarono, la pelle gli diventò liscia come il raso, e gli ricrebbe il pelo. Egli potè allora tornare a frequentar la società de’ topi; ma guardava sempre i suoi fratelli con un certo sospetto, non tollerando che gli si mettessero a torno per canzonarlo. E quel citrullo di Bellino, che ci si provò, n’ebbe a uscire malconcio.

Una sera, Moschino se ne stava a dormicchiare su la spalla della Rita, la quale, [p. 122 modifica]seduta vicino al lume, ricamava la cifra d’una dozzina di fazzoletti per la festa del babbo, che cadeva di lì a qualche giorno. A un tratto, si sentì tirare per il lembo della veste, si chinò, e raccolse Bellino.

— Come mai, Bellino, a quest’ora? Che vuoi? Hai sete, forse? — E presa la scodellina col latte, ch’era su la tavola, gli diede da bere. In quel mentre Moschino aprì un occhio e, vedendo bere Bellino, se ne sentì venir voglia anche lui. Scese dalla spalla della padroncina e, percorrendo tutta la lunghezza del braccio, arrivò su la tavola.

Bellino beveva da una parte, egli si mise dall’altra. Ma quello strullo di Bellino, che non avea più potuto vedere il fratello daccosto, dopo che l’avevano raso, e che s’aspettava chi sa quale spettacolo, non seppe tenersi dall’andargli vicino e dall’annusarlo curiosamente, specie tra que’ solchettini dove il pelo non era ancora spuntato. [p. 123 modifica]

Moschino, imbizzarrito, lo cacciò via con una zampata; ma Bellino che aveva la testa dura come un macigno, tornò daccapo: e non si contentò di fiutare, ma cominciò anche a mordere, sebbene per chiasso, il fratello. La disgrazia volle che un di que’ morsi andasse proprio a cadere sopra una bolla ancora aperta: Moschino diè un grido, s’avventò come una furia su Bellino, se lo cacciò sotto, e a morsi e a zampate l’avrebbe finito, se la Rita non gliel’avesse levato di mano.

Bellino, ancora tutto tremante, andò di corsa a cacciarsi nel letto, per paura di peggio; quanto a Moschino, dopo aver cercato a torno per un altro po’, risali su le ginocchia e su la spalla di Rita, s’addormentò, e sognò che il conte, per punirlo d’aver maltrattato il fratello, lo metteva a pane e acqua.

Ma il giorno seguente, in casa Sernici, si dovè pensare a altro, che alle monellerie di Moschino. [p. 124 modifica]

La contessa s’era svegliata con un febbrone da cavalli; e fin dal mattino tutti erano in moto. Il conte era corso a chiamare il medico; la Letizia faceva bollire del brodo ristretto; i bambini se ne stavano a lato del letto, caso mai la mamma avesse avuto bisogno di qualcosa. Ai topini non guardò più nessuno.

― O che novità è questa! ― pensò Dodò quando, venuta l’ora della colazione, vide la tavola sparecchiata. E, balzellon balzelloni, attraverso i salotti, attraversò lo studio della contessa, ed entrò nella camera.

Gli scuri della finestra erano chiusi, e la camera rimaneva nella mezz’ombra. Dodò spiccò un salto su la poltrona a’ piedi del letto; balzò con un altro salto sul letto, e guardò. In quel momento la contessa, eretta sul gomito, stava bevendo una tazza di brodo che le reggevano i suoi figliuoli. Nello fu il primo a scorgere Dodò, che, zitto a sedere [p. 125 modifica]su le zampine di dietro, guardava la padrona, facendo un atto col muso come per dire:

— O che si sente?

— Mamma! mamma! guarda Dodò ch’è venuto a farti una visita — esclamò piano ilbambino.

La contessa voltò la testa, vide Dodò e sorrise languidamente.

— Vieni, Dodò, vieni, — diss’ella, facendo cenno al topo; che s’avvicinò, si lasciò carezzare e diede a dietro pianino, per lasciar riposare la padrona.

Ma di lì a poco, ecco un altro topo sul letto: è Moschino. Corre, s’arrampica sul guanciale dove la contessa posava la testa, pone le manine sul mento della malata, e comincia a baciarla e ribaciarla su la bocca ardente di febbre.

— Grazie, grazie, Moschino bello, — diceva la signora che, quantunque si sentisse molto [p. 126 modifica]male, godeva assai di vedersi far tanti attucci da quelle care bestiole.

A uno a uno vennero tutti, Ragù e la Caciotta, che ormai si trascinavano a stento, poveri vecchi!, la Lilia, la Ninì e persino quel bietolone di Bellino che, appena arrivato sul

letto, si cacciò sotto il piumino, e s’addormentò. Ma gli altri topini si misero tutti in torno a Dodò; il quale, per farli star buoni, promise di raccontare qualche bella storia di topi.

— Sì, sì.... — mormorarono tutti. [p. 127 modifica]

― Allora state a sentire ― disse Dodò. ― Questa che vi racconto l’ho letta in un libro scritto tanti e tanti anni a dietro: è anzi la prima storia di topi che si conosca; e l’ha raccontata un grande poeta, il più grande poeta della razza degli uomini, un greco che si chiamava Omero. Ma io ve la riferisco in lingua topesca: si chiama La guerra dei topi e delle rane; attenti che incomincio.

Il topo istruito si ripulì la bocca, si soffiò il nasetto, tossì due o tre volte, e cominciò a parlare nel modo seguente:

  C’era e c’era una volta un topolino,
     Che alle granfie del gatto era scampato;
     E, ardendo per la sete, andò vicino
     A uno stagno da freschi alberi ombrato;
     E seduto colà, proprio alla sponda,
     Si rinfrescava la lingua nell’onda.
  Mentr’ei beveva, un ranocchio loquace
     Gli si fece da canto e a dirgli prese:
     «Che fai? che cerchi qua? L’acqua ti piace?
     Di che razza se’ tu, di che paese?

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     Se mi ti mostri da bene e sincero,
     Sta’ certo ch’io ti sono amico vero.


  Io ti farò da guida, e tu verrai
     Alle mie terre ed al palazzo mio.
     Doni, ricchezze, quel che brami, avrai:
     Gonfiagote, per tua norma, son io.
     Ho su lo stagno autorità sovrana,
     E mi rispetta e venera ogni rana.
  Son figliuolo di Fango e Acquaregina,
     E nacqui in riva del fiume Eridano;

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     Ma tu pure hai bel viso e pelle fina:
     Sei forse figlio di qualche sovrano?
     Hai qualche cosa, in faccia, di guerriero:
     Su via! dimmi chi sei: parla sincero.»
  E il topo gli rispose: «Oh! ma tu solo
     Non mi conosci su tutta la terra:
     Io sono Rubabriciole, figliuolo
     Di Rodipane, eroe famoso in guerra.
     Mia madre è Leccamacine, che nacque
     Dal re Mangiaprosciutti.» E qui si tacque.
  Poi ripigliò: «Fu il legno la mia culla,
     E fui nutrito di cibi squisiti
     Come le noci e i fichi. Or dunque, nulla
     C’è tra noi di comune. E tu m’inviti
     A diventarti amico? Si potesse!
     Ma le nature non sono le stesse.
  Tu stai nell’acqua: io mangio un po’ di tutto,
     Il pan bianco e odoroso de’ cestini,
     Le focacce col sesamo, il prosciutto,
     E, avvolti nella rete, i fegatini,
     E il cacio fresco, e i dolci, e quanto viene
     Servito all’uomo nelle illustri cene.
  Non temo la battaglia; e ben che sia
     L’uomo tanto feroce, io salgo ardito
     Fin nel suo letto, e con l’astuzia mia

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     Senza svegliarlo gli rosico un dito:
     Solo due cose mi dànno pensiero,
     E n’ho paura: il gatto e lo sparviero.
  Temo pure la trappola; ma il gatto
     È peggio assai, s’un si lascia acchiappare;
     Io non ho i gusti tuoi: non vado matto
     Per zucche, rape e tal vile mangiare.
     S’altre ricchezze l’acqua non aduna,
     Io te le lascio senza invidia alcuna.»
  Rise il ranocchio, e disse: «Ogni tuo vanto
     Sta riposto nel ventre, a quanto sembra.
     Ma noi possiamo tanto in terra, quanto
     In acqua, esercitar l’agili membra:
     Se vuoi provare, aggrappati al mio collo,
     E verso casa mia ti porto in mollo.»
  Così dicendo, gli porgeva il dorso,
     E l’altro vi saltò su lestamente:
     Allegro il topo rimirava in corso
     La riva dilungar yelocemente;
     Ma quando venne in alto, e in torno l’onde
     Vide schiumare mobili e profonde,
  Si diede a singhiozzar come un bambino,
     A tirarsi i capelli e a lamentarsi:
     Se la pigliava or seco, or col destino;
     Tremava tutto e non potea voltarsi:

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     Stese la coda in acqua, e come un remo
     Se la traea, credendosi all’estremo.

  «Povero me!» diceva «oh che stradaccia!
     Quando s’arriva? Chi l’avesse detto!...»
     In quella, ecco, un serpente alto due braccia
     Si rizza fuor, terribile all’aspetto.
     A quella vista il ranocchio si tuffa,
     E il topo resta solo nella zuffa.
  Piange, trafela, si dibatte, e prova
     Di stare a galla; ma gli è tempo perso.

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     Fa forza con le zampe, e non gli giova;
     E grida: «Ah il ciel ti punirà, perverso,
     Che m’hai tratto a combattere su’ flutti,
     Non osando affrontarmi a piedi asciutti!
  Tu, poltrone alla lotta e al corso, m’hai
     Condotto qui su l’acqua per invidia;
     Ma il gastigo che meriti, l’avrai,
     Ei topi puniran la tua perfidia.
     O topi, all’armi, all’armi!» E sotto il fiore.
     Dell’onde gorgoglianti cala, e muore.

— Poverino! — esclamò la Ninì, quando Dodò, a questo punto, si fermò per pigliar fiato.

— E gli altri topi che fecero? — saltò su a domandare Moschino.

— Ve lo dirò domani, se state quieti: ora [p. 133 modifica]bisogna tornare a casa — rispose Dodo — perchè la padrona ha ordinato alla Letizia che le rifaccia il letto. —

In fatti la contessa, che si sentiva un poco meglio, s’alzava, sorretta dalla Letizia e dal conte: i topini scesero giù dal letto, e andarono a mangiar la minestra che la Letizia avea preparata nel loro piatto.

Il giorno seguente, i topi s’affollarono un’altra volta intorno a Dodò, e lo pregarono di seguitare La guerra dei topi e delle rane.

E il buon topo, come que’ cantambanchi che raccontano l’avventure d’Orlando e di Rinaldo in mezzo alle piazze, riprese a dire:

  Leccapiatti, che stava su quel lido,
     Vide il misfatto, e corse a darne avviso:
     I topi, udendo, mandarono un grido
     E giuraron vendetta dell’ucciso;
     Già son chiamati i banditori in fretta,
     Che radunino i topi alla vendetta.
  Quando l’alba spuntò, dalle lor tane
     Vennero tutti a casa dell’estinto:

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     Quivi lo sconsolato Rodipane
     Gravato dal dolore, ma non vinto,
     Levossi, e disse: «Se fu mio l’affanno,
     Comune a tutti, o miei compagni, è il danno.
  Ebbi tre figli. Il primo in bocca al gatto
     Finì, mentre sbucava dalla tana;
     L’altro fu preso in trappola d’un tratto,
     E dagli uomini ucciso; ora una rana
     M’affoga in uno stagno oscuro e rio
     L’ultimo, il cucco di sua madre e mio.
  Guerra alle rane! All’armi!» Egli parlava,
     E applaudivano i topi. Ognun si mette
     A far gambiere con bucce di fava,
     E corazze di canne insieme strette
     Con una pelle elastica di gatto
     Scuoiato un giorno prima del misfatto.
  Gli scudi che pigliò l’ardita schiera
     Furono cocci di lucerne spente:
     E i gusci delle noci elmi e visiere,
     Ed aste gli aghi d’acciaio lucente.
     Così ferocemente si disserra
     L’esercito de’ topi, e muove in guerra.
  Giunge quel grido alle rane canore,
     Che in assemblea s’adunano sul prato;
     E mentre chiedon, piene di terrore,

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     La causa del subbuglio inaspettato,
     Ecco venir Saltapignatte il saggio,
     Figliuolo dell’eroe Scavaformaggio.
  Si fermò tra la folla, e prese a dire:
     «O rane, io vengo apportator di guerra
     Dalla parte de’ topi. Ebbe l’ardire
     Re Gonfiagote della vostra terra
     Di trarre Rubabriciole allo stagno,
     E di farlo morire; ond’io mi lagno.
  Or tra le rane chi gagliardo ha il core,
     Venga alla pugna.» Così disse, e sparve.
     Fra le rane levossi alto rumore,
     Ma in mezzo a loro Gonfiagote apparve;
     E, per allontanar tutt’i sospetti,
     Arringò il popol suo con questi detti:
  «Amici, il topo io non uccisi, il giuro.
     Fors’ei, pensando di pigliare un bagno,
     Scese a scherzare nell’acque sicuro,
     E affogò nel bel mezzo dello stagno.
     Forse or per ciò la sua malvagia gente
     Accusa me; ma io sono innocente.
  S’armano i topi? Ebbene, ci armeremo
     Noi pure; e poste tutte su la riva
     Ov’è il pendio più erto, aspetteremo.
     E quando il grosso de’ nemici arriva,

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     Li coglierem di dietro, e giù dall’alto
     Li spingerem nell’acqua a fare un salto.
  Così, poi che nuotare essi non sanno,
     Bisognerà che affoghino, e in un punto
     Ci sarem liberati d’un malanno,
     Ed un trionfo avremo agli altri aggiunto.»
     Le rane, udendo ciò, s’armano in fretta
     Come il bisogno urgente a ognuna detta.
  Spoglian tutte le malve delle foglie,
     E le cingono a guisa di gambiere;
     Chi bietole, chi cavoli raccoglie
     Per farne o scudo, o corazza, o brocchiere;
     Chi strappa un giunco e la lancia s’appresta;
     Chi pone un guscio di lumaca in testa.

A questo punto Dodò tacque, perchè era l’ora del pranzo. Quel giorno, la contessa stava meglio assai, e volle che i topini mangiassero sul letto con lei. Tutti si portarono molto bene, e non insudiciarono nulla, perchè Dodò aveva minacciato di non seguitare il racconto, se i topini mancavano alle regole della buona creanza. [p. 137 modifica]

Dopo il pranzo, furon di nuovo in torno a Dodò, che riprese la narrazione dal punto dove l’aveva lasciata.

  S’affrontan le due schiere, e mandan gridi,
     E le zanzare dan fiato alla tromba:
     Empie il frastuono le campagne e i lidi,
     E l’aria tutta orribile rimbomba.

     Primo si slancia avanti Strillaforte
     E Leccaluom ferisce d’asta a morte.
  Passabuchi fra tanto in mezzo al core
     Trafigge Inzaccherato con la lancia;
     Il qual manda un sospiro ultimo, e muore.

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     Bietoloso ferisce nella pancia
     Saltapignatte; e Mangiapane fende
     La testa a Urlone, e in terra lo distende.
  Godipalude allor s’accende d’ira,
     E coglie Passabuchi con un sasso
     Che tra il collo e l’occipite gli tira;
     Ma Leccaluom, benchè ferito e lasso,
     Vibra sul feritor l’asta di sotto,
     E steso al suol lo fa cader di botto.
  Mangiacavoli, preso da paura,
     Fugge allo stagno, e seco trae fuggendo
     Leccaluomo che cade alla ventura,
     E manda fuor lo spirito, bevendo.
     Navigan le budella a fior dell’acque,
     Ove l’eroe, con rotto il ventre, giacque.
  Cannucciaio ammazzò Scavaformaggio;
     Ma s’abbatte nel re Scavaprosciutti,
     E, sentendo venir meno il coraggio,
     Gitta lo scudo, e si salva ne ’ flutti.
     Cannucciaio una pietra in tanto assesta
     A re Mangiaprosciutti nella testa.
  Seguitava così con sorti incerte
     La gran battaglia da una parte e l’altra:
     Erano le due schiere in armi esperte,
     Benchè qual più valente, e qual più scaltra.

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     Pur tra’ topi un eroe vago di gloria
     Il grido alfin levò della vittoria.
  Rubatocchi è costui, prode figliuolo
     D’Insidiapane il saggio: egli schiamazza
     Per tutto il campo, e giura che da solo
     Sterminerà delle rane la razza.
     E avrebbe mantenuto il giuramento,
     Se non fosse che, proprio in quel momento,
  Ecco levarsi un soffio sciroccale,
     Che radunò le nuvole in un punto:
     Già borbotta per l’aria il temporale,
     Ecco s’appressa, ecco s’appressa, è giunto.
     L’aria s’imbruna: e una gran pioggia bagna
     Le due schiere nemiche, e la campagna.
  Nello stagno si tuffano le rane
     Atterrite al fragor della procella:
     Tornano i topi in fretta nelle tane,
     Dicendosi che l’han scampata bella:
     E l’ira delle due genti vicine
     In un sol giorno ebbe principio e fine.


Quando Dodò ebbe terminato, — Bravo! — gridarono tutt’i topi. — Bravo! Oggi bisogna dare a Dodò ciascuno un po’ della sua [p. 140 modifica]parte di dolce, per dimostrargli quanto noi gli siamo grati della bella storia che ci ha raccontata.

― Ma sarà poi vera? ― saltò su a dire Moschino.

― Anche se non è vera la storia, ― rispose Dodò ― sarà sempre vero che le creature piccole, come noi, non devono mai cercare di farsi male tra loro; ma star uniti e d’accordo: se no, i malanni d’ogni sorta e per tutti, non mancano. ―