Una famiglia di topi/Capitolo nono

Capitolo nono

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CAPITOLO NONO



quando a quando, da poco più di un mese, la Lilia scompariva, nè si facea più vedere per ore e ore: e ciò accadeva anche se Rita e Nello chiamavano i topini a colazione o a desinare; anche se li chiamavano per metterli a dormire, la sera.

— O dove può cacciarsi quella spensierata della Lilia? Cosa può fare che le stia a cuore più del pranzo e del sonno? — si domandavano i ragazzi. E la Rita soggiungeva:

— La povera Ninì non le faceva mai di [p. 162 modifica]queste birichinate! La Lilia invece è una sorcetta disamorata verso di noi! ―

Il ricordo della Ninì era sempre accompagnato di sospiri e rimpianti. Vittorio era un’ottima creatura: non aveva ombra di colpa in quella disgrazia; ma in tanto i fanciulli Sernici si eran giurato di non dar più via alcuno de’ loro cari animalini: e da quando era morta la Ninì, si sarebbe detto che, se fosse stato possibile, essi avevan raddoppiato l’affetto alla famiglia de’ topi.

La Lilia, dunque, li teneva in pensiero non poco con le sue continue assenze; temevano da un istante all’altro di vederla sbucare da qualche luogo chi sa come ammalata: poteva leccar del verderame sur un pezzo di metallo; inghiottire uno spillo caduto; ferirsi le zampine con un frantume di vetro; mangiare un zolfanello; far altri sbagli, naturali in un topo, e.... morire, Dio guardi! anche lei.

Quando con la famiglia dei padroni, [p. 163 modifica]anche la famiglia dei sorci era tutta riunita a tavola, la Caciotta si guardava intorno dubbiosa, inquieta, e diceva piano qualcosa all’orecchio di Ragù. Moschino e Bellino non s’avvedevano di nulla: l’uno badava a scegliere, da quel ghiottone che era, tutto quanto trovava di meglio a portata de’ suoi dentini; l’altro, nella sua beata stupidaggine, non capiva come si desina di mala voglia, se manca uno della famiglia.

Un giorno che la Caciotta e la Rita si mostravano, ciascuna per conto suo, più afflitte del solito, Dodò prese una risoluzione seria e coraggiosa, veramente degna di lui.

― Appena mi lasciano solo disse fra sè ― mi metto io a caccia di quella vagabonda di mia sorella; e le faccio tale una ramanzina, da levarle per sempre il ruzzo di dar dispiaceri a chi le vuol bene. ―

Detto fatto, mentre tutti lo credevano quietamente, profondamente addormentato negli [p. 164 modifica]scaffali della libreria, Dodò scese bel bello sul tappeto e cominciò a perlustrare da per tutto. Sollevandosi su le zampine guardava fra le pieghe d’ogni tappezzeria, sotto il sedile delle poltrone e il piede dei torcieri, dietro la scansia della musica, dietro i paraventi giapponesi.... Nulla!

Nella sala da pranzo erano certi antichi armadi normanni di legno scolpito, dove i Sernici tenevano i servizi di porcellana. Dodò entrò in quegli armadi, per gli sportelli rimasti socchiusi, e con ogni cautela, senza romper niente, frugacchiò tra le pile dei piatti e una pila di vassoi, tra le fruttiere e l’insalatiera; la Lilia non c’era. Pensò allora alla guardaroba, e vi corse.

— Che vuoi, professore? — domandò sorridendo la Letizia, che stava in quella stanza a stirare delle camicie.

Dodò finse di non vederla neanche, e continuò con ogni diligenza l’ispezione. [p. 165 modifica]

Siccome la Letizia era anche occupata a mettere a sesto la biancheria, così stipi e cassetti erano spalancati. Il topo serio penetrò per tutto, fiutò, osservò; la Lilia non c’era.

A Dodò venne allora in mente la cucina. Quella capricciosa di sua sorella era anche capace d’essersi ficcata là! E, determinato di volerne vedere a ogni costo la fine, Dodò visitò minutamente anche la cucina.

Nulla, nulla, nè pure tra il carbone e la brace! La Lilia era introvabile.

A un tratto tese l’orecchio, e si rizzò su le zampe in atto di chi ascolta attentamente: gli era parso d’udire un bisbiglio vago, ma singolare, poco lontano. Eran parole tronche e sommesse nella lingua dei topi; oh, non s’ingannava!

Attigua alla cucina era la dispensa: un luogo fresco e asciutto, quasi buio, dove i conti Sernici erano soliti di tenere provviste [p. 166 modifica]di formaggio, salumi, olio, vino, civaie e persino frutta.

L’uscio della dispensa s’apriva due volte al giorno prima di colazione e prima di pranzo; cioè quando la Letizia, la quale, essendo una perla di onestà, godeva la piena fiducia dei padroni, v’entrava a prendere quello che potesse abbisognarle.

Ma poichè non c’erano in casa nè gatti, nè cani che rubassero la roba, e i topini se ne stavan continuamente, nutriti e pasciuti come principi, ne’ salotti e negli studi, accadeva che non sempre la Letizia si ricordasse di serrare la dispensa.

Quel giorno, di fatti, c’era, fra la porticina e il muro, un vano comodo e largo. Dodò vi si avvicinò in punta dei piedi guardingo, curioso. Poi entrò. Dentro, dietro una fila di bottiglie, la voce della Lilia mormorava dolcemente; e le rispondeva una voce di topo affatto sconosciuta a Dodo. [p. 167 modifica]

A lui il cuore batteva: non sapeva che pensare. O con chi mai ragionava così, di nascosto a tutti, parenti e amici, la sorella?

Non visto nè udito, egli s’appostò di qua dalla fila delle bottiglie, e quasi trattenendo il respiro, si pose in ascolto.

La Lilia seguitava un discorso avviato da un pezzo.

― Ma sì, si sono accorti tutti d’un cambiamento in me. Io che ero tanto ghiotta, sto senza pranzo, per venire a trovarti, e ripeterti che ti voglio bene.....

― Mi vuoi bene? Proprio sul serio mi vuoi bene? ― domandava l’altra voce.

― E potresti dubitarne, ― rispondeva la Lilia ― quando per te faccio tanti sacrifizi? La mia buona mamma sta in pena, la mia dolce Rita mi cerca.... O come hai il coraggio di non credere che ti voglio bene? ―

Il topo sconosciuto sospirò; sospirò, come un’eco leggiera, la Lilia. Lui riprese: [p. 168 modifica]

― Ma come farò se ti debbo veder più di rado, come tu mi proponi, per acquietare i tuoi di casa? Io soffro quando non ti vedo. Sei così bella, mia Lilia! e sei tanto buona.... ―

La topina si lasciava cullare dalla dolcezza di queste parole, che le scendevano al cuore come un balsamo; poi sospirava ancora, dicendo:

― Oh, Dio mio! Dio mio, che disgrazia che tu non sia un topo indiano, povero Rosicalegno! ―

Il topo ignoto tornava a sospirare, e filosofava:

― Si nasce come si nasce; si è quel che si è!

― Ma io ti giuro che non ti dimenticherò mai, che mai sposerò un altro! Tu mi credi, non è vero?

E Rosicalegno le baciava piano piano la manuccia, pieno d’amore e di rispetto, e diceva: [p. 169 modifica]

— Chi sa? Se ti presenteranno un bel topo come te, d’una grande famiglia, che possa offrirti quanto c’è di meglio al mondo, un letto morbido, noci, crema e liquori a discrezione, io sarò presto dimenticato.

— Cattivo! cattivo! — si mise a singhiozzare la Lilia. S’io non avessi la famiglia, alla quale non voglio dare dispiaceri anche maggiori, verrei con te, fuggirei dove tu volessi, anche a costo di patir la fame.... —

A questo punto Dodò, che aveva udito [p. 170 modifica]abbastanza, fece capolino tra una bottiglia e l’altra, e tossì forte.

La Lilia e il suo innamorato misero un piccolo grido di paura, balzando come due molle.

Il loro primo istinto sarebbe stato di scappare come saette, se Dodò non avesse ordinato:

— Fermi! —

S’arrestarono tutti e due, come cambiati in statue di sale. Al topo sconosciuto s’era fatta pallida la punta del naso; la Lilia tremava per paura che suo fratello non assalisse quell’altro con tanti morsi, da lasciarlo lì mezzo sfranto.

Dodò invece non diede in escandescenze; ma dopo essersi passate le mani su la fronte, come per raccoglier le proprie idee, cominciò a dire:

― Questo che ho veduto è brutto; e ch’è brutto lo prova il fatto che voi vi nascondete. [p. 171 modifica]Quando uno si nasconde, vuol dire che si vergogna.

— Dodò mio, se tu sapessi.... — l’interruppe la Lilia.

— Zitta, pettegola! ― gridò il topo savio; e seguitò:

— Mi maraviglio come una sorcetta avvezza a ogni bella maniera, educata all’affetto della famiglia, si permetta di parlar con un topo estraneo alla sua casa e, quel ch’è peggio, di razza diversa.

— Di’ pure, di’ pure inferiore! — mormorò Rosicalegno, con accento umile e rassegnato.

Dodò era buono. Questa modestia lo commosse profondamente, e lo dispose subito in favore del poveraccio, che gli stava davanti.

Era un topo comune; ma bello, grosso, di forme eleganti, col mantello d’un bigio chiaro come la pelle di cincilla, col ventre e le braccia d’un bianco d’ermellino. Gli occhi vivi e neri avevano un’espressione d’intelligenza e [p. 172 modifica]di dolcezza, che attirava la simpatia a primo tratto.

Dodò gli disse con benevolenza:

— Non esistono razze inferiori, perchè davanti a Dio, che ci ha creati tutti, non ci sono, per nascita, nè inferiori, nè superiori. Sono le nostre azioni quelle che c’innalzano o ci abbassano. E tu diventeresti dicerto un topo inferiore se continuassi a tenere in pena i miei, per istartene qui a chiacchierare con mia sorella....

— Amico! — rispose Rosicalegno, incoraggiato da quelle parole generose e giuste; — se la Lilia e io s’è fatto questo sbaglio, gli è che non possiamo vederci apertamente; ma tu non puoi figurarti quanto ci vogliamo bene.... —

— Non puoi figurarti quanto ci vogliamo bene! — fece eco la Lilia.

— Zitta, sfacciata! — l’interruppe di nuovo Dodò; che riprese, voltandosi dalla parte di Rosicalegno: [p. 173 modifica]

— Orsù, dammi retta. Siccome io sono d’un carattere leale e risoluto, e non mi garbano i mezzi termini, ti espongo francamente una mia idea. Così la faccenda non può continuare. Anche s’io non la scoprivo, si sarebbe giunti, prima o poi, a conoscer la verità; la Lilia sarebbe stata rinchiusa in gabbia, per levarle il ruzzo, e tu....

— Io sarei stato ucciso, come sarò ucciso di sicuro — rispose con tristezza il povero sorcio.

Dodò, se il caso non fosse stato tanto grave, trattandosi del poco giudizio di sua sorella, avrebbe sorriso. Si vedeva proprio che Rosicalegno non conosceva affatto la famiglia Sernici, tutta compassione per gli uomini e per le bestie. In quella casa non s’uccideva nè pure una mosca. Tutt’al più avrebbero potuto mettere in dispensa qualche trappola, non per far male al sorcio, ma per pigliarlo ammodino, se sciupava le forme del [p. 174 modifica]parmigiano, e portarlo in cantina, dove poteva sbizzarrirsi con altri suoi compagni.

Più d’una volta la Letizia aveva avuto quest’ordine dai padroni.

― Non sarai ucciso, non aver paura! — dichiarò Dodò con tutta certezza. Basta che tu mi ubbidisca e faccia il topino perbene.

― Che debbo fare? ― domandò, sempre turbato, Rosicalegno.

― Ecco qua: in vece di stare ne’ nascondigli e ficcarti in tutti i buchi più oscuri, se gli è vero che tu ami la mia sorella, devi mostrarti ai signori, e venir proprio in mezzo a noi.

― Ah mai! mai! ― esclamò tutt’impaurito l’estraneo.

― E perchè?

― Perchè la mia razza è disprezzata, perchè son brutto, perchè son povero, perchè non ho avuto nè educazione nè istruzione, io! ―

Nel dire queste parole, gli venivano i [p. 175 modifica]lucciconi; e guardava la Lilia come un povero spazzacamino potrebbe guardare la figliuola di un re.

La Lilia, per dissimulare la commozione interna che la straziava, s’era messa a lisciarsi la testa, tanto per avere la scusa di strofinarsi gli occhietti.

― Non è il caso di far tanti discorsi ― ripigliò calmo Dodò. ― Io conosco la nostra famiglia; e ti assicuro che invece d’essere scacciato e maltrattato perchè non sei indiano come noi, se ti mostri agevole e grazioso, avrai cure e carezze.

― Coraggio, Rosichino mio, coraggio! ― susurrava la Lilia all’orecchio dell’amico, a cui aveva messo quel nomignolo per affezione.

― Coraggio, coraggio! ― ripetè Dodò, che questa volta non isgridò la sorella.

― Si fa presto a dire: coraggio! ― ripicchiava l’altro; ― ma quando si è topi non si è leoni. Io, per amore della Lilia, mi [p. 176 modifica]butterei nel petrolio ardente; ma sento che le gambe non mi reggono, se debbo veder de’ signori. Non ci sono avvezzo, io; sono un selvaggio.

― Prova; ― gli ordinò Dodò ― perchè se, dopo tutta la tolleranza che ho avuta e i buoni consigli che t’ho dati, ti ritrovo ancora nei cantucci con mia sorella, la Lilia la mordo a sangue; e quanto a te.... quanto a te, so io come ti concio.

― Coraggio, Rosichino mio, coraggio! ― badava ancora a susurrare la Lilia.

― Verrò ― promise finalmente Rosicalegno, che non sapeva resistere alle moine di quella topa. ― Verrò; e sarà quel che sarà!

― Sarà il tuo matrimonio e la tua fortuna, credimi! ― disse Dodò, sicuro del fatto suo.

Poi, avvicinatosi al topino bigio, gli diede un bacio fraterno sul muso; e tirando la propria sorella per una zampa, le ordinò: [p. 177 modifica]

— Marcia al tuo posto, tu! E senza voltarti indietro. —

La Lilia ubbidì, svelta, perchè sapeva che Dodò era buono e non abusava della propria forza; ma ch’era terribile quando qualcuno lo faceva montar su le furie.

Quando Dodò si presentò su la soglia dello studio della contessa, insieme con la Lilia, i bimbi gli vennero incontro, tutti contenti.

— Bravo Dodò! L’hai trovata tu eh, questa birichinaccia? Ci volevi tu! Bravo Dodò! O dov’era, dimmi? [p. 178 modifica]

I bimbi s’eran chinati a prendere in mano la topina, e la guardavano premurosi da tutte le parti.

Dodò capiva bene la lingua dei padroni, ma non poteva parlarla; quand’anche, però, l’avesse parlata, non avrebbe certo fatto la spia; tanto più che Rosicalegno prometteva di presentarsi a fare il dover suo.

— Verrà? Non verrà? pensava la Lilia con un’angoscia che nemmeno lei avrebbe saputo descrivere.

La giornata passò quietamente per tutti; i topini dormirono e mangiarono come al solito; soltanto Dodò parlò a lungo con la Caciotta e con Ragù del progetto ch’egli aveva in testa riguardo a sua sorella, se le cose si mettevano come sperava lui.

La sera stessa, i signori Sernici, co’ loro ragazzi e i topi, erano a cena; la Lilia sgretolava qualcosa di mala voglia: Moschino s’era scottata una manuccia, posandola su [p. 179 modifica]l’orlo d’un vassoio caldo; ma divorava lo stesso, come un affamato, un pezzo di carne grassa: la Caciotta e Ragù mangiavano senza troppa delicatezza, ma anche senz’avidità, da sorci che, pur avendo conosciuto il sapore del pan secco, non si buttavano, come pazzi, su le cose buone. Dodò pigliava i suoi bocconi, serio e grazioso, dal piatto stesso del conte e della contessa, ammirato e lodato, non soltanto dalla Rita e da Nello, ma da tutte le persone che capitavano in casa. Bellino s’impinzava senza preferenza di sorta, e senza che nessuno scegliesse per lui quel che meglio gli conveniva: tanto, a lui bastava di empirsi la pancia. Aveva inteso più d’una volta la contessa dire a’ suoi figliuoli:

― Carini miei, si deve mangiar per vivere e non vivere per mangiare. ― Ma egli non capiva nulla, nè di cibi, nè di sentenze; per ciò badava a buttar giù quanto più poteva, senza darsi altro pensiero. [p. 180 modifica]

A un tratto un rodio sommesso in un canto fece voltare il conte:

— Perbacco! — disse — m’è parso sentire il rumore d’un topino.... là giù.... —

Tutti si voltarono insieme con lui verso la parte indicata, ch’era l’angolo d’un gran divano.

— È vero! — esclamò Nello; poi soggiunse: — Ma se i topi son tutti qui! E si mise a contarli: — Uno, due, tre, quattro, cinque, sei; ci son tutti! —

Il rodio continuava.

— Letizia, prendete la candela — ordinò il conte, dacchè la lumiera di mezzo al soffitto mandava in quell’angolo una luce troppo fioca.

La cameriera ubbidì; e allora si vide chiaramente un topino bigio con la pancia bianca, con gli occhi scintillanti che parevano uscirgli dal capo, e fra le zampine tremanti una crosta di pane caduta di su la tavola.... [p. 181 modifica]

— Un topo! — gridò la Letizia.

— Un topino! Un topicciòlo! — gridarono i fanciulli, stendendo la mano per acchiapparlo.

Ma Rosicalegno (era lui!) fuggì sotto il divano.

— Poverino! — si mise a dire quel cuor d’oro di Rita. I nostri han tante belle e buone cose, e lui non ha altro che le briciole del loro pane.... poverino!

— Se si dovesse dar petto di pollo e crema a tutti i topi di cantina!... — esclamò la Letizia, non potendosi trattenere dal ridere.

— Io darei da mangiare a tutte le bestie del mondo, potendo! rispose Nello, per insegnarle a parlare come si deve.

― Magári, si potessero raccogliere in casa tutti gli uomini e tutti gli animali che soffrono! — sospirò quell’angelo della contessa Sernici.

Il grosso Dodò, che aveva inteso e visto [p. 182 modifica]tutto, pensava intanto: — Quando uno è bestia, è bestia.

— Oh, guardino! guardino! — gridò la Letizia, additando verso il posto di prima.

Per terra, ma un po’ più vicino, il sorcetto bigio fiutava in aria col naso mobile in torno al quale s’apriva la raggiera dei baffi. Un istante si rizzò su le zampine, come se avesse tese le piccole braccia a farsi pigliar su.

— Mimmì, Mimmì, Mimmì! — chiamava la Rita con una voce da uccellino, per non ispaventare le bestiola; e chetamente gli andò accosto.

Il topo tremava visibilmente; ma non si moveva, come incantato.

La Rita allungò la mano, e lo prese.

Rosicalegno, per un suo istinto selvaggio, si voleva divincolare; ma la fanciulla si mise a baciarlo su la testina e a grattarlo sul collo.

― Mammà! mammà! — diceva in tanto — [p. 183 modifica]ho sentito raccontare che i topi comuni puzzano; questo no davvero; sa un odor tiepido di pelo pulito....

— Com’è carino! — ripeteva Nello, che lo voleva lui in mano.

— Letizia, portate una gabbia da uccelli vuota — ordinò il conte. — Giacchè questo messere, a quel che sembra, vuol far parte della nostra famiglia, bisogna educarlo come gli altri. —

I bimbi battevano le mani. La Caciotta e Ragù ridevano sotto i baffi biancastri; la Lilia era tutta lieta dell’avvenimento; Moschino guardava con grande curiosità il nuovo arrivato; Bellino s’era rifugiato dietro una fruttiera, impaurito; Dodò seguitava a masticare, ripetendo in cuor suo: — Questa è opera mia. Si fanno opere buone, quando si è saggi e istruiti. ―

Appena la gabbia fu portata, e la manina della Rita s’introdusse pian piano dallo [p. 184 modifica]sportellino il topo straniero spiccò un salto, e si rincantucciò accosto alla parete di fil di ferro. — Ora diamogli subito qualcosa che gli piaccia — propose la contessa. — Voi, bimbi, li conoscete i gusti dei topini. —

Nello affettò una pera, e pigliando il centro, pieno di semi, lo porse al nuovo venuto; che si mise subito a mangiarlo con bel garbo e buon appetito.

— Bravo Mimmì! Bravo Mimmì; carino!... — gli dicevano i ragazzi, dandogli quel nome che Rita gli aveva mésso. E mentre egli divorava quel cibo nuovo girandolo e rigirandolo tra le manine, tutti i topini venivano [p. 185 modifica]intorno alla gabbia a osservarlo e a fiutarlo, spalacando gli occhietti vivaci.

— Ben venuto! — dicevano nella loro lingua Ragù e la Caciotta.

— Ben trovati! — rispose il forestiero.

— Sei parente dei topi di scuderia? — chiese Moschino, che si ricordava del povero sorcio ucciso dal gatto davanti a’ suoi occhi.

— No: vengo dai tetti, io.

— O perchè sei tutto bigio, mentre io sono tutto bianco? — domandò quell’asino di Bellino, con la bocca aperta come davanti a un fenomeno.

— Son bigio perchè Dio mi ha fatto bigio — rispose l’altro, con tono di rincrescimento.

— Vedi che ti ho dato un buon consiglio? Ormai sei accettato — sentenziava Dodò.

— Grazie, bello mio, come t’amo! — mormorava la Lilia con tenerezza infinita.

— Son venuto per te, mia cara Liliuccia! — rispondeva lui. [p. 186 modifica]

— Prendi un pezzettino di zucchero, adesso! — diceva la Rita al suo nuovo amico.

— Bravo Mimmì! Mimmì è bravo! — gridavan tutti, divertendosi a vedere quel povero zotico addomesticarsi così presto e volentieri.

Il nome di Mimmì rimase dunque al topino bigio. Di fatti, quello di Rosicalegno non gli s’addiceva più, ora che egli rosicava de’ biscotti con la vainiglia, come facevano gli altri della sua nuova casa.