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lo consumava; voleva colla febbre del lavoro vincere un’altra febbre più ardente e più pericolosa.
Ci separammo colla sicurezza di rivederci, e questo pensiero ci rese men duro il nostro distacco. Eravamo giovani entrambi, e nell’età della speranza dovevamo rimanere entrambi parecchi anni nell’America meridionale; e perchè non ci saremmo noi riveduti e presto?
Questa cara lusinga non doveva avverarsi. Noi non ci siamo più riveduti.
IV.
TRE ANNI DOPO.
Per due anni di seguito io ricevetti lettere da William, ma fra l’una e l’altra correvano lunghi intervalli. Molte di esse sicuramente s’erano smarrite; ed era naturale che ciò fosse avvenuto, nomadi entrambi e viaggiando in paesi più o meno selvaggi. Io ne ricevetti da Rio de Janeiro, da Minas Geraes poi da Mato Grose; e qui un lungo silenzio, una dolorosa interruzione. D’un salto la prima lettera mi veniva da Valparaiso, poi da Cobija, da Lima, da Guajaquil. L’ultima era da Quito.
Colla carta geografica alla mano io rannodava lo strano itinerario del mio infelice amico e ne seguiva le dolorose stazioni. Il lungo viaggiare, il mutar luoghi e occupazioni non valevano a dar pace a quell’anima disperata; pareva anzi che il tempo incrudisse quel dolore e gli avvelenasse la ferita. Era di quei dolori coi quali si vive e si muore, si dovesse pur vivere una vita di secoli.
Alcune di quelle lettere avevano tal fisonomia di strazio ch’io davvero non poteva, supporle scritte che alla vigilia d’un suicidio; ma la profonda pietà e la religione della parola data, forse più di tutto questo, un raggio di speranza tenevan vivo il mio William.
Dopo l’ultima lettera ricevuta da Quito nell’estate del 56, io non ebbi più una parola dal mio amico, nè da altri potei raccappezzarne qualche notizia. Ormai