Tre donne/IV
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CAPITOLO IV.
In Confessione.
Era il giovedì santo.
I drappi neri e la cotonina nera, sbiadita dal lungo uso, gettavano ombre livide nella chiesuola, di solito così piena di luce, di aria e di campestre gaiezza.
Fuori, la campagna risplendeva: gl’insetti ronzavano; i passeri annidati sotto il cornicione della chiesa cinguettavano allegramente; e le rondini appena arrivate dai lidi lontani, parea che avessero mille cose da raccontarsi; mille osservazioni curiose da comunicare l’una all’altra.
Anche nella chiesa era un bisbiglio sommesso, un biascicamento di orazioni miste a sospiri. Le donne che si erano confessate la sera innanzi aspettavano l’ora della comunione.
Alcuni chierici finivano di adornare il sepolcro nella cappella laterale. In sagrestia, altri chierici si vestivano, preparavano gli oggetti per la prossima funzione, insieme a due pretonzoli venuti da un paese vicino per aiutare don Giorgio e buscarsi qualche soldo.
Nell’angolo più appartato, don Giorgio in cotta bianca e stola ricamata sopra la lunga veste nera, finiva di confessare gli uomini. Da due ore egli stava lì seduto, quasi immobile, nella luce tediosa di quella stanzuccia, nell’aria grave per tanti fiati misti al puzzo di moccolaia.
Una invincibile uggia abbatteva i suoi nervi; e il viso giovine, ancora fresco, dai lineamenti regolarissimi, appariva stirato, affranto: con dei lividori sotto ai piccoli occhi grigi, affondati, e intorno alla bocca tumida, sensuale. Alcune rughe precoci gli solcavano la fronte bianca; e la mano affilata, s’agitava per un moto nervoso nella schiacciante inoperosità. Nei movimenti del capo, il marchio sacerdotale luccicava come un disco d’avorio tra i folti capelli neri, nella luce filata che scendeva dalle alte finestre.
Di tratto in tratto, dopo di avere lungamente ascoltato, pronunciando appena le parole indispensabili, don Giorgio pareva preso da un grande interesse e si metteva a parlare con benevola effusione, curvandosi un poco sul penitente inginocchiato ai suoi piedi. Era la sua una eloquenza semplice e calda, alla portata di chi l’ascoltava: ispirata a una grande pietà. Dal pergamo o in confessione, le sue parole esprimevano quasi sempre un conforto, raramente un rimprovero. Ma egli sentiva l’inutilità del suo ardore; e una stanchezza mortale, uno sfiduciamento scettico s’impadronivano di tutto il suo essere, malgrado gli sforzi della volontà.
Nato in campagna, dotato di un corpo robusto, ricco di una esuberante giovinezza, don Giorgio soffriva specialmente della inoperosità materiale. Felice quando poteva maneggiare la zappa e la vanga nell’orto del presbitero; quando i doveri del suo stato lo portavano nel crudo inverno, o nella cocente estate, da una cascina all’altra, di paesello in paesello; per la campagna gelata o sotto al sole ardente. L’aria tepida della chiesa, impregnata d’incenso e di esalazioni umane, lo sfibrava. Aveva languori strani; subitanei incitamenti. Volta a volta, gli pareva che il sangue gli s’arrestasse nelle vene spegnendogli ogni forza, ogni vita; mentre l’istante appresso era un torrente precipitoso che minacciava di straripare.
Nessuno più adatto di questo prete per comprendere i difetti e i bisogni dei contadini; ma nessuno più convinto di lui, che a mettersi in testa di correggerli e di migliorarli, avrebbe perso tempo e fatica.
— Troppa miseria! — soleva dire scrollando le larghe spalle — e troppo densa, inveterata ignoranza!
Egli faceva tuttavia quanto poteva fare, chè la pietà rimaneva ardente in fondo al suo cuore.
I contadini, senza comprenderlo, gli volevano bene; e se scoprivano in lui qualche debolezza, la coprivano con la stessa indulgenza di cui egli era così largo verso di loro.
Da parecchi mesi, forse fin dalle prime settimane che l’avevano mandato a quella cura, nel maggio dell’anno avanti, la grande debolezza di don Giorgio Castellani era la Cristina Scaramelli, quella bella ragazza ardita e franca, capace di sentimenti e d’intuizioni superiori al suo stato. Per amore di lei, egli s’era preso al servizio il vecchio Marco, gran fannullone, capace di votargli la cantina piuttosto che badare alla casa e all’orto. Ma la Cristina andava di tratto in tratto a dare una mano al vecchio ubbriacone, e il giovane curato aveva il piacere di vederla. Non una parola, però, aveva rivelato l’ardore segreto; neppure un cenno. Le sue labbra avevano i sette mistici suggelli. Soltanto gli occhi parlavano audacemente, accesi dal fuoco dell’amore.
E Cristina intendeva il linguaggio di quegli occhi, perchè lei pure era trascinata da una forza ineluttabile. Nonostante, se qualcuno si permetteva uno scherzo troppo... campestre, una allusione un po’ salace, ella si rivoltava tutta di un pezzo.
Don Giorgio?... Ma che!... Un santo era!...
E se la parola non bastava, il braccio robusto della lavoratrice si levava per sostenere nel modo più energico la santità dell’ideale amante.
⁂
Le otto sonavano all’orologio del vecchio campanile, e ancora don Giorgio confessava gli uomini.
Tre ore!
E ce ne voleva prima che la fosse finita!
Don Giorgio contava meccanicamente quelli che aspettavano. Ogni volta che ne aveva assolto uno, e un altro andava ad inginocchiarsi ai suoi piedi per narrargli, nel solito modo grossolano, i vecchi peccati triviali, le vecchie miserie, don Giorgio sentiva che le sue forze diminuivano e l’uggia cresceva. Le distrazioni lo assalivano accanitamente. Alzava gli occhi, spingeva lo sguardo fuori della sagrestia, nella chiesa, tra le donne inginocchiate, cercando la Cristina; ripensando tristamente alle cose ch’ella gli aveva dette in confessione la sera innanzi.
Oh! a quale cimento l’aveva messo!
— Voglio bene a uno — aveva detto tremando la giovane voce impregnata di lagrime, di cui egli sentiva il soffio caldo traverso la graticcia, — voglio bene a uno che non mi può sposare... E gli voglio tanto bene che non me ne importerebbe niente di essere sposata... Questo è un grave peccato, lo so... e lui non vorrà mai... è un santo lui... Per questo... perchè sono stanca di patire... ho fissato di andare via... in America...
Ella soffocava; le mancava la voce per la gran vergogna e il dolore, ma diceva, perchè voleva dire.
Dio di Dio! Che passione di non poterla stringere fra le braccia e baciarla sulla bocca mentre parlava!...
Eppure egli aveva avuto il feroce coraggio di dirle che avrebbe fatto benissimo a partire, che era il suo dovere, che Dio l’avrebbe ricompensata ridonandole la pace dell’anima!...
E intanto si sentiva ardere e gelare. Non aveva patito così dacchè era al mondo.
Tutta la notte poi senza chiudere occhio; tormentato da spasimi incredibili... E ora si sentiva le ossa come frantumate; la bocca amara di tossico; il cervello torpido.
Era umano, soffrire a quel modo?... Perchè Dio gli aveva dato quel temperamento?... Ah! il male era di avere vestito quell’abito! Non ci era Dio, nè santi. Si trattava di una povera figliuola che egli avrebbe disonorata...
Un altro pensiero sorgeva improvviso nel suo animo turbato: forse l’aveva già disonorata guardandola, tirandosela in casa... I contadini, che l’avevano indovinato — di questo era certo — non potevano supporre... ma che!...
Lo stimavano lo stesso, però, lo compativano, perchè era giovane e con quel temperamento!... Loro già accomodavano ogni cosa: la terra e il cielo.
E continuava a cercare la Cristina e ad assolvere i peccatori. Assolveva tutti; ora per un sentimento di pietà fraternevole, ora sbadatamente.
Ma dov’era la Cristina? Non si sarebbe presentata alla Comunione?...
Egli le aveva detto che se pensava ancora al suo amore, se ne sognava nella notte, non avrebbe potuto accostarsi alla mensa del Signore...
Perchè dirle di quelle cose, lui che pensava sempre al suo amore, che ne sognava a occhi aperti?... Ah, perchè?... Per la speranza non confessata, ma conscia, ch’ella ritornasse a confessarsi la mattina, a dirgli che aveva pianto, sognato, delirato... come lui stesso!...
— Mea culpa... mea culpa... diceva con voce rotta un nuovo penitente inginocchiato ai suoi piedi.
Era un mingherlino, traballante sulle gambe, il viso bruciato, l’occhio spento: Marco Scaramelli, il padre di Maria e di Cristina.
Il prete gli conosceva i peccati dal primo all’ultimo.
— Anche ieri sera, sì, padre, signor curato... anche ieri sera!... Non posso trattenermi... non posso...
— Hai bevuto l’acquavite?...
— ... Sì... Sono entrato dal tabaccaio... me l’hanno offerta...
— Dovresti almeno accontentarti del vino della mia cantina che bevi, di nascosto, oltre quello che ti do...
— Oh!... signor curato, creda...
— Ricordati che stai confessandoti... non commettere sacrilegio almeno.
E il confessore si mise ad ammonire quello sciagurato, un po’ con le brusche, un po’ con le buone, convinto di non ottenere nulla; chè quello avrebbe continuato a bruciarsi coi veleni alcoolici che i liquoristi vendono ai poveri diavoli.
E non faceva lo stesso lui?... Non si bruciava tutti i giorni con la sua passione?... Non si era bruciato fin dall’adolescenza fissando gli occhi concupiscenti su tutte le donne?... E ora che ne desiderava una sola, era peggio che mai!... sarebbe disceso irreparabilmente, sempre più giù... fino alla dannazione dell’anima... alla rovina di tutta la sua esistenza.
Un brivido gli corse per le vene; i suoi pensieri si concentrarono sopra un solo soggetto; dimenticò l’ubbriacone e le tristi considerazioni che gli aveva ispirato.
Aveva scorto la Cristina.
Era inginocchiata in terra presso al Sepolcro; il viso nelle mani, la testa curva, pareva annichilita.
Piangeva forse.
Don Giorgio sbrigò alla lesta il vecchio Scaramelli, assolvendolo con una indulgenza forse eccessiva — forse colpevole.
Presso alla Cristina, la moglie di Sandro pregava con intenso fervore.
— Ah! — pensò il curato — devo occuparmi anche di quella lì!... Cristina me l’ha raccomandata.
E cercò con gli occhi Sandro Rampoldi rimasto fra gli ultimi penitenti.
Un’altra colpa d’amore: un adulterio incestuoso! Caso purtroppo non raro tra campagnuoli.
Osservando i due amanti, mentre un mezzo cretino, che aveva preso il posto di Marco, si perdeva in un lungo racconto, don Giorgio li giudicava con sicurezza. Sandro gli era sempre parso un buon uomo.
Non poteva che essere acciecato dalla passione, dalla sensualità... Ma la Virginia gli pareva una furba da non affrontarsi direttamente.
Nessun mezzo morale poteva avere presa su quell’indole molle, astuta, scivolante. Non sedotta, seduttrice, lei doveva aver trascinato Sandro al tradimento del fratello; appena sposa forse; e senza passione, senza acciecamento; per comandare a due uomini invece che a uno solo; perchè i guadagni di tutti e due mettessero capo nelle sue mani, e lei potesse contentare i suoi vizi capitali di contadina: l’avarizia e la gola. Certo era di quelle egoiste meschine che pensano a farsi la parte più comoda nella vita, a spese di chi le circonda; ma senza violenza, adoperando i vezzi, le moine, le astuzie.
Non vi poteva essere che un mezzo per farla retrocedere nel suo cammino: la forza. Bisognava schiacciarla.
Ma come?... Avvertire Pietro? Quel toro in furore l’avrebbe stritolata!... A meno che lei non trovasse il modo di calmarlo, protestandosi innocente, accusando magari il suo complice per salvare se stessa. Allora il solo Sandro sarebbe andato di mezzo; e Maria avrebbe pianto tutte le sue lagrime. Bisognava scegliere un’altra via. Commuovere Sandro sullo stato della sua povera moglie: toccargli il cuore. Non era un’indole recalcitrante, tutt’altro. Ma vicino alla Virginia sarebbe ricaduto e come! Bisognava allontanarlo dunque.
Contento in fondo di questa nuova preoccupazione, che lo sottraeva per qualche istante almeno all’incubo tormentoso della propria passione, don Giorgio tornò a volgere lo sguardo sui contadini che ancora aspettavano. Erano due: un giovinetto che faceva il galante con tutte le ragazze del circondario, e Sandro Rampoldi.
Sandro si era tenuto per ultimo. Segno di ripugnanza. E la sua bella faccia abbronzata, dai lineamenti severi e composti, rivelava una vaga inquietudine: segno che la battaglia interna era fiera.
Queste sommarie osservazioni bastarono al confessore per giudicare che, senza la suggestione dell’abitudine, senza il timore dello scandalo, quell’uomo — che era sempre stato religioso — sarebbe fuggito di chiesa, o non vi sarebbe neppure entrato.
Ben presto, anche il bel conquistatore se ne andò assolto.
Serio e imponente nel suo portamento d’antico soldato, pur non riuscendo a vincere un leggero tremito di tutte le membra, il cavallante di Val Mis’cia andò a inginocchiarsi ai piedi del confessore.
Aveva giurato alla Virginia di non dir nulla. All’altro curato l’aveva detto; ma quello, un vecchio buontempone, si era accontentato di strapazzarlo un poco. Con don Giorgio era un altro paio di maniche. Chi sa che cosa gli avrebbe imposto, lui che proteggeva le Scaramelli!
— Quanto a me — concludeva la Virginia — non l’ho mai confessata questa cosa e non la confesserò... Mancherebbe!...
Ma al momento di commettere quell’atto così inaudito per lui, nel convincimento del sacrilegio, tutti gli scrupoli della sua anima religiosa e superstiziosa assalivano il povero cavallante.
E quando don Giorgio lo accusò severamente di essere un cattivo marito; di avere ridotta la sua povera sposa, magra e pallida, da quel pezzo di donna che era; quando gli fece intendere che se Maria moriva, egli sarebbe stato la causa di quella morte, e avrebbe gravata l’anima sua di un assassinio oltre che di tutto il resto, Sandro non potè reggere. Dimenticò la promessa fatta alla Virginia, e, commosso, tremante, sopraffatto da una suprema angoscia, confessò tutto, quasi felice di togliersi quel peso dalla coscienza, colto da un desiderio nuovo, impensato, che il prete lo aiutasse ad uscire da quella situazione dolorosa, tra la moglie che si struggeva nella gelosia, l’amante che lo dominava con la sua felina voluttà e il fratello che poteva scoprirlo da un giorno all’altro.
Dal fondo della chiesa intanto, Maria e Cristina volgevano gli occhi ansiosi dalla parte della sagrestia. Non vedevano altro che lo schienale del seggiolone occupato dal curato, e di quando in quando, in grazia di qualche movimento, una metà del suo viso. Pure, dacchè tutti gli uomini erano venuti fuori, e il solo Sandro non appariva, esse indovinavano che l’ultimo penitente era lui. E il cuore di Maria picchiava e picchiava come se avesse voluto uscirle dal petto.
Nel banco vicino, la Virginia pareva assorta in fervente preghiera. Il viso candido, i lineamenti dolci, l’espressione calma, lo sguardo sereno, manifestavano a primo aspetto una coscienza tranquilla, un’anima senza peccato.
Le due sorelle la guardavano di tratto in tratto con una specie di terrore, spaventate da quella ipocrisia. E lei pure le guardava di sottecchi, e nell’armoniosa dolcezza del viso bianco di Madonna, guizzava un lampo d’odio, e l’occhio sereno si appannava nel segreto timore.
Ma la confessione di Sandro non finiva mai.
Già i chierici intenti alle ultime decorazioni del Sepolcro, avevano compiuta l’opera loro; già tutto era pronto per la deposizione allegorica del sacro corpo: i lumini, accesi; i fiori, disposti in bell’ordine. Già le donne ammiravano.
Sonava il terzo segno della messa grande. I preti erano pronti; i turiboli, pieni d’incenso; l’altare maggiore, parato. E ancora don Giorgio non aveva finito di confessare il cavallante.
Che ansia nel cuore delle due rivali, che spasimo di speranza, di paura, di odio.
Maria pregava con uno slancio di anima liberata che si sente salire. La speranza era tutta per lei; la speranza la portava in alto.
Virginia, sempre più pallida, fissava la cognata con gli occhi ardenti. Gliela volevano fare dunque, gliela volevano fare? Codeste vipere di codeste Scaramelli si erano messe d’accordo col prete per rubarle l’amante, per calpestarla?... E quel vigliacco di Sandro aveva confessato?
Finalmente don Giorgio alzò la mano per benedire e mandare in pace anche quell’ultimo penitente. La vittoria era stata completa: Sandro aveva promesso tutto. Ma don Giorgio sapeva troppo bene che se non lo faceva spartire dal fratello, il più presto possibile, quelle buone promesse sarebbero volate via come il vento; perciò non si rallegrava che a metà. Egli si levò finalmente da quella sedia; si tolse la cotta e la stola, e indossò il camice bianco e i paramenti sfarzosi della messa solenne.
L’organista, stanco di aspettare, intonò il solito pezzo della Gazza ladra, con grande rinforzo di pedali, e la voce fessa del vecchio istrumento empì la navata.
La messa uscì. Uscirono i turiferari squassando i turiboli accesi.
Cristina vide la bella figura di don Giorgio salire all’altare, in mezzo a una nuvola odorante, e il suo cuore balzò, e i suoi occhi non si staccarono più dalla superba apparizione. Erano quelli i momenti luminosi, inebrianti dell’amor suo. Per una serie di sensazioni acute, e non analizzate nè analizzabili, ella confondeva in una gioia suprema, la commozione di femmina innamorata e l’estasi di un’anima istintivamente mistica: la tenerezza e il profondo rispetto: il desiderio e l’ammirazione: l’uomo agognato e l’uomo-dio.
Pallido, ma sempre calmo e diritto, anche Sandro Rampoldi uscì finalmente dalla sagrestia, e le due donne che l’aspettavano con tanta passione, lo fissarono, ansiose.
Egli non guardò che la moglie, e le sorrise.
La Virginia vide e comprese e serrò i denti per non scattare. Poi, domata la prima vertigine, si voltò verso la cognata e i suoi occhi sfavillanti dissero chiaramente:
— Non ti rallegrare! Mi vendicherò.