Timeo/Capitolo XXXI

Capitolo XXXI

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Platone - Timeo (ovvero Della natura) (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Francesco Acri (XIX secolo)
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Dacché queste due specie di cause, sovra le quali è a tessere l’altro ragionamento, cosí stanno dinanzi a noi, come apparecchiata materia sta dinanzi a fabbri; di nuovo cominciamo da capo, là tornando ratto di dove per venire in qua ci movemmo; e ingegniamoci di trarre il ragionamento a conclusione consentevole con ciò che detto è innanzi.

Adunque a principio disordinate essendo coteste cose, Iddio tanta commisuranza pose in ciascuna in verso di sé medesima e delle altre, per quanto ella avea in sé di potenza: perciocché allora niuna cosa era commisurata, salvo se a caso, e universalmente niuna di quelle cose degna era di essere nominata, le quali presentemente hanno nome, come fuoco e acqua o altro che sia; e Iddio le ordinò tutte, e compose questo universo, sí che fosse uno animale che accoglie tutt’i mortali e immortali animali nel seno suo. E di quelli divini è egli medesimo il fabbro; quanto è poi alla generazione de’ mortali, egli la commise ai suoi figliuoli. I quali ricevuto da lui un immortale principio di anima, lui imitando, intorno a esso formarono un corpo mortale, dandoglielo a modo come cocchio. E ancora entro al corpo ebbero fatto un’altra specie di anima, quella ch’è mortale, che in sé accoglie fatali passioni violenti: in prima il piacere, forte incitatore di mali; i dolori poi, fugatori di beni; e anco audacia e paura, stolti consiglieri; e la implacabile ira, e la speranza che lasciasi leggermente menare dall’irrazionale senso e dall’arrisicato amore, il quale a ogni cosa pone mano: e meschiando secondo necessità coteste passioni, sí ebbero fatto l’anima mortale. E temendo non s’illaidisse il principio divino, se pure ciò non fosse di necessità, essi albergano in altra stanza del corpo il principio mortale, fabbricando un congiungimento e termine nel mezzo fra la testa e il petto, cioè il collo, acciocché separatamente quelli abitassero. Adunque nel petto o torace, cosí è chiamato, legaron l’anima mortale. E perciocché una parte di lei ha migliore natura, e l’altra peggiore, ei spartirono in due il cavo del petto, come se una parte fosse abitazione di donne e l’altra di uomini, spiegando il diaframma a modo come un tramezzo. Onde quella parte dell’anima ch’è forte e irosa, come battagliera ch’ella è, gl’Iddii stanziarono piú presso al capo, fra il diaframma e il collo, acciocché ella, obbediente alla Ragione, per forza insieme con lei affrenasse l’altra parte concupiscibile, quando ai savii comandamenti che si bandiscono su dalla rocca non volesse ella per niuno modo ubbidire di buona voglia. E il cuore, nodo delle vene e fontana del sangue, il quale per tutte le membra aggirasi con empito, posero nella stanza dei satelliti; acciocché, quando l’ira bolle, allora la Ragione dando la nuova che alcuna iniqua operazione si fa da fuori nelle membra, ovvero di dentro per i desiderii, ratto quanto è sensitivo nel corpo, sentendo per coteste viuzze i conforti e le minacce, tornasse ubbidiente a Ragione e seguissela in tutto, lasciando per cotale modo sovra sé donneggiare la parte di noi la quale è piú gentile. Al picchiar forte del cuore nell’aspettazion di cose paurose e al gonfiare dell’ira, preconoscendo gl’Iddii che avea a generarsi per fuoco tutto questo rigoglio degli irati, a fin di procacciare un cotale aiuto al cuore, piantarono dentro il petto la figura del polmone, il quale è morbido, senza sangue, e insieme tutto è forato dentro a celluzze, come spugna, acciocché, con ricevere aria e bevanda e con dare refrigerio, procurasse respiro e sollievo nell’ardore. E però eglino incisero nel polmone i canali dell’arteria, e quello siccome molle e cedevole posero attorno al cuore; acciocché, quando monti l’ira, il cuore picchiando in umile cosa e rinfrescandosi e però meno travagliando, potesse piú rendere suo servigio alla ragione ed all’ira.