Timeo/Capitolo XXXII

Capitolo XXXII

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Platone - Timeo (ovvero Della natura) (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Francesco Acri (XIX secolo)
Capitolo XXXII
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La parte dell’anima cupida di cibi e bevande e di ciò di che ha bisogno la natura stessa del corpo, allogarono nel mezzo del diaframma e dell’ombelico, avendo in tutto questo luogo fabbricato come una mangiatoia per lo nutrimento del corpo. E ivi quella legarono come bestia salvatica, che, essendo pure congiunta a noi intimamente, s’avea a nutrire se mai nascer dovesse generazione alcuna mortale. E le assegnarono codesto luogo, lungi piú che si potesse dalla provvida anima, acciocché, pascendosi tutto dí alla mangiatoia, schiamazzasse ella e turbasse il men che potesse, e lasciasse quella serena prender consiglio di ciò che è giovevole a tutte le parti comunemente, la quale è piú gentile ed onesta. Ma vedendo gli Iddii ch’ella fatta è tale che non intende ragione e non se ne dà cura, avvegnaché ne abbia pure alcuno sentimento, e che si lascia tirare specialmente da simulacri e fantasmi, di notte e di giorno; Iddio, per provvedere a ciò, compose la figura del fegato e allogollo nell’abitazione di lei, ingegnosamente facendo sí ch’egli fosse spesso, polito, lucido, dolce e anco amaro: acciocché la possanza dei pensieri che muove dalla mente, ricevuta quivi come in ispecchio che prende postille e fa imagini agli occhi, paura le dia allora ch’ella, usando dell’amarezza che è nel fegato e appressandosegli con rigido viso, minacci; e, la detta amarezza per tutto esso rimescolando finamente, mostri colori di bile; e, costringendolo, lo innasprisca ed arrughi; e insieme il lobo istorcendo dalla sua diritta postura, e i recettacoli e le porte assiepando e rinserrando, gli faccia doglia ed ambascia. Per lo contrario, allora che nel fegato alcuna dolce aura della Ragione dipinge serene parvenze, a lei1 dà riposo e acquetare fa l’amarezza, perocché ella non vuol muovere né toccare cotesta natura contraria alla sua; e usando al fegato della dolcezza che è in lui medesimo, in ogni parte sua facendolo diritto, pulito e franco, placa e umilia la parte dell’anima che è albergata presso al fegato, sí che essa fa di notte convenevole ufficio, cioè quel di divinare nel sonno, da poi che è privata di ragione e intelletto. E per fermo quelli che ci hanno fatto, aveano bene a mente la commissione del Padre, il quale commise loro di fare il mortal genere il meglio che si potesse; e però, nobilitando la parte di noi meno gentile acciocché ancora ella sfiorasse della verità in alcun modo, quivi posero la virtú della divinazione. Un sufficiente segno che Iddio fe’ dono della divinatoria a quella parte dell’uomo che è senza intelletto, si è, che nessuno fa presagio spirato da Dio e verace mentre ha la mente franca, ma sí quando ella legata è per sonno, ovvero è peregrina, per morbo o per alcuno furore divino. A interpretare poi e ricordare le parole dette in sonno, ovvero in vegghia, da alcuna divinante natura, ella è cosa di colui che ha l’intelletto chiaro; e similmente cosa sua è mettere a ragione tutte le apparse visioni, e ritrarre come e a chi significhino alcuno bene o male futuro, o passato, o presente: ma colui il quale è e rimane in furore, non può far giudizio di ciò che veduto è o vociato da lui; e però sino da antico tempo si dice che il bene operare, e il conoscere le cose sue e sé medesimo, è di uomo savio. Onde è legge che i profeti siano preposti a giudici delle divinazioni ispirate: i quali alcuni chiamano divinatori, al tutto ignorando ch’eglino sono bensí giudici o interpreti delle sacre voci e visioni per enigmi, ma non sono divinatori; nientedimeno potrebbesi molto dirittamente chiamarli profeti di quelli i quali sono divinatori. Adunque fatto è cosí il fegato, e posto nel luogo che diciamo, per cagion della divinazione. Ed esso, infino a tanto che è vivo, porge segnali un po’ chiari; ma privato che è di vita, divien cieco e ha divinazioni sí dubbiose, che trarre non se ne può alcuno significato.


Note

  1. All’anima o al principio concupiscibile.