Capitolo II

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Platone - Timeo (ovvero Della natura) (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Francesco Acri (XIX secolo)
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SOCRATE
State ora a udire quello che mi sento io dentro, per questa repubblica la quale io vi ho ritratta: mi sento cosí come colui il quale, riguardando in alcuno luogo animali belli, dipinti o vivi veramente, ma che si posano, sí gli vien voglia di vederli muovere e fare un poco prova, come alla lotta, dei lor belli corpi. Cosí mi sento io; imperocché molto volentieri udirei alcuno recitare le virtuose prove le quali la repubblica mia fa quando è a gara con le altre repubbliche, e come ella entri in guerra, e, guerreggiando, mostri per fatti e parole, bene combattendo e negoziando, cose degne della disciplina e instituzione sua. Caro mio Crizia ed Ermocrate, io, come io, dispero che possa mai essere buono di laudare uomini e repubblica cosí fatti. E il caso mio non dee niente maravigliare; ché oggimai io penso cosí ancora dei poeti antichi e di quelli del tempo novello: non già che io abbia a dispetto la generazione dei poeti, ma sí perché egli è chiaro a ogni uomo, come la gente imitativa quelle cose imiterà agevolissimamente e perfettamente, fra le quali s’è allevata; ma quelle stranie all’allevamento proprio, a tutti forte cosa è bene imitare in fatti e vie piú in parole. La generazion dei sofisti la reputo bene valente assai in fare molte orazioni e altre belle cose; ma, vagando essi attorno per le terre e non avendo ferma stanza in niun luogo, temo non possano immaginar le opere che farebbero in guerra e nelle battaglie, e i ragionamenti che avrebbero insieme conversando, uomini filosofi e politici come quelli. Rimangono adunque quelli dell’esser vostro, da poi che per natura hanno le due doti sopraddette, e per ammaestramento. Ecco Timeo, da Locri, città d’Italia ordinata a leggi bellissime, dove per copia di sostanze e gentilezza di sangue non istà dopo a niuno; egli ha avuti là i piú ragguardevoli maestrati e onori: e poi egli è già salito su in cima di tutta filosofia, a quello ch’io vedo. Crizia poi conosciamo bene tutti noi di qua, ch’egli di niuna di quelle cose è nuovo, che noi diciamo. E dell’ingegno e avviamenti di Ermocrate e’ s’ha a credere che siano convenevoli a tutte queste cose, molti facendone certanza. A questo pensando io ieri, dimandandomi voi che vi ragionassi della Repubblica, di presente io vi ebbi soddisfatti; conoscendo che niuno è al mondo, il quale possa meglio di voi, pure che vogliate, compiere il ragionamento: imperocché inducendo voi la Repubblica a onesta guerra, infra i vivi potete voi soli ritrarre le chiare opere sue, degne di lei. Compiuto io quello che voi m’avete commesso, commisi altresí a voi quel che io ora dico. E voi, prendendo consiglio insieme, di concordia m’avete invitato oggi alla vostra volta a graziosa imbandigione di ragionamenti: e però eccomi qua tutto pulito, con la maggiore voglia che niuno mai avesse.
ERMOCRATE
Come disse Timeo, faremo tutto il nostro potere, di buona voglia, caro Socrate; né ci è scusa per trarsi indietro. E però ieri, tosto usciti di qua, giungendo alla casa di Crizia, nelle camere dove noi alloggiamo, e anco per via, ci mettemmo a pensare. Ora non sai tu? egli ci contò un’istoria antica; va’, Crizia, la di’ a lui, perché egli veda con noi se fa o non fa.
CRIZIA
La dirò, se cosí pare anco al nostro compagno, a Timeo.
TIMEO
A me sí, pare.
CRIZIA
Sta’ a udire, o Socrate, una molto maravigliosa istoria, tutta vera, come una volta raccontolla Solone, de’ sette il piú savio. Egli era tutto della casa di Dropido, il nostro proavolo, e assai suo dimestico, come dice spesse volte ne’ suoi canti ei medesimo. Ed egli disse a Crizia, l’avolo nostro, come ci contò di poi quel buon vecchio, che grandi e molto mirabili furon le antiche opere della nostra città, oscurate per il tempo e per la morte subitanea degli uomini; e fra tutte una è piú grande, della quale ci conviene oggi fare memoria, e per render grazie a te, e insieme, quasi inneggiando noi alla Dea nella solennità sua, celebrare lei con degne e veraci laudi.
SOCRATE
Tu di’ bene; ma qual’è cotesta opera non mentovata e nientemeno fatta dalla nostra città anticamente, secondo che raccontò Solone?