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322 ATTO PRIMO
Qui Pallade e Minerva hanno i dovuti onori,

Qui Venere dispensa le grazie ed i favori.
Esser può saggia altrove, può splender come stella,
Sarà donna straniera men colta e meno bella.
Terenzio. Perdonami...
Livia.   Contrasta meco uno schiavo invano.
Di Roma non conosce i pregi un Africano.
Il tuo saper t’innalza, ma il basso in te prevale,
De’ miseri stranieri difetto universale.
Terenzio. Faccian del Tebro i numi, che al ver mia mente salga;
E quel che ne’ Romani prevale, in me prevalga.
Livia. Principia dalla stima maggior del nostro sesso.
Terenzio. Per te dell’eroine stima maggior professo.
Livia. Per me? (dolcemente)
Terenzio.   Tuo merto il chiede.
Livia.   Per me le donne apprezzi?
Terenzio. Lo mertan tue virtudi, l’esigono i tuoi vezzi.
Livia. Olà. Tale a Romana schiavo favella ardito?
S’altri che te il facesse, non andrebbe impunito.
Terenzio. Se per lodar tuoi pregi ingiuria a te si reca,
Per me fia men periglio trattar la schiava greca.
Livia. No, dal tuo cuor quel nome porre tu devi in bando.
Sfuggir devi Creusa; lo voglio e lo comando.
Terenzio. Son vil, se per le schiave s’abbassa il mio pensiero,
Son, se a Romane aspiro, prosontuoso altero.
Onde, se ha gli estremi mezzo trovar non basto,
Dovrò, sino ch’io vivo, starmi solingo e casto.
Livia. Il bel de’ tuoi pensieri, il vezzo de’ tuoi carmi
Han l’arte di piacere, han forza d’obbligarmi.
A te penso, o Terenzio, più che non credi, e invano
Pensar non mi lusingo, in favor di un estrano.
Terenzio. Degno di grazia tanta non son io, lo confesso;
Nè so se ringraziarti nemmen mi sia concesso.
Non so se alla clemenza, di cui tu mi fai degno,
Possa il beneficato dar di rispetto un segno.