Tempesta e bonaccia/XXI
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XXI.
«Sempre con quell’andirivieni di lettere, che ormai era parte integrante della mia esistenza, ed era la parte più cara, terminai la stagione di Reggio; di là passai ai bagni di Livorno, dove mi raggiunsero il babbo e Gualfardo che avevano ottenuto entrambi un mese di libertà per passarlo meco.
«Questa volta Gualfardo ed io eravamo, per dirla con termine da teatro, perfettamente affiatati. Freddi entrambi, egli per natura, io per lo sgomento che avevo di mentire con lui un amore che sentivo invece per un altro, ci trattavamo come due bagnanti che si sieno conosciuti alla tavola rotonda il giorno innanzi. Così a me non accadeva di fargli rimprovero della sua freddezza; e, quanto a lui, sarebbe andato a rotoli il mondo prima che pensasse a rimproverarmi la mia.
«E tuttavia ogni volta che scrivevo a Massimo o ricevevo lettera da lui, mi sentivo umiliata della mia la mia colpa, ne avevo rimorso, stavo a disagio tra il babbo e Gualfardo; e cento volte fui sul punto di aprire l’animo mio al mio bel maestro, e di dirgli lealmente: «o fa ch’io possa amarti, o rendimi la mia libertà.»
«Ma come erano passati i trasporti febbrili di Milano pel bello ed innamorato Massimo, come era passato il grande sconforto per la caduta delle mie illusioni a Reggio, passarono anche i miei rimorsi ed i propositi generosi. Nei romanzi, sul teatro, tutti i principii hanno un fine; tutti gli intrecci giungono ad uno scioglimento. Nella vita codesto accade di rado; tutto passa e si dilegua. Sic transit.
«E finì il mese dei bagni, e mi recai a Firenze dove ero scritturata per andar in iscena colla Jone al teatro della Pergola.
«Le lettere di Max s’erano fatte sempre più misteriose; mi citava dei versi d’amore, ne scriveva per me. Nella mia qualità d’artista ero circondata a Firenze come altrove. Ben pochi non mi corteggiavano; ed a me pareva che l’amore fosse il grande affare dell’umana vita.
«Il babbo era tornato con Gualfardo a Torino; non avevo ambiente di famiglia che m’inspirasse a maggiore serietà d’idee. Quanto a Gualfardo non mi parlava mai, nelle sue lettere, del nostro matrimonio, più che d’un eclissi lunare. E così mi restava sempre quel vuoto nel cuore, ch’egli non pensava a riempiere con una parola appassionata, e ch’io popolava colla calda memoria di Max.
«Ero alla vigilia di lasciar Firenze. Scrissi al babbo che sarei partita col primo treno dell’indomani, e sarei giunta a Torino la sera stessa. Non contavo fermarmi per via.
«La sera mi giunse una lettera di Max. Era una strana lettera, che riporto per intero.
- — «Mia buona amica,
— «Avete voluto mortificarmi rimproverandomi i sottintesi delle mie lettere; accetto la lezione e ve ne ringrazio. Voi dite sempre le cose vere, e per giunta, come le dite benino! Insomma, siete una giovane ammodo, e vorrei esservi vicino per esprimervi tutto il trasporto d’amicizia e di simpatia... che ho per voi. Quanto al resto, acqua in bocca. Non volete più che ne parli; e sia.
— «Mi crederete molto malvagio se vi dico che provo un senso di acre voluttà figurandomi che il vostro Gualfardo pensa forse, nel gelo della sua anima, alla vostra freddezza durante il mese di Livorno, e ne soffre alla sua maniera?
— «Vi sono periodi nella vita in cui si sveglia nell’uomo tutta la parte che gli è toccata nella grande eredità del male. Io mi trovo in uno di cotesti periodi. Non mi sono mai sentito così parente (alla lontana) coi malfattori d’alta e bassa sfera, come ora, e pensando a voi ed al giovane tedesco.
— «Il fatto è che io sono molto infelice. Vi giuro pei bei giorni del nostro fuggevole passato, che non faccio delle frasi per commovervi. A che le farei? Anch’io come voi dispero dell’amore; anch’io, Fulvia, guardo con tristezza sconfortata a quel lampo di felicità che ci ha abbagliati. E poi? E poi c’è Gualfardo, e la vostra fede inviolabile a quella statua di ghiaccio, ed il suo anello nuziale, e la sua felicità.
— «Non son chi fui, perì di me gran parte: la parte migliore, la parte che nessuna potenza umana potrà ridonare alla vita. Mi resta la vostra amicizia, Fulvia; la vostra affettuosa amicizia, punto luminoso e dolcemente mesto in una landa oscura e fastidiosa.
— «(Ora poi voglio posare sulla tua bella fronte un lungo bacio, che sia il compendio delizioso di tutte le mie speranze svanite, di tutte le mie illusioni non raggiunte; che sia come la cadenza armoniosa di una bella canzone, che non dovremo mai più ricominciare).
— «Addio, Fulvia. Non mi rimproverate un ultimo sfogo dell’anima. Io non sono temibile per voi. Non credo di esserlo stato mai dinanzi alla vostra fiera virtù. Ma ora poi, mi sento disfatto in faccia a me stesso, e debbo esserlo anche in faccia a voi. A rivederci, se il destino lo vorrà. Quando vi stringerò la mano, la bella mano candida, mi troverete molto mutato.
— «Max.»