Tempesta e bonaccia/V
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V.
Stavo sotto l’incubo di quel legittimo orrore. Ed intanto la mia delicatezza cominciava a trovare ogni giorno più penosa l’idea di tradire un amico ne’ suoi più cari affetti.
Una sera andai al teatro Carcano. Vi cantava una artista esordiente, giovane, simpatica.
La sera seguente il Carcano era chiuso. Il direttore dell’orchestra mi offerse di presentarmi a lei. Ero così triste, che proprio non desideravo far conoscenze; ma per compiacere il mio vecchio amico, andai con lui dall’artista all’Albergo Milano.
Trovai che la giovane signora conversava con un giornalista mio amico. Era Giorgio Albani.
Il vecchio professore si ritirò alle nove. Io, giovane, non potevo ritirarmi così presto; sarebbe stato scortesia verso la signorina; era quanto dirle che la sua compagnia non mi tornava gradita.
Mentre io, sempre egualmente sollecito della salute del mio vecchio amico, lo accompagnavo — sino in capo alla scala, — la signorina disse a Giorgio:
— E quel signore che non ha preso il cappello e non m’ha salutata? Non se ne va?
— Perchè? Le dispiace? domandò Giorgio.
— Un poco; ha una cert’aria inquisitoria; quando mi guarda mi sembra di un’autopsia morale.
— Come s’inganna! È così sbadato, e così buono; quando lo conoscerà meglio, sono certo che le piacerà.
— Può darsi; ma intanto mi annoia; volevo fare una passeggiata, ma con quel signore non oso; mi dà soggezione.
— Massimo!? esclamò Giorgio ridendo. — Ma le giuro che egli non aspira punto a destare questo sentimento nelle signore...
In quella rientrai. Giorgio mi disse:
— Massimo, la signorina mi diceva che desidera fare una passeggiata; ma ha soggezione di te.
Egli diceva questo in aria di tanta ammirazione... si sarebbe detto che facesse un merito a sè stesso della timidezza di quella signora.
Giorgio sapeva ch’io non amo in generale le artiste. La libertà delle loro maniere mi dà uggia. Ed ora sembrava dirmi: Vedi che Fulvia non si emancipa; e, per essere artista, non cessa d’essere una signora?
Io contavo proprio quella sera di gettare colla mia presenza un raggio di felicità sull’esistenza della donna mia... Ma all’udire il desiderio dell’artista... esordiente, giovane, simpatica, — dovetti rassegnarmi, per delicatezza, a mettermi in terzo con lei e con Giorgio in quella passeggiata. — Ritirarmi sarebbe stato esternare il sospetto ch’essi stessero meglio soli... un uomo delicato non offende così gratuitamente una donna. Così, invece di tergere le lagrime della mia bella marchesa, mi rassegnai a sopportare il sorriso inesauribile di quella spensierata giovane. Ella scherzava su tutto. Pareva una cicala, nata solo per cantare.
Io, che avevo tanto amato i languidi sguardi, gli atteggiamenti melanconici della donna mia, sempre avvolta in una nube di tristezza, trovavo insoffribile il cinguettìo di quella nuova venuta.
Ciarlando un po’ di tutto, ella venne a dire di essere stata raccomandata alla marchesa Vittoria Prandi; era la donna dei miei pensieri. E Vittoria, cortese e generosa, era corsa a vedere la giovane raccomandata nella sua camera dell’Albergo Milano.
Ora dunque Fulvia desiderava passare la sua prossima sera di riposo al circolo della marchesa, per ringraziarla della sua cortesia. Pregò qualcuno di noi a volerla accompagnare. Con che gioia colsi quell’occasione di vedere la donna mia!
Anche Giorgio Albani si offerse di fare da cavaliere alla giovane artista; ma egli non frequentava la casa di Vittoria; la conosceva poco; io invece ero intimo della famiglia; lo persuasi che era più conveniente che Fulvia vi si presentasse con me, e con me solo.
Ella rimase indifferente a codesta discussione, ed interpellata rispose:
— Per me, purchè vi sia qualcuno che m’accompagni, sia l’uno sia l’altro, mi fa egualmente piacere.
Facemmo una lunga passeggiata. Fulvia fu allegra, gentile, spiritosa, ma serbò sempre un certo imbarazzo riguardo a me. Quando mi parlava, evitava di guardarmi, e non accompagnava il discorso col menomo gesto.
Si occupava ad abbottonarsi o sbottonarsi i guanti, a cogliere una foglia ed a ripiegarla in tutti i sensi, e seguiva cogli occhi l’atto della mano, quasi fosse più intenta a quello che a quanto diceva.
I tratti di spirito che intercalava al discorso, i frizzi con cui presentava in caricatura una persona o una cosa, detti così senza importanza e poco accentuati, acquistavano un carattere più umoristico e sorprendevano di più.
Quando l’avemmo ricondotta all’albergo, Giorgio mi ripetè quanto ella aveva detto a riguardo mio, mentre accompagnavo il mio vecchio amico sulle scale.
— Ebbene, dissi, domani a sera non verrò. Non voglio privarla del piacere d’esser sola con te.
Egli non rispose. Era delicatissimo, prudente, pieno d’onore. Forse gli dispiacque il sospetto sottinteso in quella mia risposta, e non volle nondimeno ribatterlo per non impegnare una discussione che poteva far torto ad una signora ch’egli stimava. Parlammo d’altro e parlammo poco.
Io amavo sinceramente Giorgio, che era un nobile cuore, un amico leale. Pensai a lungo a quella parola amara che gli avevo detta; ed a quando a quando ripensai alla antipatia della giovane artista per me.
Prima che giungesse la sera del giorno seguente, mi persuasi che, a rimediare all’offesa che le avevo fatta, ed al dispiacere che avevo dato a Giorgio, era necessario che passassi ancora quella sera con loro. Andai a vedere Fulvia nel suo camerino in teatro; Giorgio mi vi raggiunse, e tornammo all’Albergo Milano insieme.
Fulvia aveva cantato quella sera con tanta grazia e tanta passione, che il pubblico l’aveva accolta con entusiastici applausi. Nel camerino s’erano affollate le visite a complimentarla. Io l’avevo ascoltata da un palco di proscenio, ed amantissimo della musica, ero stato profondamente commosso dalla sua voce; dimenticai le parole poco lusinghiere per me che ella avea dette ad Albani e, nella sincerità dell’animo, le dissi porgendole la mano:
— Signora Fulvia, ella mi ha strappato le lagrime.
— Le ho vedute, mi rispose: e mi strinse la mano cordialmente, e da quel momento fummo amici.