Te chiamo in testimonio, o de' mortali

Giovan Battista Marino

XVII secolo Indice:Marino Poesie varie (1913).djvu Letteratura I. Contro il vizio nefando Intestazione 2 settembre 2023 100% Da definire

Apre l'uomo infelice, allor che nasce (Croce)
Questo testo fa parte della raccolta Poesie varie (Marino)/Versi morali e sacri


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i

contro il vizio nefando

Invettiva.

     Te chiamo in testimonio, o de’ mortali,
e di quanto qua giú nasce tra noi,
produttrice benigna e prima madre!
Tu, d’elementi pria caduchi e frali
composto l’uom, perché potesse poi,
d’ampia succession felice padre,
con vicende leggiadre
eternarsi in altrui, vaso formasti
distinto ed atto a ricettar quel seme,
che, copulati insieme,
stillar dovean tra dolci incendi e casti;
ma del precetto tuo l’ordin fecondo
prevaricò, contaminato, il mondo.
     Vide il secolo allor, guasto e corrotto,
in nodo abominevole giacersi
congiunti insieme una natura, un sesso;
e, con empi imenei, raccolse sotto
giogo strano e difforme uomin perversi,
l’un marito de l’altro, un letto stesso.
A l’orribile eccesso
tremò Natura, indietro il Sol fuggío;
pianser, dipinti di color vermiglio,

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e con le penne il ciglio
gli angeli si velâro innanzi a Dio.
Lo stesso autor di sí nefande cose
trasse l’uomo a compirle, e poi s’ascose.
     Girò torva le luci al gran misfatto,
e tanto ardire a castigar s’accinse
la punitrice de’ mortali errori.
Ne la destra divina orrida in atto
mille folgori e mille accolse e strinse;
e scaturí sovra i vietati amori
torrenti di furori,
di fumo e zolfo turbini e procelle
sparse, e versò ne l’essecrabil loco
pruine alte di foco;
grandinò lampi e saettò fiammelle.
Cosí ne l’inumano uman legnaggio
vendicò l’altrui fallo e ’l proprio oltraggio.
     Ahi, che val non intero e non perfetto
di misture viril trastullo obliquo,
che grida foco e chier’ vendetta e sangue?
trastullo in cui del non commun diletto
sotto il crudel violatore iniquo
geme e si dole il violato esangue;
beltá, che tosto langue;
fior, cui manca in un punto il vago e ’l verde;
amor, dove altrui arando, empio bifolco,
vil campo e steril solco,
in non ferace arena il seme perde,
e, distruggendo in quanto a sé natura,
dove amor non si trova, amor procura.
     E v’ha pur tal che a le proterve voglie
ed a l’avide altrui frenate brame
volontario se stesso espone e piega;
e ’n guisa, oimè, di meretrice e moglie,
d’opra fetida e rea ministro infame,
infemenito a l’amator si lega;

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e, mentre viver nega
sí come nacque, e maschio esser ricusa,
cangiarsi pur con novo modo orrendo
in femina volendo,
né pure uomo riman, ma di confusa
natura ufficio in sé doppio ritiene,
e di due qualitá mostro diviene.
     S’egli è ver che d’amor come di luce
primi fonti son gli occhi, e da lor nasce
quel soave desir che in noi si cria,
e sol del dolce raggio, il qual produce
l’amato aspetto, si nodrisce e pasce,
verace amante, e nulla piú desia,
qual esser può che sia
dolcezza ove si nega il guardo e ’l riso?
ove quel ben che t’innamora e piace,
quasi avaro e fugace,
ti volge il tergo e ti nasconde il viso?
Atto da scolorar la faccia al giorno,
da far infamia stessa arder di scorno!
     Ma da sí sozzo oggetto e sí profano,
di vista indegna oltre ogni creder brutto,
ben la fronte a ragion torcer conviensi;
e, se tanto l’aborre il guardo umano,
che fará Quel, che da le stelle il tutto
vede ed osserva e non soggiace a’ sensi?
Forsennato, e non pensi
che ’l tuo custode allor spirto ti mira:
spirto puro innocente, occhio gentile,
che cosa immonda e vile
mirar non sa senza vergogna ed ira?
Dritto ben fia che, pien di giusto zelo,
la tua cura abbandoni e torni in cielo.
     Deh! poiché sí de la licenzia il freno
a l’umana lascivia il senso ha sciolto,
ch’oltre il lecito e ’l dritto erra e trascorre,

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quanto è piú dolce e piú giocondo almeno,
petto a petto congiunto e volto a volto,
bella donna, che t’ami, in braccia accôrre,
bocca a bocca comporre,
e, con cambio reciproco d’amore,
amar beltá che, a le tue voglie ingorde
rispondente e concorde,
spirto unisce con spirto e cor con core,
e de la gioia egual, che teco prende,
quanto a punto le dái, tanto ti rende!
     Chi pria le leggi immaculate e sante
del Monarca immortal ruppe e disciolse,
e morbo al mondo e vituperio accrebbe,
quando, del sesso suo perfido amante,
in uso reo l’armi d’amor rivolse,
e di tradir natura orror non ebbe;
fèra dirsi non debbe,
benché in atto ferino il cielo offese:
gli ordini a lor prescritti entro le selve
serbano ancor le belve,
né di fiamma sí brutta han l’alme accese.
Fèra non fu, ma furia empia d’Averno,
il trasgressor del gran decreto eterno.
     Macchiasti tu de l’innocenza antica
il semplice candor, sozza inventrice
sol di vizio e d’error, novella etade!
Quindi a l’altrui libidine impudica
l’empia delizia, d’ogni mal nudrice,
strade insolite aperse e non usate.
Leggi, e voi non v’armate?
fiamme, e voi non ardete? incendio e peste,
e non piovi e non struggi? e tu, guerrera
spada d’Astrea severa,
non recidi e non sveni? ira celeste,
tanto rigida piú quanto piú lenta,
né la tua destra ancor fulmini avventa?

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     Chiunque in grembo a giovinetta amata
talor si stringe e ’n compagnia s’accoppia,
quegli il piacer veracemente abbraccia.
Ella, come colei che a questo è nata,
emula nel diletto i nodi addoppia,
e di piacerti sol par che le piaccia.
Teco lieto s’allaccia;
se la baci, ribacia, arde e si strugge.
Fertile poi di dolce prole e bella
in lei si rinovella;
né temer puoi che, qual balen che fugge,
o come a mezzo april torbida bruma,
il tuo tesor t’involi invida piuma.
     Ma tu pur, temerario, il ciel disprezzi,
e ’n quell’albergo forse, ove pendenti
stanno immagini sante e sacre cere,
vergognose lusinghe, infami vezzi
trattar non temi? e trar presumi e tenti
d’illecita union laido piacere?
Oh mostruose e fiere
voglie piú che infernali, ebbro appetito,
non desio ma furore! E te che sai
ciò che soffri e che fai,
di mal sí grave essecutor ardito,
non assorbe l’abisso? e quelle indegne
fiamme d’amor fiamma del ciel non spegne?
     Canzon, meco rimanti;
non t’oda il vento e non ti veda il sole:
ché di sí scelerato atto e nefando,
anco i biasmi cantando,
si vergognan le muse a far parole:
la man trema e l’ingegno e manca l’arte,
arrossiscon gli inchiostri, ardon le carte.