Tacito abburratato/I. - Discorso terzo
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I
DISCORSO TERZO
Argomento
Germanico, che in apparenza amato, e in fatti sommamente odiato era da Tiberio, riportò vittoria nella Magna de’ tedeschi, e rizzato poscia un nobile trofeo, dedicollo a Giove, a Marte e ad Augusto, senza fare di sé menzione. Le parole di Tacito son queste: Laudatis Pro concione victoribus Caesar, congerient armorum struxit, superbo cum titillo. Debellatis inter Rhenum Albimque nationibus, exercitum Tiberii Caesaris ea monimenta Marti et Iovi et Augusto sacravisse. De se nihil addidit, mela invidíae, an ralus conscientiam facti satis esse. (Annalium, lib. II).
Quattro cose disse il saggio esser difficilissime a conoscersi: la via dell’aquila nel cielo, del serpente sulla pietra, della nave in mezzo al mare, e del giovane nel fior degli anni. Io, qualor temeritá non fosse il voler mettermi in dozzina co’ Salomoni, aggiungerei la quinta, ciò son l’opere de’ prencipi e de’ grandi; i quali amano, ch’elle molto ben si osservin da ciascuno, come cose da ammirarsi, e sdegnan, che da alcuno vengano comprese, come cose la capacitá umana molto eccedenti. Onde a chi va pure rintracciandole altro al fin non riescono, che quella luna, della quale si facetamente dice l’Ariosto nella terza satira:
Chi con canestro e chi con sacco per la |
Quindi temerario parrò io in pretendere d’indovinare, da che mosso mai Germanico, dopo di aver eretto a Marte, a Giove e ad Augusto un nobile trofeo del Reno e l’Albi debellato, di sé tacesse. Ma l’imbrocchi io o no, assai sarammi il dimostrare, che di fatto somigliante la cagione, la quale io addurrò, assai piú di quella, che ne assegna Tacito, avrá faccia di veritá.
Doppio si è il motivo, che Cornelio apporta del silenzio di Germanico. Metu invidiae, ecco il primiero; il secondo, an ratus conscientiam facti satis esse. Per cominciar dalla coscienza, ovunque io giri gli occhi dalla nascita del mondo fino al giorno di oggi, non so ravvisar piú ardente stimolo che quello della gloria nel cuor dell’uomo. Questo solo ha sollevato gli obelischi, effigiate le piramidi, fondato i mostruosissimi colossi, traportate od ispianate le montagne, secche le onde dentro il mare, fatto scaturire il mar nelle foreste, tratto a navigar i boschi con le vele, con le fiamme a volar la terra: questo ha incenerito a’ Scevoli le destre, a’ Curzi ha sprofondato la persona, alle Lucrezie aperto il petto, a’ Cocliti tagliato dopo il tergo i ponti, a’ Regoli reciso il ciglio, a’ Deci mutato l’abito, a’ Democriti cavato gli occhi, a’ Socrati temprato il nappo, ed a’ Calani infiammato il rogo. Se si stemprano i colori sulle tele o sulle mura, se si spuntan gli scalpelli sulle statue, se si logoran le penne sulle carte, se si sviscerano i vermi con le sete, se si disciplinan gli ori co’ martelli, se si struggono le gemme con l’aceto, se si calcan sopra i pavimenti i monti, se si numeran co’ piatti sulle mense i climi, tutti del desio di gloria sono artifizi. Per lui passano i leoni e le pantere a cento a cento dalle lor natie boscaglie a dar con prigionier valore sulle arene teatrali ferocissime delizie agli occhi de’ riguardanti: per lui gl’innumerabili accoltellatori rappresentano battaglie simulate con veraci stragi a sí crudeli spettatori, che qualor mancassero al teatro fiere, di spettacolo servir potrebbono.
Dura cosa è il consumarsi con vigilie faticose, ma il desio di gloria la fa soave; cosa orribile è affrontare a viso aperto in campo la morte armata, ma il desio di gloria la rende agevole; aspra cosa è ber veleno in Africa o morir di sete, ma il desio di gloria rende l’una e l’altra saporitissima; cosa insopportabile è mangiar in duro assedio il cibo stesso piú di una volta, ma il desio di gloria toglie la nausea; cosa orribile al pensiero è il macel de’ propri figli, ma il desio di gloria somministra lena al cuore, agli occhi per vederlo, per comandarlo. In somma non vi è legge di natura, non intoppo di fortuna, non fatica di arte, non contrarietá di usanza, non avversitá di voglia, che l’ingegno, l’ardimento, la risoluzione, il vizio o la virtú dell’uomo per servir al desiderio della gloria tutto non vinca.
Gli animali stessi, quanto piú somiglian l’uomo, tanto maggiormente ancora il pungol della gloria e dell’onore tien risvegliati. Quindi se si guardan gli elefanti, che hanno un non so che del ragionevole, eccone uno, che di notte con barriti flebili deplora la sua servitú, ma colto in fatto, vergognando di mostrar le sue miserie o la sua debolezza in sofferirle, subito tace; eccone lá un altro, che di rabbia di essersi lasciato vincere dall’emolo in guadar un fiume, con rabbiosa fame lascia morirsi; ecco il terzo, che sta tutto inteso ad istudiar nell’erudita polvere la lezione scritta di suo proprio pugno, per non incontrar piú scorno davanti al maestro. Quando dunque maggiormente fia sollecito e geloso della propria riputazione il medesimo uomo? Ben mostrollo Palemone, il quale, stato eloquentissimo nella piú fresca etade, per non sopravvivere alla sua eloquenza, privo degli usati applausi, fu becchino di se stesso, esortando i circostanti ad affrettare la lapida sopra il suo corpo. Inducite, diceva, inducite, ne me sol videat tacentem.
Ma se prova gentilissima volete, o miei signori, quanto il pizzicor di lode stuzzichi i mortali, ve ne sia cortese Luciano, con l’ammettervi ad udire una difesa, che la ninfa Galatea si prende a far di Polifemo contro di altre ninfe, che di lui levavano ben grandi i pezzi. Strana cosa certamente a chi rimembra, chi l’un fosse e chi fosse l’altra. Quegli era uno, non pur aborrito dalla ninfa, perch’egli era la gran bestia in paragon dell’elefante, piú che l’elefante in paragon del topo, e perché avea una vuota occhiaia in fronte da affacciar visi, come a finestra di lui degna, il capo di Lucifero, e da’ tumidi labroni giú gocciava sanguinosa bava pe ’l macello ingordo e sempre fresco delle carni crude, maciullate senza piú distinguere tra capre od uomini, e aveva braccia e coscie e petto con cotante setole da far cilici per una Tebaide intera, e sue parole eran ruggiti, eran grugniti: dove Galatea tutta era gentilezza, giovinetta leggiadra, e bella; ma anche piú: perch’ella ardea per Aci, anch’egli giovinetto vago, leggiadro, e bello, e il Ciclope era disturbatore importunissimo de’ loro amori. E pure il loda, e gli fa scudo contro i biasimi delle compagne. E perché questo? Non per altro, che perch’il difforme mostro l’avea lodata. Avessel fatto al suono di vilissima zampogna, con vociaccia ciocchia ed aspra piú che quella de’ suoi buoi, de’ suoi montoni, non importa: l’avea lodata. Questo è beneficio tale, che quantunque venga da un nemico, vince ogni riguardo, né si può negarglisi della dovuta gratitudine la ricompensa. Tanto può nel petto umano desio di lode. Or Germanico non era egli uomo, ed uom romano? nazione, che nell’onoratamente trapassar di bocca in bocca mettea il sommo bene in vita e dopo la vita. Ed oltre l’essere uomo, e essere romano, non era ei soldato, e general d’eserciti? mestiere, che ha per utilmente scialacquato e sangue e viscere e quanto han le membra di vitale, purché poche stille di un inchiostro lodatore da famoso o storico o poeta se ne riportino!
E Germanico, dopo aver la lode meritata, non l’avrá voluta, mentre vedesi ogni dí, che ancor chi non la merita, pure la vuole? Gli sará bastato il testimonio (come dice Tacito) della coscienza? Ah, che questo basta a’ cristiani, non a’ gentili; basta a quelli che una nuova vita credon dopo morte, non a quelli che sol credon ritrovarsi morte dopo la vita: basta a quelli, a cui, mentr’oprano pe ’l paradiso, l’operar medesimo da solo a solo è paradiso, non a quelli, che operando sol pe ’l mondo, senza l’approvazion del mondo privi si rimangono del fin preteso: basta a quelli, che co’ fatti egregi aspirati solamente a veder Dio, non a quelli, che sospiran solamente l’esser dall’uom veduti: basta a quelli, che anche chiusi in una piccola celletta, confinati in un romito bosco o in una solitaria grotta, han per ispettatori milioni di angioli; non a quelli, che anche delle belle azioni, ch’essi fanno in faccia al pubblico, a gran pena pon divolgar la fama: testimonio Cicerone, che tornando dal cicilian governo, quando si credea di non sentire per l’Italia e in Roma parlar di altro, s’incontrò in chi, non sapendo né men ch’egli fosse stato in reggimento di provincia, fece per vergogna Cicerone stesso rimaner muto. E lo stesso Tacito, parlando giusta i dogmi del gentilesimo, disse in altro luogo: Contemptu famae contemni virtutes, per mostrare che il riguardo sol della coscienza è debole incentivo per la virtú.
Ma che direm noi, se anche il cristiano solo per averne approvazion dall’altrui testimonio adopera lodevolmente? Che s’egli si appaga della sua coscienza, se ne appaga, perché sa che avendoci per testimonio Iddio medesimo può dir con veritade di averci il tutto. Ma fosse egli pur cosí, che si appagassero i cristiani nel ben fare della sola lor coscienza, non vedrebbonsi talvolta, invece di ficcar il capo dentro il banco della chiesa maggiormente ritirato, irsi a piantar sul corno stesso dell’altar maggiore, senza lasciar luogo a pena al sacerdote, cotali Aristarchi catoniani, e ivi con un coronone in mano, lungo quanto la lor barba, tracollar giú tratto tratto certi paternostri, grossi come i moncelli e risonanti come tocchi di campana; non faria vedersi in mezzo di calcata chiesa con uno ufficiuol della Madonna, che ha piú del messale che del breviario alla grandezza e a’ signacoli, preso spesso alla rovescia, far i pissi pissi (se latini o arabici, nol so) quella vedova paffuta, dalla quale chi nascondersi bramasse il giorno, può ire ad abitar nella sua casa, non ch’io voglia dir perciò, che chi bramasse ritrovarla, debba andare ove si veglia, ove si giuoca, ove si fanno porticate o carrozzate o barcheggi o balli; non si mirerebbono alle prediche, fornita la primiera parte, al far della limosina, levarsi per gittarla ne’ sacchetti certe braccia cosí alte, che piú non sarebbono, se avesser con la pertica a levar dal cornicchione della chiesa i ragnateli; non si udrebbono negli oratori sagri, quando spento od appiattato il lume, e dalla destra contro la rubella carne impugnasi giusto flagello, non s’udrebbon dico certe scorreggiate larghe larghe, quasi piattonate, acconcie maggiormente ad intronar il capo di quei che odono, che a macerar colui che sente: dalle quali posto ciascheduno in gran curiositade, non vi sta gran tempo, posciaché il sonoro confratello, col lasciarsi veder cinto, non di un centuria, ma di una cinghia, qual non l’ebbe mai l’alfana di Morgante, mette agevolmente in chiaro ciò che al buio egli adoperò.
Ma a Germanico tornando, non pur sembra nulla al vero somigliante, ch’egli della propria sua coscienza si appagasse, perciò ch’era ed uomo, ed uom romano, e di mestier guerriero, ma anche perché da altre sue azioni scorgesi assai chiaro, ch’egli fosse sommamente ambizioso per condizione speziale di sua natura.
Riandate un po’ per grazia quel discorso, che sul boccheggiare ei fece a’ suoi parenti e amici, sí patetico, da trarre i fulmini di mano a Giove per pietade, e porgli in man degli uomini per giusto sdegno. Che ne volle egli pretendere? Che ’l vendicassero da chi lo aveva attossicato. E perché, o Germanico, cotal vendetta? se per render testimonio agli uomini, che fosti ucciso a torto, or non ti basta la tua coscienza? se per dimostrar di quali amici provveduto avesserti vivendo que’ tuoi modi, nobili, cortesi, e saggi, questa è ambizion, che giunge alla crudeltá. Perciocché se a fabricar la tua sventura gl’influssi del maggior pianeta ancora, cioè a dire di Tiberio, son concorsi, tu al solazzo di una inutile vendetta, totalmente vano per un morto, vuoi che ceda il rischio mortalissimo de’ tuoi congiunti, mentre gl’irriti contro il piacer di quel Tiberio, il quale fa pagare con la stessa vita, non che aver voluto contrastare, ma spiare la voglia sua. È egli questo un non curar splendor di fama, perché si abbia luminosa la coscienza, o pure un imbrattare la coscienza dentro il sangue, ed oscurarla dentro le miserie de’ tuoi cari amici, per acquistar fama di esser al dispetto dello stesso imperatore morto non invendicato di chi ti uccise? Non cosí Catone, il quale, forse in tutto, certo molto piú di te, solo alla sua coscienza chiedeva di se stesso testimonianza. Dopo la Farsaglia avea nell’Africa gran genti, posciaché delle reliquie stesse di un Pompeo sconfitto far poteansi eserciti. Se a’ suoi cenni fosser presti i suoi soldati, gli aspidi le dipsadi e i basilischi il sanno; onde potea benissimo, o sperar da nuova zuffa ciò che alcuna volta dona la disperazione, o almeno da novella strage esequie degne alla magnanima sua morte. — No, — disse, — vivano i soldati miei per questo stesso, che sarebbon pronti a morir per me. Chi vorrá non sopraviver alla libertá, ben vedrá tra breve, senza esser costretto dal mio impero, come si faccia. Amin di morir con molti quelli, c’han prezzato di essere nel modo della vita compagni a molti. — Cosí ordinò quanto stimava convenirsi per la lor salvezza, e poscia, senza ammetter altri spettatori alla grande opra che la sua coscienza ed un Platone, ch’era in tutto simile alla sua coscienza, liberò col memorabil colpo l’anima grande. Dissi male, poiché la cacciò da un petto, a cui non ritrovò la libertá sacrario eguale per nessun tempo. Né men moderatamente Ottone in morte, benché in vita smoderatissimo. Era stato vinto da’ Vitelliani, ma non disfatto. I soldati bonum habere animimi iubebant: superesse adhuc novas vires, et ipsos extrema passuros ausurosque; neque erat adulalio. Non volle; bastògli la coscienza di aver potuto. Eat hic mecum animus, tanquam perituri pro me fueritis. Fece provedere a’ suoi soldati di carrozze e di navigli, per porli in salvo: arse lettere e libelli di qualunque avea mostrato in essi grande amore vêr lui, grande odio verso Vitellio. Vedi, s’ei come Germanico uccellava il fasto del parer di avere avuto veraci amici. Che di’ tu, Germanico? Vuoi vedere quanto sii tu ambizioso col paragone? Tu fai forza co’ tuoi prieghi di avventar i tuoi ad un periglio, che non reca a te profitto alcuno: Ottone non accetta le violente offerte del suo esercito, che tali le faceva, ut nemo dubitet, potuisse renevari bellum atrox, lugubre, incertum victis, et víctoribus. Tu per ottener un po’ po’ di aura dopo di esser naufragato, non ti curi di far dar in scoglio gli ancor naviganti amici: Ottone, per contrario: — Hunc, — inquit, — animum, hanc virtutem vestram ultra periculis obiicere, nimis grande vitae meae pretium puto. — E pure eran pericoli, che forse sopra il real seggio potean riporlo. Se di un uomo sí ambizioso dunque, quale fu Germanico, può alcuno farsi a creder ch’egli s’appagasse della sua coscienza, può anche credere, che il fumo si contenti starsi sotto il focolaio senza ascender fuori del camino, benché sia aperto.
Ma vediam, se forse possa esser piú vero, che Germanico di sé tacesse metu invidiae, ch’è motivo pur da Tacito apportato. Metu invidiae? di chi? di Tiberio. E perché? perch’ei sapeva, che Tiberio odiava, benché s’infingesse, di veder il nome di Germanico cerchiato di bella gloria. Sí? dunque col supprimer cotal nome esso Germanico mostrava di aver penetrato cotale odio, per quanto il tiranno si studiasse di soppozzarlo. Dunque cotal mezzo non era acqua, ma bitume e zolfo per cotale odio. Perciocché qual piú aborrita offesa si può far a principe, che render vuote le opere piú lambiccate e piú studiate del suo cervello? E quali piú studiate, quanto le arti del non esser conosciuto, e dar di sé sempre ad intendere quel che non è? Chi pretende giunger al suo cuore vuole ascender con Prometeo ad involar il fuoco in cielo, acciocché in terra poi le viscere gli siano tolte, o lacerate dagli avvoltoi; vuol entrar senza licenza dove sta Assuero, e per uscir di vita con tale entrata.
Rassomigliasi la regia mente a quella moglie di Candaule, che stimò degno di morte, perché nuda egli l’avea mostrata, il marito stesso. Non può farsi maggior ingiuria a chi va in maschera, quanto scoprirlo. I prencipi han diletto di andar sempre mascherati collo aver mai sempre seco le doppiezze, e sembra ad essi, che i popoli tibii con ragione portino nell’un degli occhi la figura di un cavallo, simbolo di impero, mentre che nell’altro hanno la pupilla doppia. Né si creda alcuno, che quella lor porpora dimostri il zelo ardente di felicitare i loro popoli, poiché gli etiopi dissero agli ambasciatori di Cambise, ch’ella, col nasconder il candor nativo della lana, è simbolo di falsitade. Onde, quando questi iddii terreni, cinti del real vermiglio, tutti affabili nella sembianza, verran forse da’ lor lusinghieri assomigliati ad una rosa, sí perch’ella è regio fiore, sí perché par tutto riso e vezzo e mansuetudine e piacevolezza: sovverrammi per contrario, che un sofista favellando della rosa, non dicea come que’ sciocchi: Coronemus nos rosis antequam marcescant, ma diceva: Sanguine ne coronemur, fugiamus florem, qui ne a Venere quidem abstinet. Non fiutiamo questi porporati, non solo ne sanguine coronemur, ma acciò ch’essi non si facciano corona del nostro sangue: hanno troppo spine. Sa Agrippina, che alla propria madre, s’ella troppo troppo vuol saper de’ loro fatti, non la perdonano. Vogliono che i cortigiani, come i servi in Scizia, sian tutti ricchi. Prendasi dal Nilo, (dicono essi) ciò che voglion compartirti le sue braccia, ma non sia chi di trovargli il capo voglia presumere. Altrimenti farò compagnia a quel misero Montano, che avvenutosi di notte nel crudel Nerone, che godea di andar incognito facendo lo scapestrataccio, quia vim tentantem acriter repulerat, deinde agnitum oraverat, quasi exprobrasset imori adactus est. Sciocco in non trattarlo con una stoccata da quel ch’ei voleva esser tenuto allora, anzi che riconoscerlo con venerazioni intempestive da quel ch’egli era.
Ma siccome qualsivoglia regola ha sua eccezione, forse che Tiberio era diverso in questo dagli altri principi. È verissimo, perché in paragone di esso tutti gli altri principi, anche i piú bugiardi, e doppi, e simulati, semplicissime colombe potean chiamarsi. Voler dir qual ei si fosse, fôra un creder di accertare in dir che un vel fatto a cangianti sia vermiglio o bianco o verde o rosso o nero, mentre ch’egli non è niuno con esser tutti; fôra un voler dare ad una instabil nuvola titol piú di torre che di drago, piú di nave che di cocchio, mentre non puoi dir «l’è questo», che non trovi tutto a un tratto ch’ella è quell’altro. Rideva, e misero a chi andava il riso: ridea forzato e fea morir ridendo. Guardava, e erano di strambo sue guatatine: qua additavano, e coglievan lá. Quasi fievole nel camminare avea la gruccia: ma era finzione appresa dal leon di Esopo, simularsi infermo per dar di unghia a chi affidato osava troppo apressarsi; era liberale in appellar fratello, o figlio caro, or questo or quello nel passar per via, ma ciò faceva per poter i parricidii multiplicare. Era oracolo: ma guai quel sacerdote che accertava ad interpretare. Il trovarlo si era perderlo, e insieme perdersi: perché avendo il capo pieno, come un Mongibello od un Vesuvio, sempre di un oscuro fumo, era divenir un Plinio l’investigarlo. Avean troppo i suoi segreti grande abisso, cioè a dire quelli, seu natura sive adsuetudine, suspensa semper et obscura verba: delle quali quello stesso che dice Tacito, in incertum et ambiguus magis implicabantur, parmi che con molto piú ragione possa dirsi di coloro che, òsi di volerle intender, s’intralciavano in un dubbio inestricabil labirinto, per divenir preda miserabile di un Minotauro. E ben saggi a loro pro que’ senatori, che mentre il volpone nascondendo sotto un umile cappuccio di Lucifero le corna, dimostravasi ritroso in accettar l’impero, essi, quibus unus metus si intelligere viderentur, — per non dar segnali di conoscere, che quelle schizzinositadi di Madonna schifa il poco, eran di quelle delle spose, quando la primiera notte cacciansi lá la ben bene sulla sponda al letto, presso che a cadere, e s’avviluppan fitta fitta la camicia fin sulle calcagna, — in quaestus, lacrymas, vota effundi: ad deos, ad effigiem Augusti, ad genita ipsius manus tendere. Pazzo per contrario quell’Asinio Gallo, che addomesticandosi un po’ troppo, col voler dar volta al lanternino quando si facea la disciplina al buio, per non perdere un bel motto volle perdere non pur l’amico, ma se medesimo. Oh di quali premi il fraudolente imperatore, s’ei risuscitasse, rimeritarebbe quell’intrepido Marron suo medico, che lui giá morto riputato, vistol ritornare, caricògli tanti grossi panni addosso, che morire il fece cosí ben coperto com’era visso. Poteva egli mai colpir suo genio con piú bel modo?
Ecco dunque, che se l’astutissimo Tiberio sommamente odiava chi mostrava di conoscer il segreto del suo cuore, non avria Germanico voluto, col tacer di se medesimo mostrando di aver penetrato il cuore di Tiberio, incontrare maggiormente l’odio suo col paventarlo, se il suo fine fosse in quella occasione stato lo sfuggirlo, perché il temesse.
Vediamo ora un poco, se alla mia opinione meno di difficoltá che a quella di Cornelio per ventura potesse opporsi. Io son di parere, che Germanico non solo non lasciasse nella penna se medesimo, ratus conscientiam facti satis esse, e perciò poco curasse la sua fama e la sua gloria, ma per farla rimbombar piú chiara di sé tacesse. Stravagante pretensione da una parte parrá forse il ricercar la luce nelle tenebre, i tesori nella nuditade, l’eloquenza nella mutolezza, il calor nel ghiaccio, la serenitade nelle nuvole, l’aprile nel mezzo verno: ma noi parrá certo a chi fará riflession dall’altra, come dalla ruvida conchiglia nasca la lucente perla, come un vil sileno di tesori preziosissimi arricchisca gli occhi; come l’acque quanto scendono basso piú ristrette, spiccin tanto piú disciolte e libere e ammirate in aria; come le piú schife oscenitá degli animali, i capi piú temuti de’ dragoni partoriscan le piú rinomate gemme, i piú fini muschi. Peripezia nella tragedia chiamasi una operazione, che altri sceglie a un fine, e ne gli riesce tutto il contrario. Nel mondo, che non è fuor che una favola, e per lo piú tragica, altro parimente non si veggon, che peripezie, ora vere, quando alcuno veramente incontra sua miseria pel sentiero stesso, onde credea di caminar alla sua contentezza, ed ora finte, quando alcuno consigliatamente prende per guidar alcun suo fatto un mezzo, che di sua natura sembra nato a partorir contrario effetto, come chi per medicar la vista prendesse il fango. Son della primiera guisa il caso di Tiberio Gracco, che nell’adunanza volle dar segnale a’ suoi nemici del periglio, ov’era posta la sua testa, col toccarlasi con mano, e questo stesso preso per segnale, ch’ei chiedesse la corona e ’l regno, affrettò sua morte: né meno adattato è l’altro esempio del pastore, che pensando sollevare Orlando dalla sua tristezza col narrargli la novella degli amori di Medoro e Angelica, per questa strada stessa tanto gliel’accresce, che divien rabbia.
Dará esempio alla seconda guisa Cicerone, quando all’africano Ottavio, che dicea di non udir ben bene, disse: — E pur tu porti forato orecchio; — segna all’orecchio, e coglie alla riputazione, mentre colui taccia di servilitá. Creso, interrogato da Cambise: — Qual ti paio io in paragone di mio padre Ciro? — gli rispose: — Certamente egli ti è forza cedere, poiché non ci hai lasciato ancora pegno tale, quale ha egli a noi lasciato, lasciando te — Par che voglia renderlo inferiore, e lo soprappone. Chi direbbe che lo sparger acqua fosse attestar fuoco? E pure presso di Giustino una fanciulla nel convito tra gran numero di giovani, col dar l’acqua alle mani solamente a Proto, si dichiara di abbrugiar per esso, e sceglielo per suo marito. Chi direbbe, che alcun arda la sua casa per accrescer le sue ricchezze? E pure Giuvenale fortemente ciò sospetta di quel Persico, ch’ei chiama
orborum lautissimus, et merito iam
suspectus tanquam ipse suas incenderit aedes;
perocché sperava in questa guisa di rinovellarla assai piú ricca e piú munifica alle spese de’ suoi clienti.
Sentire calorem
si coepit locuples Gallita et Paccius orbi,
legitima fixis vesttur tota tabellis
porticus.
Che si brama da chi fa cotanti voti per la loro vita? La loro morte.
Insomma non bisogna prestar fede per niun patto alle apparenze, ma qualora ci si fanno inanti colorite cosí bene, che giá giá stan lí sul persuaderci, diasi loro la risposta, che faceto il Luciano fa nei Dialoghi de’ dèi da Giove dare a Cupido. — Deh se in qualche cosa, o sommo dio, ho errato, (dice la volpetta), mi perdona, perch’io son ancor fanciullo, e senza senno, e le opre mie non meno odoran d’innocenza, che le labra mie sappian di latte: sí, in veritá. — Ah capezza, traforello, rubaldello! (gli risponde il gran tonante); tu fanciullo, eh? Forse perciò che per aver né meno di uom da bene un pelo, non vuoi barba in viso, né capei canuti in capo, perciò vuòmiti far credere testé spoppato? Troppo troppo rendeti barbato il numero de’ tuoi delitti, e delle tue malizie, che se fusser tutte peli, non la cederesti in barba a quel montone, in cui, sciaguratello, giá mi cambiasti. —
Ah, Germanico, Germanico, dirò io pure, tu di gloria sprezzatore, solo adoratore della coscienza propria, sopraffino ipocritaccio piú di quanti giammai ne nacquero? Ti ricordi, che Virgilio comandò abbrugiarsi la sua Eneida, sol per dimostrar che ciò che agli altri rassembrava opra divina, per contrario a lui sembrava cosa vile: gloriosissimo argomento dell’altissima eccellenza del suo giudizio, non è cosi? Onde parimente tu, per darti a divedere al mondo non men prode capitano che quei fosse gran poeta, vuoi mostrar di te, tacendo, che cotai vittorie non son degne del tuo nome, perciocché, quantunque da sé grandi, cedono però di lunga mano alla grandezza del tuo senno e del tuo coraggio? Ti sovvien dell’architetto egiziano, che per ordine del re Sesostri fabricando altissima piramide, nella incrostatura incise il regio nome, e poscia dentro il vivo sasso, cui celava l’intonacatura, scolpí il proprio. Stratagemma non di umil modestia, ma di sagacissima superbia, con la quale il nome del suo re, tantosto scalcinato dalle pioggie, fece comparire quel dell’architetto ad esser dentro il vivo sasso sempre letto, sempre ammirato.
Cosí tu sulla congerie de’ trofei trionfatori solo scrivi gli Augusti e i Marti e i Giovi, sicurissimo che quando questi, saettati da’ lor propri fulmini, saran caduti, tu piú franco e forte al cielo della gloria ergerai la fronte. E se sotto la corteccia del tuo tronco trionfale, tu, qual fece lo scultore, non intagli il proprio nome: sí sí, il fai per ambizione di rassomigliarti piú ad uno Alessandro Magno, che ad un vile scarpellino, poiché quei si gloriava che col rifiutar la statua, che Stesicrate gli voleva porre, non pur sopra l’Ato, ma con l’Ato, se n’aveva eretta una maggior negli animi degli uomini, che di rifiuto sí magnanimo perpetuamente ricordevoli stati sarebbono.
E tal va, o signori, la bisogna, per veritá. Sapea Germanico, essere la gloria simile alla femina, di cui fu detto:
Donna pregata niega,
che poi fuggita prega.
Il mostrarsi prezzatore ingordo di una cosa, fa che chi l’ha in mano tienlasi ben cara: fingi non curarla, ed egli, quasi vaglia poco, te la gitta appresso, o ti fa prieghi perché l’accetti. Ed io certamente esaminando alcuna volta tutto stupefatto, come una reina lá nell’Ariosto, benché preveduta di un marito, che sarebbe parso bello anche nel paradiso, nondimeno corra spasimata dietro un nano brutto come il buco dove baciano le streghe, non ne so trovar piú vera, quanto, che il consorte l’obbligo del matrimonio rende sempre presto e liberale a’ suoi voleri, ma dall’altro canto
sol per non starsi in perdita d’un soldo
a lei nega venire il manigoldo,
ed ella dal rifiuto piú invitata dietro gli corre.
Trovasi una certa guisa di silenzio molto piú efficace di ogni diceria ben lunga. Quel digitulus di cui parla Cicerone, piú stendeasi a dar la spinta agli animi che non istende il Cencio la sua stoccata. Ed io ne’ miei giorni ho visto dal predicator rinomatissimo Campana risvegliarsi assai maggiori applausi nelle turbe con un tacito suo spasseggiar pel pulpito, scotendo il braccio, che col suono della voce, ancorché piú sonora e armoniosa del suo cognome. Un lungo punto fermo a tempo piú racchiude in sé che la circonferenza lunga di un gran periodo. Metti un poco insieme i panegirici fatti a Traiano da Plinio, ed a Pompeo da Cicerone, e a Luigi re di Francia di oggidí dall’ammirabil Pétiot: e dimmi, se son muti in paragon di quello, che fa Cesare a se stesso col famoso veni, vidi, vici, che uom roman di cuore fa spartano nella favella. Chi si fosse ritrovato lá sul Faro, quando la famosa meretrice e Marcantonio litigaron co’ banchetti il titolo di regalatore, dopo di aver visto sulle mense del roman degenerante non mancar di quanto vive sotto il cielo, fuorché l’uccel proprio del paese ove erano, se veduto avesse poscia nel convito di Cleopatria sopra angusta mensa altro non imbandirsi, che parchissime vivande, degne di un Romano antico, piú che di un moderno, certamente avrebbe condannato in fretta in fretta la reina, non saprei se giudice piú schernitore o piú adirato, nel vedersi da sí parco desco tolta la speranza di capir nulla. Piano, aspetta. Mancan que’ confetti ancora, che si pongon dopo la tovaglia sopra la mensa. Ben vedrai, se vinca mille sontuosissimi banchetti un sol digiuno di Cleopatra. Un esercito di fiere e una nuvola di uccelli dell’amante tu vedrai di lunga mano cedere ad una sol ostrica della sua vaga. Gli dará il valore di tutto un mare solo in un sorso. Nella stessa guisa stenda pur l’ambizione le piú laute imbandigioni de’ guerrieri eroi suoi parziali, quasi in tanti aurati piatti, dentro i numerosi titoli degli Asiatici, de’ Macedonici, degli Africani, che Germanico non teme punto del buon esito della sua lite. Egli ha una perla, nel trofeo che ha dirizzato, che lo fa risplendere di par col sole. E quale è ella? Il vuoto, dove va il suo nome, questa è la perla. S’ei vi fosse scritto, mirerebbesi, e non altro: perch’ei non vi è scritto, come dovrebb’essere, solo si ammira. Certe sproporzioni son bell’arte da fermare il guardo, il qual, s’elle non fossero, senza badar gran fatto passerebbe oltre. Quel moretto, di cui servesi la dama per bianchetto col condurlo seco, vien cognominato cigno, acciò la pugna del colore e del vocabolo renda piú splendido il trionfo della negrezza. Quel donzello, che ha gran pregio perch’è nano, dal padrone vien chiamato, come dice Giuvenale, Atlante, acciò da sproporzion di titol gigantesco e di pigmea statura piú notabile sia reso l’esser piccino. E la natura ha fatto di una bestiuola, che non passa un palmo, due giganti al nome, co’ formare di un camelo e di un leone un formidabile camaleonte, acciò il difforme solecismo renda un topo pari nella fama ad un elefante. In un ciel sereno veggasi di mezzanotte il sole, e non si vegga di mezzogiorno: eccoti inchiodati lá per la sproporzione disusata piú assai fisse, che le stelle stesse, quelle luci de’ mortali, i quali tutto dí, perch’egli è dove ha da essere, il riguardan sol tal volta alla sfuggita, per saper l’ore. Con sí fatto esempio il sagacissimo Germanico dovea cosí discorrere fra sé medesimo: — La natura è idolatrata dalle speculazioni de’ filosofi, perch’ella loro si nasconde: se lasciasse penetrarsi, tosto, in vece di consumar l’olio dentro le lucerne vigilanti, in rendersi la pelle ben curata e morbida lo spenderebbono. Va Aristotele incapperucciato sempre, e ha perciò ogni di corone da famosi circoli, e trionfi dalle zuffe rabbiosissime de’ disputanti. S’io su questo tronco trionfale chiaramente intaglio il nome mio, riguarderallo il viandante e il soldato, e, lettol cosí alla sfuggita, «Veramente diportossi ben Germanico», dirá, e senza piú aggiungere passerá oltre. Per contrario, s’ei vi legge sculto con error ben accertato il nome dell’imperadore, il quale non ha parte alcuna in tal vittoria, e non vi leggerá quel di chi veramente ne fu autore, sosterá le piante, rimarrá col ciglio immoto sull’iscrizione, girerá in ben mille luoghi col sollecito pensiero. «Or come? veggo la dedicazione, e il dedicator non veggo? Picciol dono è forse una vittoria cosí grande, che se n’abbia per vergogna a star nascosto chi l’ha donata? O magnanimo è cotanto il donatore, che non pur del beneficio vuol dimenticarsi, ma di se stesso? O cosí modesto, che da’ dèi, qui nominati, vuole affatto affatto, senza avervi parte alcuna, riconoscer tutto il successo? Ah, ch’è altezza d’animo, di se medesimo ottimo conoscitore, l’accennar che questa è tale impresa, che si ponno tener buoni i Marti e i Giovi ch’ella lor si dedichi, quantunque chi si sente prode per fornirne assai maggiori, sdegni di voler a proprio nome lor dedicarla. Forse non potendo chi è l’autore di opere sí grandi porsi, salva la giustizia, né anche sotto a Giove, non che sotto Augusto, né potendo, salva la modestia, porsi sopra, mentre di esse egli è dedicatore, lasciò luogo di supplir il vuoto alla verace e spassionata lingua de’ passeggieri. Ma potrebb’egli esser, che lo avesse reso muto tema d’incontrar presso Tiberio invidia pericolosa? I principi amano sovente le vittorie, perché gli aggrandiscono, portano odio al capitano, perché anch’egli se ne aggrandisce; godon di ricevere, abborriscon chi dá, perciocché mostra di poter rapire nel poter dare. Oh sopra gli stessi Cesari e Pompei gloriosissimo Germanico, se cosí fosse? E che non avresti fatto tu piú ch’essi, a’ quali la repubblica con sommo sforzo di benevolenza e di potenza somministrò sempre ogni possente aiuto, se tu odiato, invidiato dal monarca, cioè a dire privo di quel caldo efficacissimo, che suole il cuore tramandare alle lontane membra, quando ei le ama, nondimeno hai fatto poco men di essi? Certamente sol ti converrebbe il nome di Germanico, se tutte le nazioni il nome lor prendessero dalla Germania». — Hai ragione, o sagacissimo Germanico; tu la indovini. Cicerone, dedicando a’ numi un’aurea tazza, il nome suo con lettere, il cognome con l’imagine di un cece vi effigiò: tu con piú ingegnosa invenzione il nome tuo tacendo nel trofeo, vi hai scolpito quel di Giove e Marte, per mostrar, che il vero tuo nome è il Bellicoso e il Fulminante. Ben vedrá il romano popolo che ottimamente ti opponesti nel pretender voce dal silenzio, quando nell’esequie della nobil Giunia andranno in processione venti immagini di nobilissime famiglie, Manlii, Quinzi, ed altri somiglianti nomi: sed praefulgebunt Cassius atque Brutus, eo ipso quod effigies eorum non videbuntur. E se in paragon di gloria ne verran Seiano e Dolabella, benché questo non impetri i trionfali onori da Tiberio, che a quell’altro gli concede, huic negatus honor gloriam intendit. Oh maraviglioso senno di chi attende a meritar gli onori, ma con umiltá magnanima non cura di conseguirli. Ciò che per ischerno disse Seneca, magnificando l’efficacia di quel fungo che ripose nel catalogo degl’immortali Claudio con l’ucciderlo, tremolumque caput descendere iussit in coelum, dirò io con sentimento serio, e generoso di una nobile umiltá. Descendere iussit in coelum: ci fa scendere, abbassarci è vero; ma con questo scendere ove vassi? in cielo. Èvvi piú bel modo di sollevarsi?