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dal «tacito abburattato» 191


Ah, Germanico, Germanico, dirò io pure, tu di gloria sprezzatore, solo adoratore della coscienza propria, sopraffino ipocritaccio piú di quanti giammai ne nacquero? Ti ricordi, che Virgilio comandò abbrugiarsi la sua Eneida, sol per dimostrar che ciò che agli altri rassembrava opra divina, per contrario a lui sembrava cosa vile: gloriosissimo argomento dell’altissima eccellenza del suo giudizio, non è cosi? Onde parimente tu, per darti a divedere al mondo non men prode capitano che quei fosse gran poeta, vuoi mostrar di te, tacendo, che cotai vittorie non son degne del tuo nome, perciocché, quantunque da sé grandi, cedono però di lunga mano alla grandezza del tuo senno e del tuo coraggio? Ti sovvien dell’architetto egiziano, che per ordine del re Sesostri fabricando altissima piramide, nella incrostatura incise il regio nome, e poscia dentro il vivo sasso, cui celava l’intonacatura, scolpí il proprio. Stratagemma non di umil modestia, ma di sagacissima superbia, con la quale il nome del suo re, tantosto scalcinato dalle pioggie, fece comparire quel dell’architetto ad esser dentro il vivo sasso sempre letto, sempre ammirato.

Cosí tu sulla congerie de’ trofei trionfatori solo scrivi gli Augusti e i Marti e i Giovi, sicurissimo che quando questi, saettati da’ lor propri fulmini, saran caduti, tu piú franco e forte al cielo della gloria ergerai la fronte. E se sotto la corteccia del tuo tronco trionfale, tu, qual fece lo scultore, non intagli il proprio nome: sí sí, il fai per ambizione di rassomigliarti piú ad uno Alessandro Magno, che ad un vile scarpellino, poiché quei si gloriava che col rifiutar la statua, che Stesicrate gli voleva porre, non pur sopra l’Ato, ma con l’Ato, se n’aveva eretta una maggior negli animi degli uomini, che di rifiuto sí magnanimo perpetuamente ricordevoli stati sarebbono.

E tal va, o signori, la bisogna, per veritá. Sapea Germanico, essere la gloria simile alla femina, di cui fu detto:

Donna pregata niega,
che poi fuggita prega.