Sull'Oceano/Il piccolo Galileo
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IL PICCOLO GALILEO
Dopo quel giorno di baldoria, come accade sempre, ricadde la noia sul piroscafo più plumbea di prima, accompagnata da un caldo fortissimo, e accresciuta dallo spettacolo d’un mare di colore ributtante; il quale dava l’immagine di quello che si dice che il mare sarebbe se non avesse impedimento il moltiplicarsi prodigioso di certi pesci: uno spaventevole e pestilenziale carnaio di merluzzi e di aringhe in putrefazione.
Oppressi da quel tedio, e ancora rintontiti dai disordini del dì prima, la maggior parte dei passeggieri di terza non si levavan nemmeno quando i marinai, facendo la solita lavatura con le pompe, incrociavano da tutte le parti rigagnoli e getti d’acqua violenti: si lasciavano innaffiare con gli occhi chiusi, come cani decrepiti. Tutto il piroscafo parve per molte ore immerso in un letargo profondo, e m’è ancora rincrescevole il ricordo di quel giorno, dopo tanto tempo, come quello della faccia d’un morto. Rivedo nell’afa del mezzodì il genovese disfatto dalla noia, che s’affaccia al mio camerino, e mi domanda: — Andiamo a veder ammazzare? — Come? chi ammazzano? — Un bove: egli lo sapeva sempre il giorno prima, e andava a vedere, per sbattere l’uggia. Oh ore eterne, passate col naso al finestrino, a guardare con gli occhi stupidi quel mare dell’accidia e del sonno! Dicono che il tempo è moneta, ed io avrei dato un secolo di quelle ore per cinque centesimi. E mare, e mare, e mare. Quel Mediterraneo lassù mi si presentava alla fantasia piccolissimo, come un laghetto azzurro soffocato tra i monti, e lontano al di là d’ogni idea; e quel non vedere mai altro che acqua ed acqua mi faceva balenare l’orribile sospetto che si fosse sbagliato rotta, e che si filasse diritto verso il polo antartico, per andar a cozzare nei ghiacci eterni. Fortunatamente mi venne a scuotere Ruy Blas; il quale, guardandomi con un occhio pesto che voleva far indovinare una notte di dissolutezza aristocratica, mi diede una buona notizia. Il battesimo era fissato per le quattro. Tutto era già stabilito. Battesimo e registrazione civile sarebbero stati fatti nella camera nautica, posta accanto alla timoniera, sotto il palco di comando. Il prete napoletano avrebbe amministrato il così detto battesimo di necessità; al quale doveva aver la mano, poiché aveva viaggiato nei suoi primi anni per quelle campagne solitarie degli Stati lontani dell’Argentina, dove, non essendovi chiese, e conservando appena gli abitanti disseminati una grossolana tradizione della religione cattolica, accadeva che al passaggio d’un prete accorressero a chiedere il battesimo perfin dei giovinotti a cavallo. Egli s’era offerto cortesemente, senza domandar patacones, e già un cameriere gli aveva visto tirar fuori la mattina una stola e una cotta, che portavano non dubbi segni d’un lungo e avventuroso servizio. Al bimbo, secondo l’uso, si sarebbe messo il nome del piroscafo, Galileo; il quale aveva già una dozzina di figliuoli omonimi, sparsi pel mondo. Madrina (sàntola) sarebbe stata la signorina di Mestre. Per padrino s’era offerto il comandante; ma il deputato argentino l’aveva indotto a cedergli l'ufficio, per la ragione che il bambino essendo destinato alla cittadinanza del suo paese, toccava a lui a dargli il benvenuto nel nuovo mondo, come rappresentante della Repubblica.
Quest’atto gentile, come poi seppi, gli riconciliò gli animi dei passeggieri, i quali fino allora avevano accusato lui e gli altri argentini di stare in contegni con gli europei, e come raggruppati in disparte. Io però li conoscevo da un po’ di giorni, e li avevo osservati tutti fin da principio con curiosità vivissima, poiché erano per me i primi esemplari del loro popolo, il quale è senza dubbio di tutta l’America quello che più importa, o più dovrebbe importar di conoscere a un italiano. Il deputato era il maggiore d’età, e credo anche la testa quadra della brigata: alto: una faccia forte e fina di uomo rotto alle lotte della vita politica e della vita mondana, che lanciava a traverso all’occhialetto uno sguardo audacemente conquistatore di voti elettorali e di sì femminili. Il marito della signora era un avvocatino biondo, segretario di non so che ministro plenipotenziario del suo paese, con due occhi grigi mobilissimi, acuti come punteruoli, che quando vi squadravano, pareva che vi vedessero sotto al cranio, dentro al petto e fin nel taccuino degli appunti. C’erano due giovanotti bruni, molto eleganti e poco significanti, i quali non parevano preoccupati d’altro che della biancheria finissima e candidissima di cui facevano sfoggio, e delle loro folte capigliature artisticamente architettate, nere, ma di quel fortissimo nero andaluso-argentino, che è un vero oltraggio alle teste brizzolate. Il più originale di tutti era il quinto, un pezzo d’uomo sulla trentina, di riso audace e di voce aspra, un tipo di domatore di cavalli selvatici, proprietario d’una vasta estancia, della provincia di Buenos Ayres, in cui passava due anni su tre, in mezzo a trentamila vacche e a ventimila pecore, menando la vita del gaucho; della quale s’andava poi a rifare a Parigi, dove divorava volta per volta un armento di mille teste. Un tratto comune a tutti e cinque era la finezza della bocca e la piccolezza del capo, che tutti portavano alto, sempre; ma l'abitudine ereditaria, che altri osserva negli argentini, di appoggiarsi camminando più sulle articolazioni delle dita che sul tallone del piede, dico la verità, non l’osservai. Studiosi dell’eleganza, e in particolar modo della lindura della persona, tutti e cinque, vistosamente. E cortesi; ma d’una cortesia più ridente, per dir così, di quella degli spagnuoli, meno cerimoniosa di quella dei francesi, congiunta ad una scioltezza viva di modi e di discorso, propria di uomini che entran nella vita indipendente appena usciti dalla fanciullezza, e che crescono senza noie e senza freni, pieni di fiducia in sé e nella fortuna, in mezzo a una società agitata, disordinata, giovanile. Questa loro condizione d’animo si palesava in un’espressione del viso a cui non saprei trovar miglior paragone che quella particolare aria balda dell’uomo a cavallo, che vede davanti a sé un vasto orizzonto libero. Con questo una maravigliosa facilità a profferir giudizi su popoli, istituzioni ed usi d’Europa, che avevan visto di volo: giudizi che rivelavano una percezione più acuta che profonda, e una grande varietà piuttosto di letture che di studi, ricordate con prontezza e citate con arte. E non tanto nei giudizi, quanto nella preferenza manifesta data all’argomento di discorso, mostravano una simpatia viva per la natura e per la vita francese, derivante da una analogia incontrastabile di qualità dell’intelligenza e dell’animo: tutti avevan Parigi sulla punta delle dita, e le valigie piene di giornali dei boulevards, e di fotografie d’artiste dell’Opéra e della Comédie. D’altri paesi conoscevano assai bene le case di gioco e gli stabilimenti di bagni, e sopra tutto i teatri di musica, dei quali parlavan con passione d’adolescenti, ma facendomi capire che non avevan nulla da invidiarci a questo riguardo, poiché essi facevano andar l’Europa a cantare e a ballare a casa loro. Quanto all’Italia, non riuscii a scoprire, sotto la necessaria cortesia della frase, il loro sentimento vero. Si compiacevano della nostra immigrazione, come d’un concorso di ottimi lavoratori, e accennando gli emigranti, dicevano: — Tutto questo è tant’oro per noi. — Portateci pure tutta l’Italia, pur che lasciate a casa la Monarchia. — E si capiva che a loro, come ai rivoluzionari francesi del secolo scorso, una povera creatura umana soggetta alla Monarchia pareva meritevole della più sincera commiserazione; e che ci dovevano considerare, noi europei, come una specie d’uomini nati vecchi, strascicantisi in mezzo agli avanzi tristi d’un mondo morto, o anche un po’ affamati per professione. Di sotto a questi sentimenti, lampeggiava un orgoglio nazionale vivissimo; l’orgoglio d’un piccolo popolo, che ha vinto la grande Spagna, umiliata l’Inghilterra, e allargato i confini del mondo civile, spazzando la barbarie da un paese immenso, per darvi ospizio e vita a gente d’ogni lingua ed’ogni razza. Infatti, due volte la settimana almeno essi festeggiavano fra di loro qualche data gloriosa della rivoluzione argentina, con una profusione di vini di Champagne, che era una bella prova dei buoni frutti delle loro vittorie. Ma fra il loro orgoglio nazionale e quello degli europei mi parve corresse una differenza notevole, chè mentre noi lo fondiamo sul passato, e sempre su questo ripicchiamo vantandoci, essi del passato non discorrevan quasi mai, e in ogni frase accennavano all’avvenire, col ritornello dell’infanzia: — Quando saremo grandi. — E in tutti loro appariva profonda, salda, lucidissima non la speranza, ma la certezza di riuscire col tempo un popolo enorme, gli Stati Uniti dell’America latina, brulicanti dalla vallata delle Amazzoni agli estremi confini della Patagonia. E la loro coscienza d’esser chiamati a questo primato, si poteva anche riconoscere nello studio che ponevano in ogni occasione a dimostrare l’originalità del loro popolo, non solo rispetto ai vecchi padri spagnuoli, dei quali parlavano con una leggera intonazione di canzonatura, come di gente da cui per fortuna avessero sotto ogni aspetto dirazzato, non risentendo più da loro alcun influsso di nessuna specie; ma anche rispetto agli altri popoli latini dell’America, Chileno. Peruviano, Boliviano, Brasiliano; di ciasdcuno dei quali rilevavano le deficienze intellettuali e morali, e i lati ridicoli, con una ironia faceta, che tradiva un sentimento di rivalità d’alto in basso, non addolcito da quello della fratellanza. E tutti questi discorsi facevano con un linguaggio fluente e caldo, rotto da risa cordiali e da scatti quasi involontari di sincerità, che rivelavano una natura capace di passioni generose e violente, ed anche una mobilità grande di affetti, nata da un ardente bisogno di divorare la vita in tutti i modi, seguendo con tutte le forze l’impeto di tutti i desideri. Una sola cosa avrei desiderato in alcuni di essi, ed era un’espressione più aperta di pietà nella voce e negli occhi, nel raccontare che facevano certi episodi inumani della loro storia; un non so che più mite e triste, che non facesse sospettare una mala impronta lasciata nella loro natura dalla lunga tradizione delle guerre del deserto e delle guerre civili, orribili tutte. Ma, nel complesso, la impressione prima era gradevolissima, e tale da render viva doppiamente la curiosità di scrutarli più addentro. Per la prima volta io mi trovavo dinanzi a gente veramente nuova per me: ciò che non m’era mai accaduto in Europa. In mezzo alla grande comunanza di cognizioni e idee che era fra noi, io riconoscevo vagamente in loro le tracce d’una educazione affatto diversa della mente e dell’animo, i sentimenti peculiari d’una gente accampata sugli ultimi termini della civiltà, all’estremità d’un continente quasi spopolato, in una specie di solitudine d’esercito invasore, e le impressioni d’una natura diversamente bella dalla nostra, più vasta, più primitiva e più formidabile. E mi stupiva anche quella loro lingua spagnuola come snodata o alleggerita della scorza letteraria, accentuata in modo nuovo per me e fiorita di parole sconosciute e bizzarre, e cantata con quel lontano ricordo di melopea indiana, che mi faceva passar per la fantasia delle facce color di rame ornate di penne. Ma più che la lingua, la facilità incredibile di parola, e la facoltà imitativa dell’intonazione e del gesto, specie quando s’infervoravano nelle descrizioni delle loro grandi montagne e delle loro sterminate pianure. Quell’avvocatino biondo, più che gli altri, descriveva la caccia al cavallo selvatico come un attore che recitasse uno squarcio classico, senz’ombra d’affettazione o d’artifizio apparente, con una vigoria di mosse e con una musica di parola maravigliosa. E in tutti notai questa dote d’un bel metallo di voce, e un’arte o una facoltà naturale, squisita di modularla; nella signora particolarmente, la quale aveva una certa voce bianca, e delle note di testa graziosissime, che a sentirle a occhi chiusi sarebbero parse d’una bimba. Veduto lo strano effetto acustico che m’aveva fatto una sera il nome dello Stato di Jujuf, pronunciato in quella maniera, essa andava cercando per gioco altri nomi indiani di monti e di fiumi del suo paese, che mi ripeteva man mano, ridendo della mia maraviglia. Ringuiririca, Paranapicabà, Ibirapità-mint. Parevan trilli d’usignuolo.
Per loro il viaggio dall’America all’Europa era come per noi una gita da Genova a Livorno: l’avevan già fatto più volte: poiché, sia qual si voglia il sentimento che hanno di sé e il concetto che hanno di noi. l’Europa è sempre per loro l’antica madre, la grande patria del loro intelletto, e li attira. Il deputato, poi, contava già otto viaggi transatlantici, di modo che la rete dei suoi amori doveva stendersi oramai sovra una selva di bastimenti. E ancor giovane aveva il passato d’una lunga vita, anche come uomo pubblico, poiché prima dei trent’anni (doveva toccare i quaranta) era già stato redattore capo di un grande giornale, alto impiegato d’un Ministero, direttore d’una Banca, e inviato dal governo a Parigi con un incarico finanziario. E non era un’eccezione fra la gioventù del suo paese. Egli diceva con ragione che il suo paese era nello mani dei giovani, poiché la repubblica voleva che corresse nelle vene di tutti i suoi servitori il succhio primaverile che ferveva nelle sue. — Voi altri, — diceva, — affollati in un campo ristretto, e sopraccarichi di storia, di leggi e di tradizioni, dovete camminare adagio, e condotti dai vecchi: ma noi giovani di trecent’anni, che abbiamo per patria una terza parte del Sud-America, e che dobbiamo riguadagnare in fretta il tempo perduto nella lotta coi selvaggi e nella guerra di trasformazione sociale da cui siamo appena usciti, bisogna che andiamo innanzi di carriera, e guidati dall’età dell’impazienza e dell’audacia. — E scherzava sull’“abuso„ della vecchiaia che si fa in Europa. — Pare che la canizie, tra voi, sia il titolo necessario per certe cariche. Avete delle malattie che danno diritto a certi onori. Che so io? La podagra fa tutto. La vostra gioventù si stanca in un’aspettazione interminabile, e vi ritrovate negli uffici che richiedono più vigore di mente e di nervi appunto nell’età in cui il vigore vien meno. Sciupate tutte le vostre forze a salire, e quando siete sulla cima suona l’ora della morte. Comparve in quel punto la cameriera ad annunciar l’ora del battesimo. Il deputato scappò in camerino a cambiare il berrettino di seta con una copertura di capo più sacramentale. Io m’incamminai verso la camera nautica. A prua c’era già movimento, in specie fra le donne, che volevano salir tutte sul castello centrale, per vedere; tanto che i marinai si dovettero piantar di guardia alle scalette per impedire che si ammucchiasse troppa gente di sopra. Era un vocìo, una curiosità da tutte le parti come per il battesimo d’un principino ereditario, e nessuno badava alla minaccia d’un piovasco solenne, che cominciava a far l’aria buia. Entrai con due o tre altri nella camera nautica, che era già affollata, e trovai a stento un po’ di posto. Davanti a un tavolo stavano in piedi il comandante, che doveva far da ufficiale dello Stato Civile, e il Secondo e il Commissario, che facevan da testimoni; tutt’intorno, con le spalle alle pareti, la signora bionda, l’argentina, la sposa, la madre e la figliuola pianista, la brasiliana con la serva negra, e una diecina d’uomini, fra i quali il garibaldino, col suo solito viso chiuso e triste. La finestra in fondo, che dava sul castello, era addirittura riempita di facce di donne della terza classe, che formavano scala, e brillavano dalla contentezza d’aver conquistato i primi posti, e dietro di loro si sentiva il mormorio della folla. C’erano sul tavolo il ruolo d’equipaggio e il giornale di bordo, aperti; un vassoio con un bicchiere d’acqua e una saliera; e dei moduli stampati d’atti di nascita. Tutti stavano con una certa compostezza pensierosa. Quella camera singolare, tappezzata di carte marine, luccicante qua e là di strumenti nautici, con quelle ventiquattro lettere maiuscole iscritte come un epitaffio enimmatico sopra le bandierine dei segnali, — quel gruppo di persone così diverse e strane, che barcollavano ogni tanto per effetto d’un leggero rullio, — quegli ufficiali immobili e gravi, — quel brulichio d’una moltitudine che non si vedeva, — e quell’orizzonte oscuro dell’oceano, che tagliava il vano dell’uscio, — destavano insieme un sentimento di stupore e di rispetto che s’esprimeva in un bisbiglio sommesso. Dopo alcuni momenti arrivò il lungo prete, con una stola e una cotta che pareva avessero servito a battezzare i primi navigatori dell’Atlantico, e l’attenzione di tutti si fissò su di lui. Entrò, curvandosi, senza guardar nessuno, e avvicinatosi al tavolo e fatto il segno della croce, cominciò a mormorare a occhi chiusi. in mezzo a un silenzio profondo, gli esorcismi d’uso per l’acqua e pel sale. Poi mise una cucchiaiata di sale nel bicchiere, l’agitò, e intintovi il ditò, benedisse i presenti. Le donne fecero il segno della croce. Il bisbiglio ricominciò.
Tardando a venire il bambino, il comandante mandò il Commissario a vedere. Siccome s’era aggravato il vecchio malato di polmonite, la puerpera era stata trasferita dall’infermeria in un camerino vuoto delle seconde classi. Il tragitto da farsi non era che di pochi passi. Il Commissario ritornò subito, dicendo: — Vegnan.
Venivano in fatti su per la scaletta il padre, tutto trionfante, con la barba fatta, con una camicia fresca, e col marmocchio in mano, la signorina di Mestre, col suo solito vestito verdemare, sorretta per una mano dall’argentino, e dietro di loro, con mia gran maraviglia e di tutti, la puerpera pallida, ma sorridente, tenuta su per la vita dal marinaio gobbo. Non c’era stato verso, brontolava il marinaio, aveva voluto venire, nonostante le minacce del medico, cocciuta a fare là come a casa sua, dove dopo do zorni la se gaveva sempre messo a far le so façende. Ultimo veniva uno dei due gemelli, con mezza candela in mano. Un mormorio carezzevole di pietà o di simpatia accolse il piccolo Galileo, che dormiva placidamente, col visetto rosso, ravvolto in una coperta azzurra, con una cuffietta bianca a piegoline, e una medaglia al collo. Appena entrata, la signorina prese il bimbo dalle braccia del padre, e lo mostrò al comandante, con quel suo sorriso mesto e dolcissimo, e non a un solo credo che sfuggisse il contrasto pietoso di quel piccolo essere che incominciava la vita con quella povera e buona creatura per la quale tutto stava per finire. Tutti guardarono per un momento lei sola, che contemplava il bimbo col capo chino, mostrando negli occhi tutti i tesori di maternità che avrebbe portato nella tomba. Il comandante, col suo schietto accento del quartiere di Prè, e con un cipiglio come se leggesse un atto d’accusa, diede lettura dell’atto di nascita scritto sul ruolo d’equipaggio. — L’anno mille e ottocento etc., giorno ed ora etc., a bordo del piroscafo denominato il Galileo, iscritto al compartimento marittimo di Genova etc., il signor medico tal dei tali ha presentato a noi, Capitano in comando del detto piroscafo, in presenza dei signori tali e tali, un bambino di sesso maschile di cui s’è sgravata la signora.... Spuntò un sorriso sulle labbra di tutti quando s’intese leggere che il luogo nativo di quel povero bambino era: latitudine nord 4, longitudini ovest, meridiano di Parigi, 28,48.
— ... In fede di che noi, — continuò il comandante, — abbiamo steso il presente atto che è stato iscritto a piè del ruolo d’equipaggio, ed è stato sottoscritto...
Il comandante e i due ufficiali firmarono l’atto sul ruolo e sui tre moduli stampati da rimettersi al Consolato italiano di Montevideo, alla Capitaneria del porto di Genova, e al padre; poi porsero la penna a questo, che, stentatamente, con la fronte in sudore, scarabocchiò tre volto il suo nome.
In quel punto il piroscafo fece un moto brusco da un lato, e la madrina vacillò: l’argentino la ritenne per un braccio: ed io gli lessi negli occhi l’impressione di stupore penoso ch’egli provò al sentire quel braccio senza carne. Il cielo s’era fatto più oscuro e il mare livido; qualche goccia cadeva sopra coperta.
Il prete si fece avanti.
Inteso i nomi imposti, si segnò, e messa la sua enorme mano pelosa sotto la testa del bimbo dormente, mentre l’argentino gli metteva la destra sul petto, gli fece col bicchierino le tre versate d’acqua, dicendo: — Galilee, Petre, Johannes, ego te baptizo in nomine Patris, et Filii et Spiritus Sancti.
Poi: — Galilee, Petre, Johannes, vade in pacem et Dominus sit tecum.
Tutte le donne dalla finestra risposero: -Amen.
Allora disse l’Agimus.
Io osservavo intanto la madre, la quale girava gli occhi larghi sul bimbo, sugli ufficiali, sugli strumenti nautici, su quella strana cappella, e porgeva l’orecchio allo scricchiolio della ruota della timoniera e al fischio lontano delle sartie investite dal vento, dando ogni tanto un’occhiata furtiva al mare oscuro; e pareva agitata da una viva inquietudine, come se ci fosse qualche cosa di profano e quasi di malauguroso in quella funzione fatta a quel modo, così alla spiccia, e in quel luogo, e con quel tempo.
— Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, — terminò il prete.
— Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis... — risposero le donne.
Nel momento stesso un lampo vivissimo illuminò la camera e s’intese il muggito lungo d’un bove; il piroscafo balzò; la puerpera si mise a piangere.
— Amen, — disse il prete.
— Amen, — risposero di fuori.
Tutti si rivolsero alla donna, chiedendole che cos’avesse, facendole animo. Essa s’asciugò gli occhi col dorso della mano, e domandò: — Parché no’l ghe ga messo el sal sula boca?1
Dovettero ragionarla, spiegarle: era un battesimo di necessità, non si poteva farlo completo perché non s’era in chiesa, si sarebbe completato in America; stesse tranquilla: il sacramento era valido lo stesso.
Allora baciò con espansione il bambino, si rasserenò, ringraziò, e tutti uscirono. Pioveva già forte. Eppure il piccolo corteo, seguito dal garibaldino, stentò a aprirsi il passo tra la calca per arrivare fino al camerino di seconda; il gobbetto dovette più volte far largo coi gomiti, e al gemello fu portato via il mozzicone di candela: tutti volevan vedere, non il bimbo; ma chi fossero il padrino e la madrina, per farsi un’idea della importanza dei regali che sarebbero toccati alla puerpera fortunata. Al vedere la signorina, qualcheduno batteva le mani. All’Improvviso s’udì una voce alta e rauca:
— Strusciate, strusciate i signori!... Oggi lo tengono a battesimo e quando sarà grande lo faranno crepare di fame.... Cretini!
Era il vecchio tribuno dal gabbano verde, ritto sulla boccaporta del dormitorio delle donne. Molti si staccarono subito dalla folla dei curiosi. Altri gli inveirono contro, altri gli fecero eco. Ma il gridio festoso della ragazzaglia coperse lo loro voci.
Messo appena il piede nel camerino, la puerpera si lasciò cadere sopra un baule, spossata; il padre mise il bambino in una cuccetta, e il padrino e la madrina tiraron fuori i regali. E allora cominciarono le esclamazioni di maraviglia e di gratitudine, a due voci: — Ma cossa fali? Lori se desturba tropo! I ne fa deventar rossi! Oh ma che brave creature! Xelo par mi sto qua? e anca st’altro? Oh santo Dio benedeto!
— E il padre, in uno slancio di riconoscenza per il neonato, curvandosi sulla cuccetta, esclamò: — Vorò strussiarme, vorò suar sangue per ti, vissare mie! — ma con un accento del cuore, che prometteva sinceramente una vita di lavoro e di sacrifizio per quella piccola creatura nata fra il mare e il cielo, a mezza strada fra la patria perduta e una terra ignota, senz’altro bene al mondo che le braccia e il coraggio del padre suo. E poi: — Tazi, vecia mata!— gridò brutalmente alla moglie che piangeva, e le gettò le braccia al collo.
La signorina allora si voltò verso il garibaldino che stava affacciato all’uscio, e indicandogli quell’abbraccio, gli fece coll’indice un cenno di rimprovero, e poi disse affettuosamente, sorridendo: — Ecco la famiglia.
Egli non rispose.
- ↑ Perchè non gli ha messo il sale sulla bocca?