Sul mare delle perle/Capitolo V

V. La rocca del re dei pescatori di perle

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V. La rocca del re dei pescatori di perle
Capitolo IV Capitolo VI

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CAPITOLO V.

La rocca del re dei pescatori di perle.

Il Bangalore frattanto aveva continuato a veleggiare verso il sud, tenendosi ad una grande distanza dalle coste di Ceylan, le quali si scorgevano appena.

I banchi di Bitor e le scialuppe degli inglesi erano scomparsi, e sul mare, illuminato sempre dalla luna, non si scorgeva alcuna nave.

Verso il sud-ovest invece si vedeva alzarsi una rupe colossale affatto isolata, sulla cui cima si discerneva vagamente una specie di torre di dimensioni enormi. Era proprio verso quell’isolotto perduto sull’oceano indiano che il Bangalore si dirigeva frettoloso.

— Vengano a snidarmi di lassù — disse Amali, guardandolo. — Le forze riunite del marajah di Jafnapatam e del principe di Manaar nulla potrebbero contro il mio inaccessibile asilo.

Si sedette a poppa e prese la barra del timone per dirigere di sua mano il veliero.

L’isolotto ingrandiva a vista d’occhio, essendo la celerità del Bangalore sempre grandissima, mercè [p. 62 modifica]la brezza che si manteneva fresca assai, aumentando coll’avanzarsi dell’alba.

Era una specie di piramide tronca, che doveva misurare alla base per lo meno mezzo chilometro di circonferenza, colle pareti così liscie e così tagliate a picco da sfidare qualunque scalata.

Sulla cima, ad un’altezza di quattrocento e più metri, s’alzava un vasto fabbricato di stile indiano, con cupole e ampie finestre e gallerie e a fianco un torrione merlato che doveva essere d’una robustezza tale da sfidare le più grosse artiglierie.

Il Bangalore, raggiuntolo, girò intorno alla rupe volteggiando abilmente fra un caos di scoglietti e di banchi che l’alta marea a poco a poco copriva, poi si cacciò entro una vasta apertura che pareva mettesse in una caverna marina.

Era una squarcio immenso, così alto che gli alberi della nave non toccavano la sommità dell’arcata e così largo che avrebbe potuto passarci anche una corvetta.

I marinai avevano subito acceso delle lanterne, disponendole lungo i bordi.

Appena entrato, il Bangalore si trovò in una caverna gigantesca, che doveva occupare almeno un terzo dell’isolotto, traforata da antri pure vastissimi, capaci di riparare la nave e colle vôlte altissime.

Nel mezzo si vedeva pendere una scala di corda la quale doveva condurre in qualche galleria superiore se non direttamente sulla cima.

Appena la caverna fu illuminata dalle lampade, fra le sue acque si manifestò una viva agitazione. [p. 63 modifica]

Si vedevano teste orribili, dalle bocche mostruose irte di denti, e code smisurate emergere, rituffarsi, poi comparire di nuovo intorno al Bangalore.

Erano pesci-cani lunghi sette od otto ed anche più metri e che parevano molto famigliarizzati colla nave, perchè non mostravano di spaventarsi, nè di inquietarsi per quella improvvisa irruzione di luce.

Giravano e rigiravano intorno al Bangalore, fregando i loro musi contro i fianchi del legno, guardavano i marinai coi loro brutti occhi dalla fiamma giallastra, poi tornavano nei loro rifugi situati negli angoli della caverna, come se fossero soddisfatti del ritorno dei pescatori di perle, i quali d’altronde non pareva che si occupassero della presenza di quei terribili divoratori di carne umana.

Amali fece accostare il legno alla scala di corda, poi chiamò Durga.

— Farai trasportare nel mio castello Mysora ed il principe di Manaar — gli disse. — Io ti precedo.

— Ed il Bangalore?

— Lo nasconderai nell’ultima caverna; per ora non riprenderemo il mare.

Il re dei pescatori di perle s’aggrappò alla scala di corda e s’innalzò verso la vôlta, giungendo in una stretta galleria che era guardata da un indiano armato di fucile e di pistole, e illuminata da una lampada.

— È accaduto nulla durante la mia assenza? — chiese alla sentinella.

— No, padrone. [p. 64 modifica]

— Vegliano tutti i miei uomini?

— Tutti.

Amali si cacciò nella galleria e dopo cinquanta passi sbucò all’aperto, sopra un sentiero che saliva verso la cima girando intorno alla rupe.

Sulla spianata superiore, dinanzi al palazzo, stavano schierati quaranta uomini, fra indiani e cingalesi, tutti armati di fucili, di pistole e di scimitarre, tutti bei tipi, d’aspetto fiero e robustissimi.

Amali li passò in rivista, poi entrò nel palazzo, il quale era stato illuminato.

Una vera magnificenza quel fabbricato costruito lassù, in cima a quello scoglio isolato, chissà con quali fatiche e quali ingenti spese.

Era quasi tutto di marmo roseo, con androni, gallerie rischiarate da ampie finestre sostenute da colonnette scannellate, con sale splendide coperte da antichi arazzi e da tappeti, ricche di mobili di mogano ad intarsi di madreperla.

Amali attraversò parecchie gallerie senza fermarsi; poi entrò in un gabinetto colle pareti coperte di seta azzurra, adorne di panoplie di armi scintillanti, e col pavimento ricoperto da un tappeto trapunto d’oro.

— Aspettiamola qui, — disse, sedendosi su un divano damascato. — Giudicherà fra breve se l’odio che io nutro verso suo fratello è giusto.

Rimase qualche minuto immobile col capo stretto fra le mani, immerso in dolorosi pensieri, poi si alzò, mettendosi a passeggiare con agitazione.

— E vi è del sangue fra di noi, del sangue [p. 65 modifica]che ha scavato un abisso immenso che forse mai potrò colmare. E chiama bandito me che dovrei sedere sul trono occupato da suo fratello! che ho nelle vene sangue di antichi re i quali hanno dominato gran parte dell’isola di Ceylan! Sento che quella donna mi fa paura e che....

S’interruppe udendo dei passi nella stanza vicina.

Era Mysora che entrava, accompagnata da Durga, il quale teneva la scimitarra sguainata.

La sorella del marajah, più bella che mai nella veste di seta azzurra ricamata in oro, con una sciarpa avvolta graziosamente attorno ai lunghi e neri capelli, si era fermata sulla porta, come se avesse avuto paura di entrare.

— Mysora vieni, tu sei come in casa tua, — disse Amali. — Nulla hai da temere dal re dei pescatori di perle.

— Se è vero che io qui mi trovo come in casa mia, giacchè tu dici di essere generoso, rendimi subito la libertà, — replicò la principessa con sottile ironia.

— Un giorno forse, ora no — rispose Amali.

— Sarà dunque lunga la mia prigionia?

— Tutto dipende da tuo fratello.

— Oh! Verrà presto a distruggere il tuo rifugio, perchè mio fratello ha numerose galee e anche valenti marinai.

— Io l’attendo.

— E non risparmierà nemmeno te, Amali.

— Si provi.

— Ti reputi molto forte tu, per sfidare l’ira del marajah di Jafnapatam. [p. 66 modifica]

— Lo saprai il giorno in cui io lancierò i miei pescatori contro le terre di tuo fratello.

— Tu oseresti conquistare lo stato del marajah? I tuoi uomini non saranno capaci di tanto.

— Sono veri leoni e quando il re dei pescatori di perle si porrà alla loro testa, nessun ostacolo li arresterà — disse Amali fieramente.

Fece cenno a Durga di uscire, poi, indicando a Mysora il divano, le disse:

— Ascoltami.

— Che vuoi dirmi?

— Conosci il motivo per cui io ho giurato la perdita di tuo fratello?

— Non mi sono mai occupata di indagarlo.

Amali fece alcuni passi intorno al tavolo di acagiù che stava in mezzo al gabinetto, poi, appoggiandosi ad una sedia, disse con voce grave.

— Duecent’anni or sono, un guerriero della dinastia dei marajah di Candy, possessori dell’interno di Ceylan, valoroso quant’altri mai, con un solo pugno di prodi, conquistava, dopo una lunga serie di sanguinose battaglie, tutte le coste occidentali dell’isola, fondando un nuovo reame che fu chiamato di Jafnapatam. Quel guerriero non era un tuo antenato, te lo dico subito. Per centocinquant’anni, i suoi successori tennero sottomessa tutta la costa, finchè un giorno, un uomo uscito dal popolo, ambizioso e astuto, scatenava una ribellione, spazzando via la famiglia dominante e scompigliando il reame.

— Un valoroso che poteva star a fronte [p. 67 modifica]all’altro, se è stato capace d’impadronirsi del potere — interruppe Mysora.

— I discendenti dei marajah di Jafnapatam, scacciati dalle loro terre, furono esiliati e per lungo tempo andarono ramingando per l’isola, cercando sempre ed invano di riacquistare il trono perduto.

Solo pochi anni or sono gli ultimi poterono ritornare in patria, dietro solenne promessa che più mai avrebbero ritentato di riconquistare la corona dei loro padri. Non erano che due, senza partigiani sui quali poter contare e ridotti in tale miseria da dover abbracciare la carriera delle armi per vivere.

«Regnava allora sulle terre di Jafnapatam un principe che pareva generoso, mentre in fondo non era che uno dei soliti tirannelli orientali, senza scrupoli e senza lealtà.

— Che cosa può interessare questa vecchia istoria? — chiese Mysora.

— È interessante, lo vedrai se avrai pazienza di ascoltarmi. Quel marajah, non so se in un momento di buon umore o di compassione, o perchè sapesse che quei due discendenti degli antichi regnanti erano i più prodi del suo regno, aveva nominato il primogenito comandante delle sue truppe.

«E non aveva avuto da lagnarsi della scelta, perchè quel valoroso aveva saputo non solo respingere vittoriosamente tutti i nemici che minacciavano le frontiere del regno, ma estendere anche i domini fino al mare.

«Il generale d’altronde possedeva un senso profondo ed una grande esperienza. La sua posizione, [p. 68 modifica]l’essere discendente dell’antica famiglia regnante, la sua autorità, il suo valore e l’amicizia che lo legava al marajah, contribuivano a dargli una grande influenza ed un grande potere.

«Quell’influenza doveva tornargli fatale e suscitargli intorno invidie e sospetti in gran numero. Vili cortigiani e vili ministri, gelosi della preponderanza che esercitava alla corte, cominciarono a soffiare negli orecchi del marajah tristi parole.

«Uno dei ministri, specialmente, invidiava la stima che godeva il generale e cercava di tutto per abbatterlo e rovinarlo per sempre. Anima infernale, sapeva però dissimulare abilmente, ed in apparenza si mostrava il miglior amico dell’uomo che voleva perdere, affettando per lui la massima deferenza ed impiegando, quando lo incontrava, le più servili adulazioni.

«Un giorno, dopo una partita di caccia fatta nei dintorni di Jafnapatam, il marajah ed i suoi favoriti, stanchi di un piacere che consisteva unicamente nel vedere delle belve sbranare dei battitori, si erano ritirati sotto una vasta tenda, innalzata all’ombra d’una foresta, dove era apparecchiata una tavola riccamente imbandita.

«Il marajah era di buon umore e scherzava allegramente, prendendo di mira il generale, il quale doveva adattarsi a tutte le spiritosaggini del suo signore, senza mostrare di offendersene.

«Il momento di cominciare il pranzo era giunto ed il capitano delle guardie ne aveva avvertito il sovrano, il quale aveva indossato un costume europeo mettendosi in testa un cappello di feltro. [p. 69 modifica]

«Il marajah, terminato il pasto, eccitato dalle bevande, aveva continuato a scherzare e, per un capriccio inesplicabile, si divertiva a far saltare il cappello sulla punta d’un bastoncino.

«Ad un tratto, sia che quel copricapo fosse stato di cattiva qualità o che avesse servito troppo a lungo o che il fondo della calotta fosse troppo debole, si vide il regal dito passare attraverso il feltro.

«Il generale, che rideva dello scherzo, si era voltato verso il monarca, dicendogli, con voce gioconda: — Maestà, havvi un buco nella vostra corona.

«Quelle parole erano state pronunciate innocentemente, senza premeditazione; ma per disgrazia il generale era il discendente degli antichi principi di Jafnapatam e cortigiani e ministri l’avevano messo in cattiva luce.

«Il marajah, che si era mostrato sempre estremamente suscettibile riguardo a ciò che aveva attinenza alla sua corona, era balzato in piedi fremente di collera, gridando: — Avete inteso le parole di questo traditore?

«— Io un traditore! — aveva esclamato il generale — Per che cosa ho potuto meritarmi questa qualifica, principe?...

«— Sì, ti conosco finalmente — aveva risposto il marajah. — Tu non aspetti che il momento propizio per riguadagnare il trono dei tuoi avi!

«— Ma sire! Voi errate! Ciò che voi avete detto non è punto vero ed io protesto.

«— Traete quest’uomo in prigione! — aveva comandato il marajah, volgendosi verso il capitano [p. 70 modifica]delle guardie. — Mi riservo di ordinare il supplizio.

— La tua istoria comincia a diventare interessante. — disse Mysora — Continuala, perchè io non l’ho mai udita prima d’ora.

— Sì! la continuo — disse Amali, con voce cupa. — Ne conoscerai presto la fine.

«La costernazione era generale. Il marajah aveva un potere assoluto di vita e di morte su tutti i suoi sudditi, ed era di un carattere così violento ed astioso, che tutto quello che si poteva tentare per calmarlo non serviva altro che a renderlo più risoluto nella sua decisione. Il generale fu quindi condotto in prigione, malgrado le sue proteste d’innocenza.

«L’indomani il marajah lo faceva condurre alla sua presenza, volendo godere delle sofferenze della sua vittima.

«— Tu stai per morire! — gli gridò appena vide dinanzi a sè il disgraziato prigioniero. — Ho scelto per te un supplizio di cui si parlerà lungo tempo nel mio regno e che farà tremare tutti i traditori che insidiano il mio potere.

«Un giorno tu hai percosso fortemente la tromba di Munin, il mio enorme elefante, il quale ti serbò sempre rancore di quell’atto, a segno che, tutte le volte che ti vede, monta in furore per non potersi vendicare. È a Munin che io ora ti abbandonerò ed esso s’incaricherà di punirti. Va’, miserabile traditore! Sto per sbarazzarmi di un vile che non ha indietreggiato davanti alla più bassa cospirazione, mentre [p. 71 modifica]doveva a me la posizione, gli onori e le ricchezze.

«— Io ti giuro, sire, sulla memoria dei miei avi che un giorno occuparono il trono su cui ora tu siedi, che io sono innocente, — rispose il generale con voce solenne.

«— Tu menti.

«— Te lo giuro anche sulla testa di mio figlio.

«— Ah, sì, mi dimenticavo che tu hai un figlio — rispose il marajah con un feroce sorriso — egli rimarrà in mano mia come ostaggio contro le possibili vendette dei tuoi partigiani e di tuo fratello. Vattene!

«Il generale, vedendo che ormai le sue proteste sarebbero state vane, si lasciò condurre via senza opporre la menoma resistenza, mentre il principe andava a collocarsi ad un balcone del palazzo da cui voleva assistere al supplizio che aveva ordinato.

«Il prigioniero fu condotto nella corte degli elefanti, nel cui centro era stato collocato un enorme ceppo.

«Col corpo nudo, appena coperto da un paio di calzoncini di tela, fu gettato su quel ceppo in modo che appoggiasse per bene la testa.

«Un momento dopo Munin, l’enorme elefante, entrava, montato dal suo mahut, il quale aveva già ricevuto gli ordini pel supplizio dello sventurato generale. Doveva lasciar fare al gigantesco animale.

«Questi, appena vide la sua vittima, mandò un barrito spaventevole e si precipitò innanzi colla [p. 72 modifica]proboscide in aria e gli occhi iniettati di sangue.

«— Lasciate fare a Munin! — aveva gridato il principe.

«L’animale, che non aveva bisogno di quell’eccitamento, si slanciò sul generale, lo afferrò a mezza vita colla proboscide e, accomodatolo sul ceppo, gli schiacciò violentemente la testa colla sua enorme zampa. Il sangue schizzò a grande distanza: il generale era morto ed il crudele marajah si era vendicato. Vendicato! Oh no, perchè la sua vittima non aveva commesso alcuna colpa. Non era stato che un pretesto per sbarazzarsi d’un favorito che non gli piaceva più e che invecchiava.

«La sera stessa si faceva festa al palazzo ed il principe, ubbriaco, s’addormentava placidamente al suono della musica selvaggia delle sue bajadere. Mysora, — disse Amali, con voce terribile — vuoi sapere chi era quel generale?

— Dimmelo.

— Era mio fratello ed il marajah che lo fece così barbaramente uccidere, era il tuo!...