Storia di Torino (vol 1)/Libro I/Capo V
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Capo Quinto
I Romani continuarono a battersi ed a dedur colonie finché, sperperati parte de’ Liguri in luoghi lontani, debellato il rimanente, superate nelle gole dell’Alpi le genti feroci e riottose che impedivano il passo, trasferirono la guerra al di là dell’Alpi, e vinsero l’anno 122 sotto la condotta di Quinto Fabio Massimo gli Allobrogi e gli Alverni.
Poco più d’un secolo prima dell’era volgare una novella nazione germanica erasi levata contra Roma, quella de’ Cimbri. Vincitrice in Germania, era scesa nell’Elvezia, nella provincia Narbonese, nella Spagna; cacciata di Spagna, minacciò l’Italia e, discesa per le Alpi Noriche, s’incontrò in giugno dell’anno 101 prima di Gesù Cristo nella pianura Vercellese coll’esercito de’ Romani comandato dal famoso Cajo Mario, console per la quinta volta, e furono i Cimbri pressoché totalmente esterminati.
Qual parte avessero in questi varii casi di guerra i Taurini, in quali schiere combattessero noi dice la storia, ma probabilmente continuarono ad esser fedeli ausiliarii di Roma, parendomi che ne sia argomento lo stesso silenzio degli scrittori intorno ad una città che, dopo la gloriosa resistenza ad Annibale, non era nè poteva essere oscura.
La città de’ Taurini fu fatta colonia e chiamata Giulia da Cesare; forse perchè qui come in luogo vicino al confine d’Italia avesse data stanza ferma a qualche ala di soldati,1 assegnando loro certa porzione d’agro; non già perchè vi sia stata vera deduzion di colonia come a Bologna, Pesaro, Pollenzo, Parma, Modena, Saturnia, Aquileia, Gradisca, Lucca.
Uopo è credere che, seguendo l’esempio d’altre città socie ed ausiliari di Roma, i Taurini avessero già prima confermato, ad imitazione di quella, molte parti del viver politico. Il nome romano rifulgeva ornai di purissima gloria. Il governo romano era fatto per lusingare i popoli, e soprattutto la plebe, che negli altri paesi era men che nulla, ed a Roma avea sì grande porzion di governo, che d’essa principal mente si fecero poi scala i Cesari al supremo comando. La legislazione Romana conteneva precetti d’inestimabile sapienza. I diritti di proprietà, quelli della famiglia, la fazione dei testamenti, limitata dal diritto della porzione legittima, la costituzione municipale, il dominio della città sul suo agro, lo scompartimento de’ tributi, le vie militari, gli acquedotti, i teatri, le terme, gli argini, i portici, le mura e le fortificazioni delle città, i pubblici monumenti in somma tutti improntati d’un tal suggello di grandezza e di perpetuità, che la mente e il cuor pusillo dei loro tardi nepoti ne rimangono spaventati; tuttociò era fatto per innamorar i popoli a seguirne l’esempio, e ad avanzar d’un tratto adottando quelle leggi e quelli ordini, e quelle magnificenze, ciò che dal benefizio di più secoli progressivi avrebbero indarno sperato.
Questa imitazione fu cominciata, dico, spontaneamente da città ausiliarie che viveano affatto indipendenti co’ loro principi e co’ loro magistrati: ed era legge e necessità nelle colonie; e molto più quando tutta l’Italia fu donata della cittadinanza romana, e i Vercellesi, i Taurini, i Comaschi, i Milanesi, i Mantovani ebbero adito agli onori più sublimi nella città eterna, al pari degli antichi e veri cit tadini godenti dell’ingenuità e del diritto ottimo massimo.2
Questa insigne prerogativa della cittadinanza Romana l’ebbe tutto il paese tra l’Alpi e il Po dallo stesso Giulio Cesare, se diam fede a Dione.3
Dopo la morte di Cesare, Marco Antonio volle per sè la Gallia Cisalpina che era toccata a Decimo Bruto, perchè di soldati e di danaro fortissima.4
Quando Ottaviano, dopo d’aver per qualche tempo diviso con Antonio e con Lepido l’imperio del mondo, lo volle per sè solo, cominciò ad occupare queste provincie e i passi dell’Alpi, ed a guadagnar l’amicizia di Cozio, figliuolo del re Donno, che signoreggiava con ragione d’eredità nelle gole de’ monti tra il Roccamelone e il Monviso, che dal suo nome si chiamarono poi Alpi Cozie. Da Ottaviano che il senato decorò del titolo d’Augusto per non chiamarlo re, ebbe nome d’Augusta la città de’ Taurini, come l’ebbero la città de’ Vindelici, quella de’ Rauraci ed altre assai. Le genti che abitavano dall’Alpi Gamiche al mare Ligustico, le valli che s’intrinsecano per quella vasta giogaia, forti per la natura del sito e per quell’indole altera, risentita e indipendente che è propria delle stirpi montane, si spiccarono molte volle dall’amistà del popolo romano. Augusto le debellò l’anno 14 prima dell’era volgare; e per memoria di quell’importante impresa, parte da lui condotta, parte ordinata, il senato gli alzò quello stupendo trofeo, del quale ancor si vedono gli avanzi alla Turbia (5).5
Mentre gli altri Alpini contrastavano coll’aquile latine, mostrava ben altre disposizioni un principe che avea signoria in queste Alpi Taurine. Era Cozio, figliuolo del re Donno poco sopra mentovato. Giulio Cesare erasi fatto amico questo custode dell’Alpi, che potea aprirgli o vietargli il passo nelle frequenti sue corse transalpine; e però Donno, in ossequio del potente suo amico, avea pigliato i nomi di Caio Giulio. Dopo la sua morte, Marco Giulio Cozio, continuò a mostrarsi fedele ai Romani, e tenne con titolo di prefetto il montano principato del padre. È opera sua l’arco che ancor si vede a Susa eretto in onor d’Augusto. Ma più salda prova d’amistà dava egli a Roma tagliando nel vivo sasso de’ suoi dirupi nuove strade ad agevolare il passo ai Romani.6 Onde poi l’imperator Claudio ampliò i suoi dominii e gli diè titolo di re. Che l’augusta de’ Taurini facesse parte di quel regno ampliato, è cosa che sembra certa per l’autorità di Strabene, affermante che i Taurini, nazione Ligure, faceano parte del regno Coziano od Idonneo.
Dopo la morte di Cozio, Nerone ridusse in provincia il suo regno, e però tra le XVII provincie italiche segnate nell’itinerario d’Antonino si vede notata quelle dell’Alpi Cozie, la quale pare che allora ordinata con nuova circoscrizione acquistasse anche maggior ampiezza di territorii.
Non so se quando il regno di Cozio fu ridotto a provincia romana fosse mancata la stirpe di Donno, ma so ben che poco prima fioriva Vestale, quello appunto che Ovidio chiama: progenies alti fortissima Donni; e in altro luogo chiama: Giovane nato dai Re alpini (alpinis juvenis Regibus orte). Vestale erasi segnalalo in più combattimenti contro ai Goti, e massime nella presa d’Egipso, città de’ Sciti posta sur un alto giogo nella region delle nubi. Mandato poi preside della provincia del Ponto, Ovidio, le cui lodi sono alquanto interessate, lo chiama a testimonio de’ suoi patimenti, del mare occupato dai ghiacci, del vino agghiacciato nelle anfore, delle saette avvelenate che recano due morti in una.7
Di Torino romana non rimane altro pubblico monumento che quel palagio, ridotto sgraziatamente a prigione, e chiamato le Torri, che era una volta porta della città. Ma i marmi avanzati alle tante ingiurie del tempo e di fortuna ci favellano ancora altamente delle sue glorie passate. Torino era aggregata alla xxii tribù del popolo Romano, la Stellatina. Il padre degli Dei era detto custode della città, Ivupiter Cvstos Avgustæ Tavinorum.8 Ivi aveano altari e riti Venere Ericina, chiamata madre dei Cesari, Pallade Attica, Mercurio, che i Romani appellavano con frase energica lucrorum potens, e la menfitica Iside co’ suoi temuti arcani.9 E sull’Alpi Taurine, chiamate poi Cozie e Graie, erano invocati come Dei tutelari Apolline chiamato anche Beleno, Ercole e le Dee matrone, le quali ultime davano anzi il nome al Monginevra.10 Erano a Torino il teatro, il circo, archi di trionfo, trofei militari.
Ed uno appunto di questi trofei, di cui rimangono molli avanzi, era innalzato presso la porta Palatina ad onorare un illustre Torinese, Quinto Glizio Attilio Agricola, che si segnalò non meno nella guerra contro ai Daci per la sua virtù militare, che per la civil prudenza negli eminenti ufficii che sostenne.11 Caro agl’imperadori Vespasiano, Nerva, Traiano, furono degno premio del suo valore la corona murale destinata a chi primo saliva sulle mura nemiche; la vallare riservata a chi sapea di fendere i proprii trincieramenli; la classica o navale per le egregie imprese di mare; l’aurea, simbolo della vittoria ottenuta in battaglia campale; quattro aste pure12 e quattro vessilli, armi ed insegne d’onore, ricompensa di altrettante prove di singolar prodezza.
Glizio fu prefetto di Roma, edile curule, questore, pretore. Governò a’ tempi di Vespasiano la Spagna, sotto Nerva il Belgio, sotto Traiano la Pannonia che comprendeva le odierne Boemia, Ungheria e parte dell’Austria, e confinava appunto colla Dacia (Valachia, Servia e Bulgaria). Infine Glizio salì due volte al supremo onore del consolato, e vi pervenne la seconda volta l’anno 104 dell’era volgare.13
Ma prima di Glizio, e ne’ tempi appunto in cui s’operava il gran mistero di nostra redenzione, facea chiaro il nome Torinese un altro virtuoso guerriero, Gaio Gavio Silvano, figliuol di Lucio, il quale nella, breve e gloriosa guerra Britannica combattuta da Claudio l’anno 43 dell’era nostra, fece così belle prove da meritarsi da quell’imperatore il dono di collane, armille (braccialetti), falere (medaglie che si portavano pendenti sul petto), e la corona d’oro. Pe’ suoi egregi fatti la colonia Giulia Augusta de’ Taurini lo elesse a suo patrono e gli alzò un monumento.14
Frattanto questa parte d’Italia vieppiù s’ingentiliva, e sotto l’alito potente della civiltà Etrusco-Romana i popoli assicurali nelle famiglie, nella proprietà, ne’ diritti politici s’incorarono alle grandi opere territoriali. Le antiche arginature etrusche si prolungarono lungo l’alveo del Po. La palude s’andò mutando in prateria irrigua. « I colli fioriscono di alberi fruttiferi. La vite dell’Alpi Retiche acquista grido. Il ciliegio, il persico, il cotogno, il pomo di Armenia sono propagati dai giardinieri romani. Il castagno dell’Asia minore sale a nudrir i popoli fin sulle cime dei monti. L’olivo che ai tempi di Belloveso era ignoto in tutta l’Italia, fa molle contorno ai laghi, coltivato forse dagli agricoltori Greci che Cesare chiama sul Lario, e che ripetono nei nostri villaggi i nomi di Corippo, di Plesio, di Piera, di Lenno, di Delfo, dei Corinti e dei Dori ».15
Note
- ↑ [p. 59 modifica]Tacit., Hist. lib. i, rammenta l’ala Torinese condotta a Lione da Giunio Bleso, in tempi, è vero, assai posteriori. Ma v’era la stessa ragione e prima e poi. Per altra parte la stessa più antica forma di Torino, quadrata, era appunto quella d’un campo romano.
- ↑ [p. 59 modifica]L’usurpazione della cittadinanza romana era delitto capitale.
- ↑ [p. 59 modifica]Gallis qui cis alpes trans Padum incolebant quod sub suo imperio fuissont civitatis ius dedit. Dio. Cassius, lib. xli. Ed era appunto traspadana e cisalpina pe’ Romani questa regione.
- ↑ [p. 59 modifica]Quod et militibus et pecuniis instructissima esset.
- ↑ [p. 59 modifica]Quod eius ductu auspiciisque gentes alpinae omnes quae a mari supero ad inferum pertinebant sub imperium populi romani sunt redactae. Fra questi popoli sono i Salassi o Valdostani. Vedi intorno agli avanzi di questo trofeo le notizie date dal conte Spitalieri di Cessole, membro dell’Accad. R. delle Scienze di Torino, Nuova serie, tom. v.
- ↑ [p. 59 modifica]Huius sepulchrum reguli (Cotii) quem itinera struxisse retulimus segusione est moenibus proximum; manesque eius ratione gemina religiose coluntur, Amm. Marcell., Book. v. V. l’iscrizione dell’arco di Susa presso al Maffei, Storia diplom., e l’iscrizione d’un altaretto votivo posto ad Apolline da C. Giulio Donno che non piglia, e forse ancor non avea, confermato dai Romani il titolo di re ne Marmora Taurin. I, 152, Ovidio ne parla (ex Ponto, lib. iv), come s’ èveduto nel testo: progenies alti fortissima Donni. E Bager nel Tesor. Brandeburg. adduce una medaglia che ha nel diritto la testa di Roma galeata, nel rovescio un cavaliere a cavallo armato di lancia coll’iscriz. Donnus.
- ↑ [p. 59 modifica]Ovid. ex Ponto, lib. iv, epist. vii.
- ↑ [p. 59 modifica]Molti templi di Giove alzavansi sul Campidoglio romano: quello di Giove custode vicino alla rupe Tarpea; quello di Giove capitolino; quello [p. 60 modifica]di Giove feretrio; quello di Giove tonante, ecc. Ricquius, De Capitolio romano.
- ↑ [p. 60 modifica]Aveano templi in Campidoglio anche Venere Erycina, il culto della quale derivava dalla Sicilia ed Iside.
- ↑ [p. 60 modifica]Le Matrone s’invocavano specialmente per conservare o ricuperar la salute. Nell’agro novarese v’hanno moltissimi voti alle dee Matrone.
- ↑ [p. 60 modifica]Oltre le iscrizioni già conosciute poste dai Torinesi in onor di Quinto Glizio, frammenti d’un’altra si trovarono presso la porta palatina negli scavi del 1831.
- ↑ [p. 60 modifica]Le aste pure erano così chiamate perchè vestite di gramigna, erba sacra, usata dai feciali nello stringer confederazioni, detta per eccellenza pura. Onde in Livio il re Tullio dice al feciale: puram tollito. Fecialis ex arce graminis herbam puram attulit. Perciò le aste d’onore erano chiamate ora pure ora graminee. La corona di Marte era anche di gramigna. Suppongo poi che nelle aste d’onore la gramigna fosse o intagliata, o dipinta. V. Mongitore, Dissertazione sopra un passo di Cicerone dell’aste di gramigna. Opuscoli Calogeriani, xxii.
- ↑ [p. 60 modifica]Marmora Taurin. ii. 28.
Gazzera, Iscrizione metrica vercellese.
— Di alcuni diplomi di congedo militare. - ↑ [p. 60 modifica]Marmora Taurin. ii. 48.
Bartholini, De armillis veterum. - ↑ [p. 60 modifica]Ripeto qui con piacere questo bel passo del libro intitolato: Notizie naturali e civili sulla Lombardia, i, xli, libro per molti rispetti notabile.