Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro sesto/Capo quinto
Questo testo è completo. |
◄ | Libro sesto - Capo quarto | Annotazioni | ► |
CAPO QUINTO
(Dall’anno 1599 al 1602)
I. Terremoti. Il Vicerè conte di Lemos. Condizione del Regno. II. Congiura di Tommaso Campanella. È svelata da due de’ complici. Supplizii e persecuzioni. III. Giudizii del Giannone e del Bolla intorno al Campanella. Storte imputazioni date a questo frate. IV. Hassan Cicala torna alle nostre rive. Suoi tentativi e maneggi per occupar Reggio. Un nano di Sardegna. V. Avventura del nano di Sardegna. La trama è scoperta. Il Cicala sbarca sul territorio di Motta San Giovanni, e s’avvia contro Reggio. I Reggini uscendo della città si affrontano co’ Turchi nella fiumana di Santagata. Combattimenti. Coraggio di Vincenzo Gerìa. VI. I fratelli Marcantonio e Filippo Tricino. I Turchi s’inoltrano sino alla chiesa dell’Itria. I Reggini si apparecchiano alla difesa; ma i Turchi si traggono alla riva, e s’imbarcano.
I. L’anno 1599 fu memorabile per i frequenti terremoti, che con insolita veemenza atterrirono gli abitanti di Sicilia e di Calabria. Cominciò la terra a scuotersi agli otto di giugno verso le ore diciannove, e per più dì continuarono i terremoti radi, ma gagliardi nel giorno, frequenti, ma leggieri nella notte. Poi replicaronsi con più efficacia nel luglio, e con gravissima intensità nell’agosto. In Reggio, in Messina, ed in altre vicine contrade i pubblici e privati edifizii si risentirono di molto, e varie fabbriche restarono sgominate e crollanti. Tutti i Reggini lasciaron la città, e si raccolsero per l’aperta campagna, stivandosi in case terrene di contadini, o in altre provvisorie costrutte di tavole. Nè i più ritornarono in città che a capo di due mesi, cioè quando cessati al tutto i terremoti, cessò con essi il timore.
A questi tempi terminò la sua vita Filippo II, ed ebbe a successore il suo figliuolo Filippo III. Vicerè sotto il nuovo Sovrano fu il conte di Lemos, che arrivò in Napoli nel luglio del 1599. Egli credeva il regno quieto; pur vi covava sotto una gran tempesta. Il popolo napolitano si doleva di gravezze insopportabili; nè solo era costretto a pagar più di quello che avrebbe voluto o potuto; ma ancora l’indignazione pubblica prendeva alimento e forza dal veder che i frutti delle nostre terre e delle nostre industrie dovessero esser raccolti da ingordi stranieri, e destinati a nutrir la superbia de’ cortigiani di Spagna. Levavansi, è vero, soldati per la salute del Regno, si costruivano navigli per la guardia delle marine, s’innalzavan fortezze per rintuzzar gl’insulti de’ Turchi, al che era certamente richiesta una grossa spesa. Ma niuno ignorava quanta parte di quel che fruttava il regno, non in esso si spendesse, ma andasse in lontane regioni. Gravissime erano le contribuzioni; i giudizii crudeli ed inesorabili. Aggiungi a questo le molestie de’ facinorosi e dei banditi, che per ogni verso infestavano le campagne. Fra i quali erano famosissimi Sciarra Colonna, che si faceva chiamare il re della campagna ed il calabrese Marco Berardi cosentino, noto col titolo di re Marcone. A dirlo in somma, il malcontento era al colmo, e non si aspettava che l’occasione di manifestarlo co’ fatti.
II. Tommaso Campanella, fervido e vigoroso intelletto, uomo dottissimo ed operosissimo, conobbe i tempi, conobbe l’universale scontentezza, e propose di mettere in effetio le sue dottrine politiche, prevalendosi di una sommossa calabrese, a scuotere il giogo della dominazione spagnuola. Ed a preparare il terreno fra la moltitudine, che lascia sempre illudersi dalle cose insolite, e dalle speciose promesse, spargeva che per i moti degli astri egli si era accorto che grandi mutamenti di stati, specialmente nel Regno di Napoli, e nella Calabria, avvenir dovevano al principio del nuovo secolo. Molti altri frati, molti signori, moltissimi popolani venivano ad intelligenza col Campanella, e congiuratisi cominciarono a meditare i mezzi di effettuare il gran disegno. Tra i frati che col Campanella aveano pratica, era Dionigi Ponzio da Nicastro, a cui fu data commissione di muovere alla sedizione Catanzaro, e le contigue terre. Nè pochi ivi il seguirono, i quali presi alle sue parole, si mostrarono assai propensi a gittarsi ne’ fatti. Gli altri congiurati più notabili, e di molto seguito furono tra i religiosi il padre Giovanni Battista da Pizzoli, il padre Pietro da Stilo, ed il padre Domenico Petroli da Stigliano. E frati agostiniani, domenicani, francescani, più che trecento, eran con loro. Con loro erano i Vescovi di Oppido, di Nicastro, di Gerace, di Mileto; con loro molti baroni napolitani e provinciali, e nobili cittadini, ed uomini dottissimi, fra i quali basti nominare il cosentino Antonio Serra. Con loro moltissime città, come Stilo, Catanzaro, Cosenza, Reggio, Squillace, Nicastro, Tropea, Cassano, Castrovillari, Terranova, Cotrone, Satriano. E più che duemila banditi eran pronti ad ajutar l’opera che si andava maturando. Tutto in somma era presto in Calabria ad una grande rivoluzione, la quale doveva produrre conseguenze assai gravi e straordinarie.
Aggiungasi ancora che la rivoluzione delle Fiandre, per cui quella parte nobilissima di Europa si era testè sottratta alla monarchia spagnuola dopo tanti gloriosi sforzi, spingeva le altre membra della medesima ad imitarne l’esempio (1600). Ma quando il general tumulto era già presso allo scoppio, due consapevoli Fabio di Lauro, e Giovanni Battista Biblia da Catanzaro vomitarono ogni cosa a Luigi Xarava avvocato fiscale in Catanzaro; il quale immantinente ne diede ragguaglio al Vicerè. Questi, facendo sembiante di non saperne, spedì in Calabria con assoluta plenipotenza Carlo Spinelli. Tutto ad un tempo, in una notte, ad un gran numero di compromessi misero le mani addosso i soldati spagnuoli, e li menaron presi. Altri moltissimi, avuto sentore del tradimento, s’erano già nascosi o fuggiti con quella più celerità che potettero. Fra gli arrestati di maggior nome si contarono Maurizio di Rainaldo, Dionigi Ponzio, e Tommaso Campanella. Questo frate era fuggito alla marina per trovar modo d’imbarcarsi, ma fu colto in una capanna per opera del principe di Roccella, a cui un villano aveva denunziato il nascondiglio. Il Rainaldo, ed il Ponzio, esaminati a crudelissima tortura, confessarono tra gli strazii quanto sapevano e non sapevano, ed ebber mozza la testa dal boja. Una gran quantità furono quali squartati, quali impiccati, quali fatti morir di stento nelle carceri dello Stato. Il Campanella, dopo aver sostenuto con indomito animo i più atroci tormenti, senza mai confessar cosa alcuna, fu condannato a perpetua prigionia.
Fu chiusa allora in Cosenza la telesiana Accademia, e fieramente perseguitati i dotti uomini, che seguaci delle ardite e nuove dottrine del Telesio e del Campanella, miravano a toglier la filosofia dalle astruse teorie (in cui avevanla avviluppata i segnaci d’Aristotile) per ricondurla a’ suoi veri principii. Laonde fu spento nella Calabria quel nobile fervore che eccitato aveva i nostri concittadini alla ricerca e meditazione della verità. I pubblici uffizii furono ricompensa a’ più ignoranti e malvagi: de’ quali il maggior merito era di aver fatto crescere ad un volume immenso le denunzie ed i processi.
III. Io non mi tratterrò ad investigare quanto possano esser veri gli strani disegni che il Giannone imputa al Campanella. Dico solo che le sue asserzioni poggiano tutte sul processo, che veniva fatto a quegli sventurati sotto la terribile impressione della tortura, la quale faceva mentire egualmente e chi poteva, e chi non poteva soffrirla; processo che la polizia spagnuola compilava fuori della giurisdizione ordinaria de’ Tribunali di Napoli. E poi il Giannone scriveva sotto la signoria spagnuola, e ciò basta. Ma che il dottissimo Botta, non contentandosi di copiare a verbo il Giannone, abbia altresì voluto far pesare molte sue amare parole sulla memoria del Campanella, pervertendone i fatti e le intenzioni, ed aggravandone i carichi, questa è cosa che muove ad ira e dispetto. E chi lacerasse quella pagina della sua Storia d’Italia, ove si piace di travisare e disconoscere il vero, presterebbe un gran servigio alla dignità della storia, ed alla travagliata memoria del dottissimo frate calabrese. Il quale se fosse stato quel detestabile uomo che asseriscono il Giannone ed il Botta, io non so come fosse avvenuto che in luogo di mozzargli la testa, si fosse solo contentata la giustizia spagnuola di dannarlo a perpetuo carcere, e poi liberarlo dopo ventisette anni.
Pesa sul Campanella la colpa di aver chiamato il Turco ad ajuto della sua meditata impresa; il che non è provato. E fosse pur vero; non furono forse i Turchi anteriormente chiamati in Italia da un Re Cristianissimo contro un Re Cattolico? Ed Hassan Cicala ch’era già venuto in Reggio nel 1594, aveva forse bisogno dell’invito di un frate per tornarvi nel 1602? E non dice la storia quanto alla tentata rivoluzione abbia in occulto dato incentivo la Francia, la quale fu sempre collegata cogli Ottomani a danno della casa di Spagna?
Certo che nella estimazione delle cose umane è sì errato il giudizio, che a chi riesce in un’impresa segue il nome di eroe, segue la fama e la gloria, quantunque il proemio de’ suoi fatti sia stato un assassinio o un tradimento; a chi poi l’impresa va fallita resta il nome di malfattore e di detestabile, resta l’infamia ed il patibolo, quantunque nessun malvagio proposito o misfatto ne abbia contaminata la vita. Conchiudiamo che quando la prevenzione fa velo al giudizio, lo storico scende dal suo alto ministero, e diviene o accusatore, o avvocato.
Allegrò il nostro Campanella la tristezza della dura e lunga prigionia col lavoro di dottissime opere filosofiche, che oggidì i più profondi pensatori dell’Alemagna comentano, traducono e pubblicano per ogni verso, mentre forse pochi tra noi ne conoscono i titoli, e la materia. Uscì finalmente di prigione ad intercessione e premura dell’ambasciatore francese, e di papa Urbano VIII, che lo accolse in Bontà umanissimamente, e gli porse chiarissimi contrassegni della sua benevolenza. Da Roma fece via per Parigi, e vi fu accolto e festeggiato da’ più dotti Francesi, e dallo stesso Sovrano. Ivi fra profondi studii storici e filosofici, fra la familiare conversazione di que’ letterati trascorse il rimanente della sua vita, che gli durò sino al 1639.
IV. Cicala intanto, che meditava vendetta sopra Reggio per lo scacco sofferto, non ignorava forse l’imminente combustione della Calabria, e si affrettò a questi lidi colla sua armata (1602) per trovarsi apparecchiato a trar pro da’ mutamenti, ch’egli credeva prossimi ad accadere. Entrato però nello stretto di Sicilia, seppe che ogni cosa era quieta, e la congiura scoperta; ma non si rimase per questo di approssimarsi a Reggio per tentarvi un disbarco. Ed oramai era molto vicino alle mura della città quando sentì salutarsi da sei cannonate che partirono dalla fortezza. Laonde conobbe non andar la faccenda com’e’ si pensava; conobbe la città capace e prontissima ad opporgli valida resistenza. Quindi avvisò meglio ritirarsi nel seno di Motta San Giovanni, ed aspettar tempo e luogo alla desiderata vendetta.
Ivi cominciò a studiar il modo come impadronirsi del paese per via di tradimento; ma vedendo che solo non potea venirne a capo, comunicò la cosa ad un suo confidente, come lui rinnegato, il quale nell’arte della doppiezza, e nella prontezza ad ogni malvagia opera valeva tant’oro. Diceva adunque Cicala a costui essergli in desiderio che Reggio gli venisse alle mani senza spargimento di sangue. Aver voluto metter lui a parte di questo divisamento, perchè il sapeva per prova in tali pratiche espertissimo. Soggiungevagli, desse opera a tutt’uomo al buon esito dell’assunto; nè dubitasse del resto, chè ne sarebbe grandemente rimeritato. Rispose costui ciò essergli facil cosa a condurre, sul che potesse abboccarsi con qualcuno del paese; esser per questo di mestieri non inibire la corrispondenza tra i marinari turchi ed i terrazzani, dimostrare anzi non equivoci segni di buona fede, perchè dall’una e dall’altra parte potessero trovarsi insieme con sicurtà. Allestita una nave leggiera tre o quattro giorni di poi, fu ascesa da quel rinnegato, il quale volle che dapprima si remigasse rasente il lido, sino a che gli venne veduto sulla riva, a non molto dalla città, alquante persone insieme. Spiegò allora una bianca tela, e data ed accettata fede di reciproca sicurezza, smontò in terra, ed entrò con loro in varii ragionamenti. Dopo non molto trovò il destro di frammettervi ancora alcune astute e furbesche frasi, dalle quali traspariva la meditazione di qualche disegno. E portò la sorte del rinnegato che si trovasse fra que’ cristiani un tale di bassissima statura, nativo, come si racconta, di Sardegna; il quale militava nella guarnigione spagnuola, e per cattività d’animo era inchinatissimo ad ogni delitto; nè so chi l’avrebbe vinto in furberia. Or costui meravigliosamente comprese che le destre parole del rinnegato tendevano a trovare un coadiutore in qualche segreto maneggio. Per la qual cosa ancor egli interpose a luogo talune parole acconce a quel proposito; ed i due furbi si compresero a meraviglia. Maestrevolmente in fatti l’uno riuscì a fare intendere all’altro, che se cauto ritornasse la prossima notte a quello stesso luogo, vi troverebbe divisato in una scritta quanto avesse a far dalla sua parte.
Come prima venne la notte, il nano, a cui ogni ora pareva un secolo, ritornò al luogo stabilito, ed a prima giunta gli corse alla vista un vasellino, dentro cui trovò una lettera, ove gli si chiedeva apertamente il tradimento; ed anzi vi si animava con molte promesse. Rispose il nano collo stesso mezzo, bastargli la vista al compimento della cosa; e poichè voleva la fortuna che la vegnente notte toccasse a lui far la scolta al castello, era proprio quella l’occasione più propizia a far che i Turchi potessero esservi introdotti occultamente. Il perchè diceva esser necessario che una nave leggiera piena di soldati turchi si facesse furtivamente sotto al castello, e quivi stesse sull’avviso sino a che il nano non facesse sentir lo scoppio della polveriera. Il che come sentirebbe quella gente appostata, si gittasse celeremente a terra; ed in mezzo alla confusione che sopravverrebbe a quell’incendio, si avviasse al castello, e si precipitasse per la porta che troverebbe socchiusa.
V. Composta in tal modo la trama, e venuta appena la notte, il nano entrò quatto quatto nella cameretta delle munizioni con in mano una fune accesa, per ivi lasciarla presso la polvere, e fuggirsi. Ma vi fu sorpreso dal castellano, venutovi a caso in quello stante, il quale compreso il perfido intendimento di quel malvagio, gli si avventò di subito addosso, e si mise a gridar tradimento. Il nano intanto fuggì; ma da parecchi, che traevano alle grida del castellano, fu preso e menato nuovamente al castello. Inteso l’avvenuto, tutti si affollavano chi per curiosità, i più per ira, attorno al picciol soldato, il quale vedendosi a così mal termine, tremante e confuso confessò tutto; ed il dimane fu fatto meritamente strangolare, ed appendere ancor palpitante su’ merli delle mura, col capo in giù, e con in petto uno scritto che a tutti pubblicasse la tentata perfidia ed il seguitone castigo.
La nave turchesca, che stava in aspettazione in non gran distanza dal lido, udito il tumulto che si faceva nel castello, e pensando quel ch’era, se ne dilungò prestamente, e corse difilata a Cicala a narragli l’avvenuto. Il quale vedendo per questo sventato il suo avviso, si decise di volere aver per forza ciò che per frodi non aveva potuto. Fece sbarcar la mattina tutta la sua gente sul territorio di Motta San Giovanni, e dispostala in ordine di combattere, mosse per la via della città. Il governator Diego Ajala allora affidò sollecitamente al capitan d’armi Geronimo Musitano, ch’era uomo di molto coraggio, i migliori soldati della guarnigione, non poca quantità di animosi cittadini e tutta la cavalleria; e gli commise uscisse fuori delle mura, e marciasse tosto contro le schiere turche. Così fece il Musitano, e l’Ajala si rimase alla difesa interna. La pugna ebbe cominciamento nell’alveo della fiumana di Santagata, ed ivi attorno. Grande era la disparità de’ combattenti, perchè essendo i Turchi da tre migliaia, non più che mille erano i Reggini. Nulladimeno i secondi eran pari in resistenza; che venivano incitati non pur dal desiderio di onore, ma dalla necessità della salute loro; nè poco vantaggio traevano i nostri dalla natura del luogo. La terra aspra di sassi e di spine dava impaccio grandissimo alla cavalleria dei nemici; mentre a’ nostri giovavano le macerie, le siepi, gli alberi, ogni muro, ogni casa. Sicchè questi tiravano da luoghi coperti, e dall’incontro le palle e le saette de’ Turchi, lanciate a caso, cadevano continuamente sul suolo senza effetto di sorta. I Reggini, appostati a sei, a otto, ed il più più a dieci, dietro i detti ripari, traevano a colpo sicuro. Quindi i Turchi andavano stramazzando qua e là alla spicciolata; ma non si perdevano d’animo per questo; chè anzi a maggior furore concitati dalla strage de’ loro, si stringevano rabbiosamente su quegli aguati, e davano addosso a’ Reggini. Dei quali parte finalmente, più avanti sostener non potendo la ognor crescente moltitudine turchesca, si dettero alla fuga; e parte (ch’erano i più avidi di gloria, e perciò temerari) nulla curando di lor vita, intendevan solo a doppiarne la strage. E di grande aiuto lor furono quell’estremo cimento i contadini nostri, che precipitandosi a torme dalle terre superiori, correvano a sostener la pugna ed il coraggio de’ loro compatrioti. Alla fine penetrando furiosamente gli uni negli altri, cominciarono a combatter da vicino con quanto dava loro in mano la rabbia alterna. Colle spade, colle coltella, co’ sassi i nostri abbatteron più Turchi, che non avean fatto da lungi con pile e saette. Grande fu l’uccisione sofferta in tal mischia da’ Turchi, grandissima la gloria che conseguitò a’ Reggini; de’ quali pur molti venner desiderati, che nè senza gloria perirono nè senza vendetta. E la storia non tace tra i morti il nobil giovine Vincenzo Gerla, che, smontato di cavallo uccisogli sotto, resistette per più tempo ad un nemico drappello, tagliando ed uccidendo con esimia bravura quanti a lui si appressavano. Finalmente, riuscito a’ suoi compagni di torlo ancor semivivo al furore ostile, non guari dopo rese a Dio l’anima generosa.
VI. Nè voglio passar qui sotto silenzio un singolare esempio di fraterna pietà. Marcantonio Tricino giovine reggino, ferito gravemente nel fianco, nè potendo fuggire, vide per ventura un suo fratello Filippo, che passava ivi presso, e flebilmente il chiamò per nome. Quegli, conosciuta la fraterna voce, vi accorse, e senza indugio gittandosi sulle spalle l’amato peso, con lena affannata il menava seco. Intanto il ferito sentiva il celere avvicinarsi de’ Turchi, e pregava il fratello che ivi deponendolo, pensasse a salvarsi; poichè così non facendo, nè salverebbe lui moribondo, nè salverebbe se stesso. Ma tutto fu invano; perchè l’altro, determinatosi di morir col fratello, non evitò il nemico incontro. Nè più tosto ebbe finito di parlare il paziente, che il Turco era già alle loro calcagna. Il ferito allora fece adagiarsi sul suolo, ed animato dall’inevitabil pericolo, con inusitato sforzo si rizzò in piè. Entrambi stettero risoluti e fermi ad attendere il nemico. Una banda turca si cacciò in quel momento addosso a’ due fratelli, i quali lunga pezza all’impeto resistettero; ma da ultimo Marcantonio, colpito mortalmente da una lanciata, cadde il primo bocconi, ed esalò l’ultimo fiato sotto i duplicati colpi de’ barbari. Filippo seguì disperatamente a far provo da dirsene, ma poco di poi restò anch’egli accoppato da un furioso nembo di strali, e diventò cadavere sul cadavere fraterno. I nemici non saziarono la loro ira che squarciando a membro a membro quegli avanzi di una vita gloriosa ed immortale.
Dopo ciò tutti levarono con grande schiamazzo le lance in alto, e corsero ad inseguir la dissipata gente reggina. E discorrendo tutto lo spazio che questa aveva occupato, incendiarono le abitazioni a cui si vennero imbattendo. E s’inoltrarono sino alla chiesa dell’Itria, la quale fu da loro empiamente profanata, spogliata, ed arsa. Avendo riferito intanto i Reggini che ritornavano, come il Turco già a gran passi si approssimava alla città, da tutti i canti levaron le donne grida di spavento. Si suonarono le campane all’armi; tutti a disperata difesa si approntarono. Ma la cosa finì diversamente di quel che si temeva: perciocchè i Turchi vedendosi impacciati per tutto da’ folti e spessi alberi, temendo le strade battute, evitando i luoghi sospetti, ne’ quali si figuravano un aguato ad ogni pie’ sospinto, procedevano verso la città assai lenti e misurati. Le loro trombe sonarono finalmente a raccolta, al che se essi abbiano assai volentieri obbedito, non è a dire. Arrabbiato Cicala per l’infelice successo delle sue operazioni, il giorno appresso si ricondusse con tutti i suoi sulle navi, che da Motta San Giovanni si erano a Reggio appressate; e sciolse da questi lidi per non più ritornarvi. Seppesi poi la nuova della sua morte, avvenuta pochi mesi appresso in Costantinopoli.