Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Annotazioni/Libro primo

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LIBRO PRIMO

CAPO PRIMO. § I. I Calcidesi. — Secondo che dice Eraclide da Ponto (de Politiis) i Calcidesi sulle prime abitarono presso il sepolcro di Giocasto, a cui diede morte un dragone. Avevano essi avuto dall’oracolo di dovere stabilire la loro colonia nel luogo dove vedessero una femina abbracciata ad un maschio. Sicchè vedendo in Reggio una vite maritata ad un elce congetturarono esser questo il luogo loro assegnato. Questo luogo (segue Eraclide) aveva avuto il nome di Reggio da un Eroe indigeno, che così si chiamava.


§ III. I Messenii di Naupatto. — Da Naupatto i Messenii furono cacciati dagli Spartani nel secondo anno della 91a Olimpiade; ed usciti di [p. 302 modifica]Grecia, una gran parte passarono in Sicilia al soldo di Dionisio, tiranno di Siracusa, e molti vennero a far dimora in Reggio. Ma dopo la battaglia di Leuttri (Olimp. 102) nella quale Epaminonda Tebano debellò al tutto gli Spartani, questo Eroe indusse i suoi concittadini a fare invito a’ profughi Messenii di ritornarsi alle loro antiche sedi, e di restituir loro l’antico territorio, affinchè potessero rifabbricare la distrutta Messena.


§. V. Due Anassili. — Che debbano ammettersi due Anassili si desume chiaramente dalle narrazioni di Erodoto, di Tucidide, e di Pausania. A questa opinione da me seguita mi persuasero l’Oderigo, il Corsini, ed il Micali. Il Cluverio, il Reina, lo Spanemio ed il Fréret avevano stabiliti tre Anassili, ma senza necessità storica. Il nostro Morisani ed il Barthélémy restano dubbiosi. Certo è che l’Anassila che viveva nell’Olimp. 27a è detto Egemone da Antioco Siracusano; e non può essere il medesimo che l’Anassila tiranno, il quale dominò per diciotto anni Reggio, e venne a morte nell’anno primo della 76a Olimpiade.

Dialetti degl’Italioti. — I dialetti usati dagl’Italioti furono, conforme alla loro origine, il dorico e l’eolico; ma poi il dorico cominciò a preponderare, e divenne a poco a poco la lingua speciale della Magna Grecia con certe voci e frasi tutte proprie, differenti dagli altri dialetti greci. La lingua osca ritenne vigore presso gl’Itali ed i Siculi, e restò dialetto volgare degli stessi Sicilioti ed Italioti. Ma lo scambievole commercio, e la continua dimestichezza di questi Italioti ed Itali co’ Greci orientali fece sì che la lingua greca fosse fra noi assai prevalente; onde gl’itali ed i Siculi erano chiamati bilingui, dall’uso che facevano delle due lingue osca e greca. E ciò ci si rende anche manifesto dalle monete de’ Brettii e de’ Mamertini, segnate con parole greche e lettere osche.

I Focesi dell’Ionia in Reggio. — Verso l’olimpiade 60a i Focesi, cacciati dalla patria loro da Arpago capitano di Ciro, alle cui armi non poterono resistere, si misero in mare con tutte le famiglie e robe loro, e fecero vela verso Chio. Donde si diressero a Cirna (Corsica), nella quale isola avevano venti anni prima fondata la città di Alalia. Stabilitisi ivi colle loro famiglie e co’ loro Dei, vi dimoravano già da cinque anni. Ma avendo cominciato a rendersi molesti e gravi a’ vicini popoli colle loro scorrerie, furono da’ Tirreni e Cartaginesi sconfitti in un conflitto navale, e costretti a lasciar quell’isola. I Focesi allora fecero navigazione verso Reggio, e vi sbarcarono, tentando d’impiantarsi in colonia su qualche punto di questo territorio. Ma i Reggini nol soffersero, e li costrinsero ad avviarsi altrove. Presero allora cammino per le campagne dell’Enotria, e vi fabbricarono la città di Elea.

Tutto questo ci viene narrato da Erodoto; a qual proposito osserva il dotto Niebhur (Storia Romana) che essendo ciò avvenuto in tempo che Sibari era al colmo della sua potenza, ed aveva piena preponderanza su quella contrada, Elea non potè esser fondata da’ Focesi che coll’assenso de’ Sibariti.


§. VII. Alcune leggi di Caronda. — Le leggi di Caronda, secondo il costume di quell’età, erano scritte in versi, e tal celebrità avevano acquistata presso gli stessi Greci, che gli Ateniesi solevano cantarle ne’ loro [p. 303 modifica]conviti. Chi voglia copiose notizie di tali leggi potrà leggere Stobeo e Diodoro Siculo. Basterà qui accennarne alcune che valgano a dar saggio delle rimanenti.

1.° Chi dà matrigna a’ suoi figli sia rimosso dal Senato, e dal Consiglio della patria.

2.° Chi è convinto di calunnia, e di falsa delazione di nn delitto, abbia la punizione di esser condotto intorno per tutta la città incoronato di tamerice.

3.° È proibito aver consorzio e familiarità co’ malvagi.

4.° Tutti i figliuoli de’ cittadini devono essere ammaestrati nelle belle lettere a spese pubbliche.

5.° Il patrimonio degli orfani sia affidato alla tutela ed amministrazione de’ loro agnati; la educazione loro alla fede e cura de’ cognati.

6.° Chiunque in guerra diserti le bandiere e gli ordini, o si nieghi a prender le armi in difesa della patria, stia esposto per tre giorni sulla pubblica piazza vestito da donna.

7.° Chiunque vorrà proporre la correzione di qualche legge, facendone la proposta dovrà tenersi un laccio alla gola, ed in quest’attitudine aspettar la deliberazione del popolo; affinchè se la correzione sarà ammessa, egli possa partirsi libero, e se sarà rifiutata, sia immantinente strangolato con quel laccio.


CAPO SECONDO. §. VI. I Japigi in Reggio. — Asserisce Diodoro Siculo che i Japigi vincitori, perseguitando i Tarentini ed i Reggini, fossero entrati confusi con questi ultimi in Reggio, ed occupata avessero questa città. Io ho modificato alquanto il racconto di Diodoro, attenendomi alle savie osservazioni de’ suoi commentatori, e del nostro dotto Arcidiacono Gaetano Paturzo, il quale in un suo opuscoletto inedito (Historica Rhegii civitatis Synopsis) così ragiona: «At vero tam longinquum reputanti spatium, quod Rhegium inter et pugnae locum Tarento proximum intercedit, haud scio an incredibilia videri possint ea, quae extremo loco unus modo Diodorus, silente Herodoto, prodit. Qui enim Japyges insequentes, fugientesque Rhegini, tot dierum iter, et quidem fere avium per mediterranea, infinitum per maritima, alii aliorum vestigiis inhaerentes decurrissent, victoresque victis immistos urbem nec opinantem oppressissent? Rhegium crederis Tarento vix unius horae spatio distantem. Quin tantum abest ut ejusmodi calamitatis appareat ullum vestigium, ut etiam Rhegio Pyxuntem coloniam triennio post deductam mox legas ex eodem Diodoro».

Pissunte o Bussento. — Niuna notizia storica abbiamo presso gli scrittori antichi sul progresso e floridità di questa colonia reggina; ma da una rara medaglia di Siri e Bussento, ch’esiste nel regio Museo di Parigi, e che pare (come attesta il Micali) essere stata battuta per occasione d’amistà, possiamo argomentare che tal colonia dovette prosperare per più tempo.


CAPO TERZO. § II. Le Terme. — Fra i monumenti, la cui ricordanza serve ad attestare l’antica civiltà della repubblica Reggina nell’epoca splendidissima della Magna Grecia, erano le Terme, o pubblici Bagni. Sorgeva questo elegante edifizio in quel sito della città, ove ora è una casa di proprietà del Monastero delle Salesiane, la quale fa angolo [p. 304 modifica]retto colla Strada Crisafi a mezzodì, e coll’altra detta delle Terme ad oriente. Dopo che, per i gagliardi terremoti del 1783, la nostra città rimase distrutta in non poca parte, e crollante in moltissima, sarebbesi potuto pure da quella sventura trarre occasione di fare non pochi scavamenti per diseppellire, quanto più fosse possibile, ciò che a noi rimane tuttavia sotterra della gloria degli avi. Certo egli è che (per la forza inevitabile delle infinite e continue vicende sì politiche che fisiche onde questo paese è stato sempre travagliato) tutta sotterra è l’antica Reggio; e le moderne abitazioni non sono fondate per lo più che in suolo mal fermo, o soprapposto all’antico da’ naturali rivolgimenti, o rammassato qua e là dalla singolare perizia degli architetti, per la strana voglia (che ancor dura) di ridurre tutta ad una livellazione la superficie della città.

Niente dunque potendo dir noi nè del Teatro antico, nè del Pritaneo, nè della Zecca, nè di molti altri vetusti edifizii, de’ quali or non ci avanza che il nome, intendiamo far brevi parole delle Terme, scoperte, sono ormai quarantasette anni, dal mio concittadino Federico Barilla, caldo ricercatore delle patrie cose, e lodato scrittore di varii opuscoli appartenenti alla storia reggina. E tanto più dovrà parer utile che di questo nostro monumento si dia contezza, in quanto che al presente null’altro veggiamo nel luogo ov’esso sorgeva, che la mentovata casa, dove da moltissimi anni si lavorano indefessamente maccheroni e lasagne.

Nell’anno 1810, a premura del Barilla, la pubblica amministrazione provvide che si facessero scavi per disotterrare la Terme, e questi tosto cominciatisi coll’assistenza dello stesso, si giunse a scoprire non poca parte di quel monumento. Dal che si potette arguirne la solida ed ampia struttura, degna veramente dell’epoca più florida della nostra repubblica. Il Barilla ne fece il disegno, ed una minuta descrizione; dalla quale io desumo e riferisco qui quanto basta a dare a’ lettori una chiara idea dell’antico edifizio.

La sala centrale delle Terme faceva un esagono, del quale ogni lato aveva la lunghezza di venti palmi, ed il suo pavimento veniva sostenuto da parecchie serie di pilastrini laterizii dell’altezza di tre palmi, e della grossezza di un palmo e mezzo quadrato. Questi pilastrini formavano l’ipocausto inferiore, luogo ne’ bagni antichi dove faceva entrarsi il calore che serviva a riscaldar le stanze e le acque. Con questo ipocausto avevano comunicazione altri simiglianti ipocausti laterali. L’ingresso esteriore delle Terme fu trovato nel lato orientale dell’esagono; e vicino all’ingresso si rinvenne un braccio di marmo, che dovette appartenere per la sua grandezza ad una statua colossale ch’era forse eretta all’entrata. Si è scoperta ancora presso l’ingresso una base di marmo murata tenacemente, dove erano scolpite talune lettere greche, dal cui raccozzamento, benchè mezzo consunte, risultò la parola Diana. Ma non si potè conchiudere che la statua colossale avesse dovuto raffigurare tal Dea, poichè quella base di marmo, non essendo di tal proporzione da poter assettarvi una statua più grande del vero, fece congetturare ch’abbia dovuto servire ad altra statua minore.

In ciascuno degli altri due lati dell’esagono, attigui al lato orientale ed anteriore, e proprio nel mezzo di essi, era un adito che dall’esagono menava a due laconici laterali, i quali potevano dirsi anteriori, per la ragione che da ognun di essi, mediante un’altra entrata, passavasi ad altri due laconici posteriori. Appellavasi laconico negli antichi bagni quella came[p. 305 modifica]retta, in cui il solo ambiente caldissimo provocava, per mezzo dell’ipocausto (senza far uso dell’acqua calda) un caldo sudore; e forse così si disse perchè nella Laconia si praticava in tal maniera. La figura di questi quattro laconici era circolare, ed aveva il diametro di palmi diciannove.

A’ tre lati posteriori dell’esagono erano contigui tre bagni semicircolari, di uguale grandezza, co’ corrispettivi sedili di marmo bianco. Il che si dedusse dalla forma architettonica dell’edifizio, essendosi trovato di tal marmo (e ben conservato) il sedile del bagno annesso a quello de’ tre lati dell’esagono che stava a mezzogiorno e ponente. Gli altri sedili, parte non furono scavati per non pregiudicare alla casa di Agostino Spanò, e parte dettero indizio di essere stati distrutti da urti violenti. Nello stesso bagno, ch’era tra ponente e mezzodì, furono scoperti varii di que’ tubi di terra cotta, che dovevano comunicare coll’ipocausto per la trasfusione e durata del calore nelle acque de’ bagni. Fu rinvenuto altresì nel semicerchio dello stesso bagno, e segnatamente dalla banda occidentale, il conduttore del calore della fornace negl’ipocausti; ma la fornace era al tutto rovinata, e di esso conduttore non restavano che pochi frantumi.

Ma intanto che aspettavasi di veder conservato ed illustrato pienamente questo monumento, e lasciato aperto alla curiosità delle culte persone, come uno de’ pochissimi avanzi della nostra prisca civiltà, venne prima ordinato che si sospendesse lo scavamento, e poi s’inculcò che si tornasse ad interrare ciò che si era sterrato; affinchè nè alle pubbliche vie, nè alla contigua casa dello Spanò si venisse a recare ulterior detrimento. E così fu fatto: e quindi nell’anno 1824 fuvvi sopra costrutta la suddetta casa del Monastero delle Salesiane.


§. II. Essormisto o Murena. — Il <span class="errata" title="Brossio">Brossèo, nelle annotazioni alle Epistole di Cassiodoro, dice dell’essormisto: «Est piscis ita a Graecis illis, qui ultimam oram Graeciae in Italia accolebant, vocatus, quia fundum maris deserere solet, ut in summum natet, qnod proprie dicitur de navi sublatis anchoris». È lo stesso che la murena plota de’ Greci, fluta de’ Latini; il che vuol dire soprannotante; «quod hae (murenae) dice Varrone, in stimma aqua prae pinguedine fluitent». Ne’ tempi posteriori queste murene servirono alle piscine romane, come si rileva da Macrobio e da Giovenale. Ecco le parole di Macrobio: «Arcessebantur murenae ad piscinas nostrae urbis ab usque freto Siculo, quod Rhegium a Messana dispescit. Ibi enim optimae a prodigis esse creduntur, tam hercule quam anguillae». Della murena (secondo la traduzione del dotto Scinà) scrive Archestrato presso Ateneo:

          Se nell’angusto fluttuoso Stretto
          Che parte Italia, presa vien la plota
          Detta murena, comprala, chè questo
          Ivi è boccone di stupendo gusto.

Anguilla.Dallo stesso Archestrato è assai lodata la nostra anguilla:

          Lodo ogni anguilla, ma la più squisita
          È quella che si pesca nello Stretto,
          Nel mar, che Reggio di rincontro guarda
          O di Messina abitator felice
          Sopra ogni altro mortal, che questo cibo
          In copia mangi.

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Sifia o Pescespada. — Questo pesce pare che corrisponda al pesce lato di Archestrato, che dice:

          Là nello Stretto che riguarda Scilla
          Nella piena di selve Italia, il mare
          Il pesce lato, ch’è famoso, alleva,
          Boccone intero da recar stupore.

Della pesca del pescespada presso gli antichi fa una curiosa descrizione Polibio, dalla quale si scorge che l’antico modo della pesca è poco differente dall’odierno. Io la trascrivo secondo l’elegante traduzione latina fattane dal soprallodato nostro Paturzo, (Historica Rhegii civitatis Synopsis): «Est in specula explorator communis venatoribus ad insidias propter navium stationem paratis in lembis compluribus, qui duobus remis aguntur: duo viri in singulis lembis: alter lembum agit, alter hasta armatus stat in prora, galeotae adventum speculatore indicante. Tertia sui parte bellua sopra mare solet eminere. Appropinquante vero rate feramque attingente, cominus ille hastam ejus corpori impingit, evellitque, relicta in corpore ejus cuspide quae hamata est, et dedita opera leviter hastili praefigitur. Ab ea dependit longus funiculus, quem, bellua vulnerata, laxat; donec palpitando ac subterfugiendo defatigetur. Tum ad terram educunt, aut in lembum imponunt, nisi omnino vasto sit corpore. Hastile, etiamsi in mare excidat, non perii: est enim compactum ex quercu et abiete, ut cum pendere pars querna mergitur, rcliquum in sublimi extet, ac recipi facile possit. Nonnunquam etiam remex per ipsum lembum vulneratur ob magnitndinem gladii galeotae et vim belluae: cujus et impetus et venatio aprorum similis est».

Haec quidem omnia (continua qui il Paturzo) singulis annis incunte aestate apud Scillaeos videmus, et hoc amplius quod praetermisit Polibius, speculatores, quos supra diximus, galeotae adventum, variosque motus ex alto prospectantes, vocibus etiam nunc graecanicis, at corruptissimis, et usu sibi modo cognitis, venatorios lembos, quocumque ille fertur ita dirigere ut eos ferae veluti impingant. — Descrissero la pesca del pescespada Diego Vitrioli ed il Can. Paolo Pellicano, il primo in eleganti esametri latini, il secondo in prosa italiana.

Vino di Reggio. — Del nostro vino dice Ateneo che aveva più forza e corpo di quello di Pozzuoli, e durava utile e buono sino al quindicesimo anno. Ed in questo luogo non voglio lasciare di far menzione del vino biblino, la cui vite dall’antichissima Italia fu introdotta in Sicilia. Ateneo, recando varie opinioni dell’origine di tal nome biblino, si attiene da ultimo alla narrazione che ne fa il reggino Ippia. Sentiamo dunque Ateneo: «Hippius Rheginus, quam vitem [testo greco], idest tortuosam dicebant, bibliam vocatam fuisse tradit, eamque argivum Pollin, qui regnavit Syracusis, primum ex Italia Syracusas invexisse. Quaroobrem quod dolce vinum Siculi Pollium nuncupant, biblinum fuerit. Al che aggiunge il Mazzocchi: Italia illa ex qua vitis biblia Syracusas traslata fuit, non alia quam Italia vetustissima erat».


§. III. Alleanza de’ Reggini cogli Ateniesi. ― Tra i marmi che Lord Elgin trasportò dalla Grecia in Inghilterra, ve n’è uno dove è incisa, come assicura l’Osann (Sylloge graecarum inscriptionum) la formola di que[p. 307 modifica]st’alleanza, ch’era antica, e che apparisce rinnovata e riconfermata, in occasione della nuova guerra, nel quarto anno dell’olimp. 86a.

Reggini ed Ateniesi contro Sfatteria. — Per qual cagione gli Ateniesi ed i Reggini fossero allora, come dice Diodoro, in guerra cogli abitanti di Sfatteria, isola posta sulle coste della Messenia, non ci è chiarito nè dal medesimo storico, nè da alcun altro. Può supporsi nondimeno essere stato questo un tentativo di diversione contro gli Spartani, i quali avevano dominio in quella parte della Grecia.


§. VIII. Pritani ed Arconti. — Da’ nostri marmi apparisce che nei tempi posteriori all’espulsione de’ figli di Anassila II, il supremo magistrato era tenuto da quattro Arconti Eponimi quinquennali, e gli altri uffizii più eminenti da’ Pritani e Simpritani o Compritani, alla guisa ateniese. Il Pritaneo, oltre che serviva a’ consigli della repubblica, era ancora il luogo sacro, dove celebravasi il culto di Vesta, e n’erano sacerdoti gli stessi Pritani.

V’erano poi addetti a’ sacri riti i Geroscopi (Haruspices); il Gerosalpiste (Victimarius); i Gerocérici (Sacri Praecones); il Geroparette (qui ex victimae partibus eas Pontifici exhiberet, quae sacrae erant et litandae); il Geraule (quicumque in sacris tibiis concinebat); ed il Capnauge, qui, secondo il Morisani, «inspiciebat fumum emergentem ab oblatis victimae partibus, quas farina farris involutas Sacerdos aris impositas foculo incenso comburebat: quod proprie litare dicebatur. Fumus autem vanis gentilium observationibns erat futurorum index».

Era ancora in Reggio il Sinodo de’ Dionisiaci, sorta di musici atleti, i quali ne’ ludi musicali, specialmente nelle dionisiache o feste di Bacco, istituivano delle lotte ginnastiche in onore di questo Nume.


CAPO QUARTO. §. X. Pitone. — Nel raccontar la fine di Pitone io mi attenni a Diodoro Siculo, perchè mi sembrò aver egli potuto meglio che altri conoscere i fatti dell’assedio di Reggio. Filostrato al contrario riferisce che Pitone espulso da Reggio in tempi di fazioni civili si fosse rifuggito a Dionisio tiranno di Siracusa. Presso cui trovandosi in maggiore onore e dimestichezza che sia stata mai solita in un esule, carpì i consigli del tiranno, e seppe come questi si maneggiasse di farsi signore di Reggio. Fece quindi note a’ suoi concittadini queste cose per mezzo di segreta lettera. Ma Dionisio, avutone spia, se ne vendicò poi sospendendo vivo Pitone ad una delle macchine dirette contro le mura della patria sua; affinchè i Reggini, presi di commiserazione del loro concittadino, si astenessero di trarre contro quella macchina co’ loro dardi. Ma costui gridando li esortò che tirassero pure, ed il considerassero posto ivi come segnale della loro libertà.


CAPO SESTO. §. III. I Siracusani contro Reggio. — Sappiamo da un frammento di Diodoro Siculo che fra questi tempi Eraclide e Sosistrato, che tenevano il governo di Siracusa, avessero condotte le armi Siracusane contro Reggio. Ma essendosi perduto quel libro della «Biblioteca storica» di Diodoro, dove veniva trattata per disteso la storia di Sicilia e d’Italia dalla morte di Timoleone alla tirannide di Agatocle, nè rimasto essendoci altro scrittore antico che possa supplire questo vuoto, quel periodo di storia nostra rimane interamente sconosciuto. [p. 308 modifica]

CAPO SETTIMO. §. III. Decio Giubellio. — Che Decio Giubellio abbia eccitato a ribellione il presidio romano di Reggio in grazia di Pirro si raccoglie assai bene da un frammento di Diodoro Siculo. Que’ libri di questo scrittore, dove si narravano di proposito le guerre di Pirro in Italia, sono anche essi tra’ perduti. Da un altro frammento del medesimo Diodoro apparisce che Pirro fu due volte in Sicilia.

Tra i frammenti poi di Dionigi Alicarnasseo, scoperti e pubblicati dal dottissimo Mai, ve ne ha uno che dilucida a sufficienza questi fatti della Legione Campana in Reggio.


§. VIII. Fabrizio. — Non debbo qui tacere quel che dice Appiano, dopo aver narrato il caso di Decio Giubellio: — «Quindi Fabrizio, inviato dai Romani in Reggio, a rassettar l’antico ordine di cose, restituì la città ai Reggini che ancor rimanevano, ed i soldati della Legione inviò a Roma; i quali furono vergheggiati in mezzo del Foro, e fu loro tronca la testa, e negata anche sepoltura a’ loro cadaveri». — Dopo torna a parlare di Decio e si vede bene che confonde i tempi. E pare che scambii per errore il nome di Genuzio con quello di Fabrizio. O potrebbe stare che l’uno e l’altro fossero venuti ad un tempo in Reggio a riordinar la cosa pubblica dopo il riacquisto della città. Allora questi dovette essere il secondo Fabrizio Luscino che fu Console nell’anno di Roma 476.


§. X. Cenide. — Il Mazzocchi (Diatriba I de Magna Grecia) facendo cenno del promontorio Caenys, aggiunge in nota: «Caenyos istius non meminissem, nisi huc referendum suspicarer meum fabricae pervetustae nummum, in cujus una parte est Pegasus volans, in altera equns effrenis, cui subscribitur KAINON, antique, utopinor, pro Καινων. Nam casu patrio efferri in his nummis populi solent. Extat ejus nummi typus in Paruta Havercampi editus, tum tab. 66, num. 83, 84, tum etiam tab. 72 num. 166. Quem ne autem populum hoc numismate designari augurabimur, nisi Caenos Thraciae? de quibus videndus est Stephanus, et quos ibi citat Berkelius. Id quidem non improbo. Sed tamen cum is nummus in his nostris regionibus haud raro compareat, magis est ut suspicer Caenyn promontorium oppido ejusdem, aut conjugati nominis non caruisse, ad hos vero oppidanos hunc nummum esse referendum.

Leucopetra. — Da una lettera di Cicerone ad Attico rileviamo che anche il Capo Leuca era chiamato Leucopetra presso gli antichi; onde lo stesso Cicerone per distinguerlo dal nostro, il dinota coll’aggiunto di Leucopetra Tarentinorum.

Saltus Reginorum. — Di questa sacra Selva de’ Reggini fa menzione il Pontano (Hortorum, lib. II.)

          Est nemus extremis Calabrum inviolabile terris,
          Diis sacrum patriis, multa et pietate verendum.