Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro primo/Capo quarto

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CAPO QUARTO

(Dall’Olimp. XCII alla XCVIII. 2.)

I. Dionisio, tiranno di Siracusa. La Repubblica di Reggio gli muove guerra. II. A’ Reggini si congiungono i Messenii contro Dionisio. III. Dionisio chiede a’ Reggini per moglie una loro concittadina, e gli è negata. Contrae nozze colla locrese Doride. IV. Si adopera a cacciar di Sicilia i Cartaginesi. Occupa Messena. 1 Reggini temano di contrastargliene il possesso; ma invano. V. Assalta Reggio, ma n’è ributtato. Tregua tra i Reggini e Dionisio. Lega degl’Italioti contro di lui. VI. Dionisio ritorna contro Reggio, battaglia dell’Artemisio. VII. Pugna tra i Lucani ed i Turii. VIII. Dionisio va contro Caulonia. IX. Raltaglia dell’Elleporo. Dionisio affatica i Reggini. X. Espugna Ipponio; rinnova le ostilità contro Reggio; la quale si appresta ad una vigorosa resistenza. Eccidio di Reggio. Morte tragica di Pilone.


I. Quando nessuno pensava, che in Siracusa potesse correre alcun risico la pubblica libertà, (Olimp. 93, 4. av. Cr. 405.) un suo privato, e ricco cittadino, recando a propria utilità la confidenza in lui collocata dai suoi compatrioti, ridusse la patria in servitù, e se ne fece tiranno. Questi era Dionisio, la cui malvagia potenza quanto abbia sbigottito le libere città di Sicilia e della Magna Grecia, è assai manifesto. Ma Reggio, come vedremo, fra tutte le repubbliche degl’Italioti è stata principalmente posta segno ai colpi del tiranno di Siracusa, a cui però contrastette lungamente con indomito coraggio.

Accortisi i Siracusani che Dionisio, il quale sopra ogni civil costume viveva già a uso di principe, studiava ogni via di mutar in tirannide lo stato, ordirono parecchie congiure a torgli la vita. Ma i loro tentativi, tornati sempre infruttuosi, non valsero che ad affrettare la perdita della loro libertà, ed a consolidare nelle mani di lui la temuta signoria. Contro il quale furono i Siracusani appoggiati da varii popoli di Sicilia, e massime da’ Messeni. Nè i Reggini, che per la loro prossimità e comunanza di origine erano affratellati co’ Messeni, negarono i loro ajuti a’ Siracusani. Queste due repubbliche di Reggio e di Messena spedirono non meno di ottanta triremi in ausilio de’ Siracusani, ed a repressione di un ambizioso cittadino, che minacciava le comuni libertà.

Dionisio fu condotto a tali angustie che si teneva spacciato, (Olimp. 95, 1. av. Cr. 400.) ma negli estremi cimenti avuta propizia la fortuna, non ebbe più ostacoli nella via del potere, e si usurpò di viva forza lo stato. E quanto la sua potenza cresceva sem[p. 25 modifica]pre un dì più che l’altro, tanto di pari guisa cresceva il timore nelle vicine repubbliche italiote, le quali già vedevano che Dionisio andava dilatando con incontrastato successo il suo dominio su molte altre città di Sicilia. Quelli, che più de’ suoi progressi si adombravano, erano i Reggini, i quali conoscevano come Nasso e Catana gli fossero già cadute in potestà. E mettevano biette contro Dionisio i fuorusciti Siracusani, che per cessare l’oppressione di lui si erano ricoverati in gran numero nelle città di Reggio e di Messena. Parve dunque previdente consiglio a’ Reggini muover guerra al tiranno, prima ch’egli si assodasse nell’usurpato dominio. E se le altre repubbliche della Magna Grecia avessero saputo di buon’ora avvertire alla comun salute, non avrebbero in quella prova lasciati soli i Reggini. Ma le gare municipali, le intestine discordie, e le dubbiezze che sono così connaturate a’ reggimenti popolari, vietarono che le comuni forze fossero a tempo congiunte e dirette contro Dionisio. Al contrario le male arti di costui seppero smuovere ne’ Sicilioti ed Italioti l’antica ruggine dell’origine diversa, incitando le città calcidesi o acaiche contro le doriche; ruggine che pareva tolta interamente dopo la cacciata degli Ateniesi: a’ quali da tali divisioni era venuto tanto frutto nella loro prima andata in Sicilia.

II. Davano animo all’impresa contro Dionisio i rifuggiti Siracusani ch’erano in Reggio; e parlando di Dionisio non si stancavano di accertare che tutti i loro concittadini non altro aspettassero per rovinare il tiranno, che un’opportuna occasione. Laonde i capitani Reggini, eletti a condurre l’impresa, misero in pronto mille seicento pedoni, seicento cavalli, e cinquanta galee. Le schiere reggine passato lo stretto si congiunsero a’ Messeni; de’ quali già quattromila fanti, e quattrocento cavalli con trenta triremi eran presti a prender le mosse per Siracusa. Ma quando meno sel pensavano, una grave sedizione scoppiò nelle file messene, fomentata da un discorso del messeno Laomedonte, il quale guadagnato a prezzo da Dionisio, avevagli promesso di trovar modo che quell’impresa andasse a monte. Nè venne manco al suo impegno; perciocchè con astuti suggerimenti distolse i Messeni dal pigliar guerra con Dionisio, dal quale, e’ diceva, nessuna ingiuria ricevuto avevano. E sosteneva come anzi le provocazioni loro avrebbero irritato il tiranno, e spintolo a ributtare le offese con ogni sua possa. E le milizie messene, agevolmente aggirate dalle parole di Laomedonte, rifiutaronsi di procedere contro Dionisio, ad onta delle rampogne de’ lor capitani; anzi abbandonale le file e dispregiato il comando, si trassero senza più alle lor case. Allora i Reggini, diffidandosi di bastar soli alla [p. 26 modifica]guerra, dopo la defezione de’ Messeni, anche essi si ritirarono in Reggio. E così pur fece Dionisio, che era già su’ confini del territorio messeno, dove aspettava i nemici. (Olimp. 95, 2. av. Cr. 399.) In seguilo di che furono sopiti i mali umori, e tra Reggio e Messena da una parte con Dionisio dall’altra si venne ad una riconciliazione, alla quale il tiranno, travagliato in quel tempo dalle armi de’ Cartaginesi, non fe stima negarsi.

III. Le incursioni de’ Cartaginesi erano incessanti e molestissime; e Dionisio vedendosi in questo frangente, non solo cercava cattivarsi il favore delle altre città di Sicilia, ma aveva altresì praticato che le repubbliche della Magna Grecia lo ajutassero a spazzar lo straniero. E siccome vide che i Reggini ed i Messeni avevano un ragguardevole ed agguerrito esercito, temendo non costoro se la intendessero co’ Cartaginesi contro di lui, cercò di stringersi con durevoli legami alla loro amicizia. A quale effetto a que’ di Messena liberalmente cedette un vasto tratto di terreno verso il confine, perchè per gratitudine non gli fossero avversi. E mandò dicendo a’ Reggini ch'egli (uccisagli nella guerra civile la prima moglie, figliuola che fu di Ermocrate) per dimostrar loro la sua benevolenza, desiderava menar a moglie una loro nobile e virtuosa donzella. Di che in retribuzione prometteva di adoperarsi a tutt’uomo al massimo incremento della loro repubblica. E qui cade in acconcio di dire che Dionisio prima di chiedere una moglie reggina, aveva domandato privatamente al locrese Aristide, amico di Platone, una delle sue figliuole, ma Aristide gli aveva risposto: Io amerei meglio veder morta questa fanciulla che darla sposa a un tiranno. I Reggini però convocatisi in general consiglio, dopo lunghe consulte sulla richiesta di Dionisio, presero di ricusarsi a questo parentado come pericoloso alla loro indipendenza, e risposero al tiranno non avere per lui altra vergine, che la figliuola del littore. Dionisio allora, lasciando al tempo opportuno la vendetta dell’onta fattagli col superbo rifiuto, mandò egual proposta a’ Locresi. E costoro, (ricordevoli della vecchia guerra lor mossa da Anassila, e della nuova colleganza già contratta a’ loro danni tra i Reggini e gli Ateniesi) lietamente si porsero a’ desiderii di lui, e gli proffersero per moglie Doride, figliuola di Senèto, chiarissimo sopra ogni altro cittadino di Locri.

Venuto il dì delle nozze, Dionisio spedì a Locri una delle quinqueremi ultimamente costrutte, tutta messa a bellissimi ornamenti di argento e d'oro, sulla quale adagiatasi la fortunata cittadina di Locri fu recata in Siracusa nello splendido palagio, addobbato a uso di re. (Olimp. 95, 3. av. Cr. 398.) Non mi par da tacere però [p. 27 modifica]come in quel dì medesimo avesse il tiranno sposato ancora Aristomaca figliuola d’Ipparino, nobile siracusano, e sorella del virtuoso Dione. La quale fu menata alle regie stanze con elegante traino di quadrighe, a cui erano appajati bianchi cavalli.

IV. Ma la dimora de’ Cartaginesi in Sicilia, tanto insopportabile a Dionisio perchè vedeva in costoro una permanente minaccia alla sua sicurezza, gli concitò l’animo ad operar con risoluta energia per cacciarneli prima che, raffermatisi, si rendessero via più potenti e formidabili. Ed in ciò venne a maraviglia condisceso ed ajutato non pure da’ Siracusani, ma bensì da’ rimanenti Sicilioti e da’ Siculi, i quali sebbene forte odiassero la violenta dominazione di lui, con tutta lena concorrevano a far la guerra a’ Cartaginesi, i quali non che oppressori, erano crudelissimi. Perilchè avendo Dionisio preparato quanto era mestieri alla guerra, si affrettò di spedir messi a Cartagine, i quali in nome del popolo siciliano le intimassero la guerra, qualora non fossero restituite alla loro prima libertà le città dell’isola da’ Cartaginesi soggiogate. E la guerra fu fatta con egregio valore da Dionisio; e dopo tante sanguinose vicissitudini che fecero incorrere negli ultimi danni le cose di Sicilia, dopo le feroci incursioni del cartaginese Imilcone, che diede tanti trapazzi a Dionisio, e rase Messena, i Cartaginesi furono alla fine sbaragliati compiutamente, e la Sicilia liberata dalla loro barbara oppressione. Allora potette il tiranno comporre le cose a suo modo, e tuttochè i Siracusani, dopo levatisi dall’oppressione straniera, abbiano operato ogni mezzo per torsi ancora dal collo il domestico giogo, ciò non partorì loro frutto alcuno, e Dionisio diventò potentissimo. (Olimp. 96, 1. av. Cr. 396.). Non più impigliato nella guerra forestiera, venne signore quasi assoluto delle più grandi città di Sicilia, e della stessa Messena, la quale distrutta da Imilcone, fu da Dionisio occupata, e munita sotto pretesto di difenderla da’ nemici affricani. Allora rivolse il tiranno tutti i suoi pensieri verso le repubbliche della Magna Grecia per farsele amiche e poi soggette.

I Reggini in questo mezzo esclamavano a Dionisio, che ritenendo egli Messena e fortificandola, minacciasse così da presso la sicurezza della loro repubblica. Nè senza ragione avevano a paventare di lui; perciocchè oltre di avergli negato per moglie una loro concittadina, si erano fatti ricettatori e fautori di quanti o Dionisio aveva banditi, o fuggiti erano dalle sue persecuzioni. Oltre di che a quelli ch’erano scampati dalle ruine di Nasso e di Catana avevano dato ricovero in Mila, ch’era da loro presidiata. Or volendo reprimere il minaccioso contegno del tiranno, i Reggini pigliarono il [p. 28 modifica]partito di contrastargli il possesso di Messena; a qual uopo vi spedirono con buon esercito Elori (esule siracusano) ad assediar la città. Ma in quella che Elori batteva la rocca, molte nuove schiere giungevano da Siracusa a soccorrerla; di che preso animo gli assediati sortirono all’improvviso ad affrontare gli assalitori, i quali colti a tergo ed a’ fianchi dalle sopravvenienti forze nemiche, restarono presi in mezzo. E dopo essersi sostenuti buon pezzo, finalmente furono rotti, e più di cinquecento rimasero uccisi. (Olimp. 96, 3. av. Cr. 394.). Dopo tale vittoria i soldati di Dionisio corsero senza indugio a Mila, ed oppugnatala, la ebbero senza troppi contrasti: poichè non era tale il presidio reggino che potesse far durevole resistenza. A’ Nassii, ch’ivi avevano asilo, fu dato spazio di partirsi senza molestia; e quegl’infelici, cui la trista fortuna sbatteva di luogo in luogo, gittaronsi ad accattare ricovero chi presso i Siculi, chi presso que’ Sicilioti, su’ quali non aveva ancor possa la tirannide.

Dionisio vittorioso non tralasciò di usare lo scherno contro i Reggini. Per suo comando Sofrone, poeta comico, rappresentò questo popolo sulla scena come pusillanime e codardo; donde venne il proverbio: Timido come un Reggino. Con pari villania furono i Reggini additati col soprannome di lepri; per giocosa e travisata allusione al lepre, inciso sulle loro monete al tempo di Anassila. E sulla scena il prestigiatore Ninfiodoro fece pubblica beffe della timidità de’ Reggini. Ma tosto queste ingiurie dovevano ritornare in capo al tiranno, il quale preparò di rimando una spedizione contro Reggio. Ma sapendo che i Siculi, i quali occupato aveano Tauromenio, maneggiavansi contro di lui, si avvisò di correr prima addosso a costoro. Furono però i suoi respinti con molta perdita, ed e’ medesimo potette con gran difficoltà salvar la persona, lasciando a’ nemici la propria armatura. Il che come fu palese agli Agrigentini ed a’ Messeni, espulsero dalle loro città i presidii di Dionisio; e lacerando i trattati ch'egli aveva loro imposto, riassunsero lo stato libero. Ma ivi a non molto ricaddero in peggior servitù.

V. Nell’anno appresso Dionisio, (Olimp. 96, 4. av. Cr. 393.), ricuperata prima Messena, attese a disfarsi di Magone, capitano cartaginese, che rimaso nelle montagne di Sicilia dopo la rotta dei suoi, cercava di sollevarne la fortuna, facendosi partito di tutti quei Siculi a cui la tirannide era grave. Dopo questo mise tutto il suo studio a prostrare la Repubblica di Reggio, che gli era così pericolosa vicina. E con cento triremi venne sopra questa città, ed assaltandola impetuoso, gli venne fatto di ficcar fuoco alle porte, e [p. 29 modifica]di principiar la scalata delle mura. In quel subito pochi degli abitanti accorsero rinfusi a respingere il nemico, ed a smorzare l’incendio. Ma sopravvenuto Elori in sul buono, e dato ordine ed effetto a quanto aveva a farsi, la città fu salvata. Imperciocchè li esortò che in vece di affaticarsi a spegner le fiamme, dovessero anzi alimentarle con ogni genere di combustibile che loro venisse alle mani. Frapporrebbero così indugio ed ostacolo all’ingresso del nemico; ed intanto darebbero spazio alla moltitudine de’ cittadini di affrettarsi al soccorso. E questo soccorso fu di tal forza e celerità che Dionisio si vide astretto a toglier l’assalto: e fallitogli per allora il concepito divisamento, e’ si gittò alla preda per la campagna reggina, guastandone gli abitati ed i colti. Poi conclusa tregua per un anno si ricondusse co’ suoi a Siracusa.

Intanto gl’Italioti, commossi dal fatto di Reggio, ed avvedutisi che la cupidigia d’impero spingeva Dionisio sino a’ loro confini, si radunarono a general consiglio in Crotone, dove presero di stringersi in lega offensiva e difensiva, e fecero quante provvisioni stimarono più atte a far fronte a Dionisio, ed a’ Lucani che si erano con lui collegati. Contro Dionisio si strinsero coi Reggini i Crotoniati, i Turii, i Cauloniati, i Metapontini, i Tempsani, gli <span class="errata" title="Eracleoti">Eracleoti, i Tarentini, e così via via. I Turii misero in punto un esercito di circa sedicimila uomini. Locri non era in questa federazione, nè poteva esserlo, ella che già fatta ancella di Dionisio, davasi tutta piacente alle costui voglie. Uno de’ principali patti del trattato era che se Dionisio o i Lucani corressero ostilmente il territorio di alcune delle repubbliche contraenti, tutte dovessero concorrere alla difesa di quella; ed ove a un bisogno taluna non si trovasse pronta alle armi, i capitani suoi, rei di tal colpa, avessero pena la testa.

Ma il male incurabile degli ordinamenti democratici sta nel difetto dell’unità del comando e dell’accordo de’ consigli; anzi la libera discussione de’ pubblici affari, che assai spesso degenera in funesta e scandalosa licenza, vieta che in tempi difficili si piglino risolutamente que’ partiti, che sono meglio accomodati alla pubblica salvezza. La quale consiste al tutto nell’ardito sperimento delle forti opere, e non nelle virulente contumelie di faziosi o compri oratori, che concitando le passioni del popolo mettono le città in contenzioni e in subugli, e fanno che si deliberi a uso di setta e per gara di uffizii, non per maturità di consiglio ed a pubblico benefizio. E questo difetto di accordo, e di opera fu cagione massima della rovina delle Repubbliche della Magna Grecia, a petto delle spicciolate [p. 30 modifica]sì, ma pertinaci, continue e risolute conquiste di Dionisio da una Banda, e de’ Lucani dall’altra.

VI. Reggio intanto non cessava di turbare i sonni al tiranno, il quale, anelando già da lunga pezza al totale dominio dell’isola, e delle città italiote, reputava non poterne attinger la meta se innanzi tratto non riducesse a sua devozione i Reggini, la cui città era la chiave di tutta la Magna Grecia. Aveva egli allora ventimila fanti, mille cavalli, e centoventi navi. De’ quali fatta passare gran parte su’ termini della repubblica di Locri, indi prese via pel territorio di Reggio, mettendolo a sacco ed a fuoco, e le sue schiere protette dalla flotta che a tal uopo navigava rasente il lido, fecero massa presso il promontorio Reggino. Gl’Italioti, avendo avviso della ritornata di Dionisio contra Reggio, fecero immediate salpar da Crotone sessanta navi perchè porgessero efficace ajuto a quella minacciata città. Ma Dionisio, mentre l’ armata nemica era tuttavia in alto mare, le uscì a riscontro con cinquanta de’ suoi legni: e sebbene quella, a tant’urto non apparecchiata, fosse sollecita di gittarsi alla riva, non lungi dalla città, sul promontorio Artemisio, la strinse però di maniera che afferratine i legni già a terra, ne li trascinava a sè a viva forza. (Olimp. 97, 1. av. Cr. 392.). E quasi che tutti erano per venire in balia di Dionisio, quando fattosi il rumor grande, accorsevi a fretta una gran moltitudine di Reggini; i quali menatisi nella mischia riversarono sì fitta tempesta di dardi sul nemico che il costrinsero a lasciar le navi predate ed a farsi lungi dal lido. Nè s’indugiarono i Reggini a trarre que’ legni nel porto per cansarli dalle ondate del mare, che già terribilmente fortuneggiava, e li avrebbe rotti e affondati.

In questo fatto d’armi che pure fu operato da tutte e due le parti con pari valore, Dionisio perdè sette navi, e lasciò sul lido reggino non meno di mille cinquecento tra morti e prigionieri. Ed egli medesimo, fuggendo sopra una quinquereme, poco andò che non affogasse in mare, ed a stento potè ridursi, al calar della notte, nel porto di Messena. Approssimandosi poi l’inverno ritornò in Siracusa; e riconfermò l’alleanza co’ Lucani. Questa alleanza aveva lo scopo di farsi spalla nelle reciproche imprese, e d’impedire alle altre repubbliche italiote che, occupate degli assalti de’ Lucani, potessero dare aita a’ Reggini.

VII. Non molto dopo che le dette cose accadevano a vista di Reggio, i Lucani erano azzuffati co’ Turii sulle rive del Lao; i quali ultimi, comunque soccorsi da’ confederati, avendo voluto con soverchia temerità mettersi per certe scoscese gole del suolo nemico [p. 31 modifica]per inseguire i Lucani che davano vista di arretrarsi, furono presi in mezzo e tagliati a pezzi. E quelli ch’ebbero agio a fuggire si raccolsero sopra un poggiuolo prossimo al mare. Donde vedendo veleggiare ivi presso alcune triremi, e stimando fossero i Reggini, cui aspettavano in loro ajuto, si gittarono in mare a fiaccacollo, affannandosi di nuotare a quella volta. Ma esse erano siracusane, con le quali Lèptine per commissione di Dionisio conduceva ajuti a’ Lucani. Ora costui, commiserando la sorte di quegli sfortunati, li ripose in terra, e con tanta umanità intercedette a lor favore, che i Lucani, messa giù ogni ostilità, si accordarono co’ Turii.

I Lucani ed i Brettii, di antichissima origine italica, a cui andarono sempre rifuggendosi quegli Itali che il distendersi delle colonie greche cacciava dalle marine, volentieri si erano associati con Dionisio contro gl’Italioti, ch’erano considerati come gente straniera venuta ad occupar la terra italiana. E gl’Italioti al contrario, d’indole più mite ed ammodata, loro infusa dall’origine greca, male si affacevano all’impetuosa energia di quegl’Itali, e li chiamavano barbari. Dionisio, che in fatto di astuzia valeva tant’oro, seppe e potè tener viva in que’ popoli questa naturale avversione, e valersi dell’uno a combatter l’altro. Ma finalmente i Lucani facendo senno si avvidero che osteggiando gl’Italioti non facevano che servire il tiranno. Ond’è che con gran sorpresa di lui, questi due popoli si rappaciarono, quando e’ meno sel pensava. Non è quindi a stupirsi se la generosa azione di Leptine abbia fatto fastidio a Dionisio, il quale voleva, che la guerra tra quelle genti non avesse mai fine, per aver agevolezza alle meditate conquiste. E Leptine fu rivocato dal comando dell’armata, e posto in suo luogo Teàride.

VIII. Deliberatosi alfine Dionisio nell’anno appresso di non ritardar più oltre l’impresa d’Italia, mosse da Siracusa con una forza di meglio, che ventimila fanti, tremila cavalli, quaranta triremi, e con provvisioni in buon dato. Dopo cinque giorni di cammino giunto a Messena, ivi fece far posa alle truppe, e commise a Tearide, che colle navi si dirigesse per Lipari, dove stavano ancorate dieci navi de’ Reggini. Le quali prima, che avessero tempo di mettersi sulle difese, investite dal nemico ch’era quattro tanti, divennero sua facil preda con quanto v’era sopra di ciurma e di munizione. Fatto questo ritornò in Messena a Dionisio; (Olimp. 97, 3. av. Cr. 390.), il quale, consegnati i prigionieri nella rocca di quella città, tragittò lo Stretto con tutto l’esercito, ed andato per la diritta a Caulonia cominciò a batterla con ogni argomento di guerra. Come fu nota agl’Italioti la passata di Dionisio si avacciarono a respingerlo giusta [p. 32 modifica]i patii della loro alleanza. In Crotone a quel tempo, insigne città e popolosa, sedeva il Concilio nazionale della Magna Grecia. Fu preso adunque, che ivi facesse massa l’esercito de’ confederati, a cui era aggiunta una fortissima banda di fuorusciti Siracusani. Elori da Siracusa, che già da più tempo aveva la condotta generale delle schiera reggine, ed era uomo assai sperimentato nell’arte militare, e d’animo virile e nobilissimo, fu preposto al comando dell’esercito confederato, ed alla direzione della guerra. Costui adunque rassegnato in Crotone l’esercito e messolo in ordinanza, senza porre altra dimora lo difilò per Caulonia, avvisandosi, che il subito suo arrivo avrebbe sconcertato Dionisio ed indottolo, o ad abbandonare l’assalto della città, o a venire a giornata. Elori comandava in tutto ventimila pedoni, e circa duemila cavalli. Aveva già l'esercito confederato fatta gran parte del cammino, e mettevasi a campo presso l’Elleporo, o Elloro, che dir si voglia. Allora Dionisio, levatosi ratto dall’assedio di Caulonia diresse ogni sua forza contro ad Elori; il quale come per fare una ricognizione stava attendato lungi dal grosso del suo esercito con un eletto drappello di cinquecento dei più risoluti e valorosi; nè si guardava di niente.

IX. Era già notte allorchè Dionisio, avuto dalle sue spie che Elori era ivi a non molta distanza con poco riguardo, vi si andò avvicinando co’ suoi a rilento, e senza trar fiato: poi sul rompere dell’alba si avventò al nemico con tal impeto, che non gli concedette spazio a guardarsi da quell’urto. Onde Elori trovossi a duro partito; e nondimeno sostenne tanta furia con quel fior d’eletti, e mandò ordine al campo, che speditamente muovessero in suo ajuto. Nè mancarono gl’Italioti, udito il frangente in cui Elori versava di accorrere ove ferveva l’inegual tenzone. Ma a Dionisio in questo mezzo era venuto fatto di uccidere Elori, i cui bravi compagni, se sopraffatti dal numero quasi tutti gli caddero trafitti a’ fianchi, fecero però costar cara al nemico la loro morte. Nè fu difficile a Dionisio di rimaner vincitore del sopravvenuto esercito de’ confederati; i quali facendo pressa al soccorso del loro capitano, erano giunti trafelati in faccia al nemico. Non per questo s’invilirono gl'Italioti, e dettero dentro per molte ore a’ nemici, ma saputa la morte di Elori, si disanimarono e disordinarono, dandosi a fuga precipitosa.

Nella quale molti per la campagna caddero uccisi, e quanti poterono salvarsi si aggrupparono, non potendone altro, sopra un’erta montagnuola. Dove tenuti chiusi da Dionisio, attenuati dal caldo della stagione, e dal manco d’acqua e di viveri, chiesero di accordarsi; ma costui pretese, che gli si dessero a discrezione. Il che dap[p. 33 modifica]prima parve loro assai dura cosa, e contiouarono a tener fermo; ma alfine più che il coraggio potè la necessità della natura, e si arresero. Dionisio, impugnato un bastone, fu veduto percuotere il colle, e notare ad uno ad uno que’ miseri che ne scendevano; i quali sommarono a meglio che dieci migliaja. E tutti si aspettavano di esser trattati con ogni rigore; ma il tiranno si porse loro umanissimo, e senza pretender riscatto, rimise tutti in libertà. E questa forse fu la più commendevole azione che Dionisio avesse operato in sua vita. Ma la sua generosità provenne tutta da politico accorgimento, non da benignità naturale; perchè così comportandosi smorzò l’odio de’ suoi nemici, e li distrasse dall'ajutare i Reggini. Imperciocchè pose per patto capitale agl’Italioti che più non prendessero le armi contro di lui, e nella contesa tra sè ed i Reggini non s’impacciassero.

Dallo sciagurato successo di questa battaglia, che costava agl’Italioti tanta perdita di uomini e di credito, derivò loro uno spavento indicibile. La lega contro Dionisio si sciolse; ogni città badò in disparte al fatto suo; e fu lasciato tutto a’ Reggini il doloroso carico di far petto alle aggressioni, ormai inevitabili, del tiranno. Così Reggio sventuratissima si accorgeva non dovere sperar più salute che dalla sua stessa disperazione. Dionisio alla sua volta era diventato così formidabile che nulla valeva a resistergli. L’ora era giunta di farsi pagare lo scotto da quell’altero popolo che aveva osato negargli una moglie. Rinfrescato l’esercito dalle fatiche durate nella battaglia dell’Elleporo, prese la ferma determinazione di marciar contro Reggio, o a farla sua, o a disfarla. E chi può narrare in quali ambasce si vedessero allora condotti i Reggini, i quali abbattuti dalle fresche sciagure, nè ajuti avevano nè schiere atte a mettersi in forte contro sì potente ed irritato nemico? Prevedevano pur troppo che se la città cadeva in suo potere, avrebbela senza dubbio abbandonata al sacco, all’incendio, allo sterminio. Laonde si deliberarono di mandarlo pregando che fosse loro misericordioso, ed imponesse pure tali patti che non soverchiassero l’umana condizione. Dionisio loro mise un accatto di trecento talenti; e volle la risegna di tutte le loro navi, che erano settanta, e cento statichi dei più nobili cittadini; e poichè tutto questo dovette essergli conceduto, e’ ritornò a Caulonia, ed espugnatala, ne traspose i cittadini a Siracusa, e data loro cittadinanza, ordinò che per cinque anni godessero immunità di ogni pubblica gravezza. Caulonia fu rasa, e donato a’ Locresi il suo territorio.

X. Nell’anno, che segui, (Olimp. 97, 4. av. Cr. 389.) Dionisio [p. 34 modifica]ridusse in sua potestà Ipponio, ne trasferì gli abitanti in Siracusa, e mandata in terra la città ne cedette ancora il suolo a’ Locresi, i quali gongolavano di gioja a tanta squisita generosità. Nè tralasciava il tiranno di dimostrare a costoro in ogni maniera la sua gratitudine, come a buoni parenti; mentre contro i Reggini lo inviperivano atroci pensieri di vendetta. E ben si comprese da’ più avveduti che se nel passato anno si era in apparenza riconciliato, a ciò fu condotto dall’accorto disegno di toglier loro ogni forza navale, e di prendere il tempo a batter Caulonia ed Ipponio. Ben si avvisava d’altra parte che, privati i Reggini delle navi che loro avanzavano tuttavia, egli potrebbe più facilmente oppugnarli. E messosi agli alloggiamenti sul territorio reggino, andava cercando qualche decente pretesto per rinnovar la guerra contro Reggio. E cominciò da domandare a’ Reggini che, dovendo egli con sollecitudine apprestarsi ad un’impresa in Italia, volessero fornirlo delle necessarie vittuaglie, le quali poi avrebbe loro restituite, come tosto gli fossero pervenute da Siracusa. Della qual dimanda doppio era lo scopo nella mente di Dionisio; o i Reggini vi si prestavano, ed in tal caso quando si riducessero senza provvigioni, e’ li avrebbe stretti di assedio; o non vi si prestavano, ed ecco bell’e trovato l’appicco di romperla con loro. Ed i Reggini da principio somministrarono per più giorni a Dionisio quella maggior quantità di viveri che potettero; ma quando videro che il furbo, or con una or con un’altra scusa, nè levava il campo dalle vicinanze della città, nè faceva che da Siracusa venissero mai le provvigioni somministrategli, capita la malvagia intenzione di lui, soprastettero da mandargliene altre. Dionisio, com’era naturale, pigliò a sinistro il mutato consiglio dei Reggini, e si affrettò a restituir loro gli ostaggi. Si pose ad un tempo all’assedio della città, tribolandola senza intervallo con varie macchine di sterminata grandezza, e con tutto il suo sforzo. I Reggini, persuasi che dal solo loro coraggio potevano aver salute, si crearono capitano supremo Pitone, e date le armi a quanti cittadini vi erano abili, resero la città inespugnabile da tutti i lati, e valida ad una lunghissima difesa. Poi facendo continue e gagliarde sortite procuravano di metter fuoco alle nemiche macchine, e scaramucciando egregiamente avanti alle mura della città, operavano fatti valorosi; e mentre molti di loro cadevano, non picciolo era il numero de’ nemici che vi restavano uccisi. E lo stesso Dionisio, percosso nel calor della zuffa da una lanciata presso l’anguinaglia, poco stette che non vi lasciasse la vita, e non se ne guarì che a grandissimo stento. Erano risoluti i Reggini di difendere la loro libertà [p. 35 modifica]con ogni mezzo e potere sino agli estremi. Era risoluto Dionisio di tentar tutte le più gagliarde prove per impadronirsi di Reggio. Ma a tanta tempesta di armi contrapponevano i Reggini così ostinala resistenza che Dionisio, diffidandosi di aver la città per assalto, vi soprassedè, e tornò a metterla in assedio, sperando che finalmente si arrenderebbe per fame.

Erano in questo termine le cose quando, approssimandosi la celebrazione de’ giuochi olimpici, (Olimp. 98, 1. av. Cr. 388) Dionisio concorse a quella solennità con parecchie quadrighe sopra le altre velocissime, e fece fare a’ palchi ricchissimi addobbi, mettendo le scene ad oro, ed a drappi di mirabile e vaga fattura, con ricami di ogni maniera. Ed aggiunse rapsodi eccellenti, i quali recitando in pubblico poemi da lui composti (giacchè andava matto in far versi) venissero a dar gloria al suo nome. A Tearide suo fratello diede commissione di tutto questo, il quale come fu giunto alle panègiri, per la eleganza degli eretti palchi, e copia delle quadrighe, attirò a se tutti gli sguardi. Ma quando i rapsodi recitarono i versi, gli uditori, conosciutili cattivi e vani, sbeffeggiarono altamente Dionisio; e tanto valse il dispregio, che il popolo si lasciò correre a rompere ed atterrare que’ palchi. E l’orator Lisia, che era allora in Olimpia, si pose a stimolare la moltitudine di non ammettere al concorso di que’ giuochi sacri i Teori mandati da un tiranno, il quale aveva trascinate a rovina le più inclite città greche d’Italia e di Sicilia, ed ora cruciava a morte i Reggini, non di altro rei che di voler difendere la loro indipendenza. Le quali mortificazioni, fatte in Grecia a Dionisio, lungi dal piegargli l’animo a più miti consigli, mostra che sieno valute a maggiormente aizzarlo a’ danni di Reggio.

Questa città durava già con meravigliosa costanza ad undici mesi di assedio; nè si vedeva onde potesse venirle alcuna speranza di umano soccorso. Una estrema carestia di tutte le cose più necessarie alla vita, aveva condotto i cittadini in tanta miseria, che un medinno di frumento giunse a costar cinque mine. E pure non era tra loro chi parlasse di resa. I viveri erano mancati del tutto, e la fame mieteva orribilmente le vite degli uomini, a cui erano ultimo, e pur gradito cibo, i giumenti ed il lesso di lor cuoja; nè era parola di resa. Dionisio che pur seppe le ultime necessità in cui erano precipitati i Reggini, egli che tanto umano era divenuto co’ prigionieri Italioti, non si commosse a tanta sventura. Anzi faceva ogni forza di aggravarne i mali, mandando giumenti a pascer l’erba, che cresceva sotto le mura della città, a cui gli assediati si gitta[p. 36 modifica]vano come a vitto soavissimo. Ma i Reggini erano in tali sovrumani travagli che ogni ulteriore resistenza non era cosa da uomini. E potendo più del valore il digiuno, la città si lasciò ire alla discrezion del tiranno. (Olimp. 98, 2. av. Cr. 387.) E quando egli vi entrò pieno di matta gioja, non viventi si offersero alla sua vista, ma cadaveri ammonticchiati; e così debil filo di vitalità teneva i superstiti che non ad esseri umani si assomigliavano, ma a fantasime. Non vide che muraglie sfracellate, che case incenerite, che deserte ed insanguinate vie; non fiutò che il grave puzzo de’ cadaveri imputriditi ed insepolti; non sentì che i cupi e rantolosi gemiti di chi finiva di fame; nè tutta questa orribile scena ebbe potere di render pietoso il tiranno! Anzi compì la fiera opera, mettendo a ruba tutto il paese, e facendo suoi i preziosi arredi de’ tempii; a cui ne’ loro mortali dolori non avevano osato di metter mano gl’infelici Reggini. In una città ch’era in quel tempo sì popolosa non raccolse Dionisio che un settemila di quegli scheletri, i quali furono da lui avviati in Siracusa, con questo: che ciascun di loro potesse esser ricomperato a prezzo di una mina, e fossero posti a pubblico mercato quanti non potrebbero aver modo di riscatto.

Tra gl’ illustri prigionieri era Pitone, capitano dell’esercito reggino, ed un suo figliuolo. Per quest’ultimo ordinò Dionisio che fosse mazzerato; ordinò poi che Pitone fosse legato e sospeso ad un altissimo ordigno da guerra; e gli fece allora annunziare come il dì innanzi d’ordine suo gli era stato annegato il figliuolo. Al che Pitone rispose con dignitosa serenità: aver quel suo figliuolo ottenuto il premio de’ prodi un giorno prima di lui. Fecelo appresso prendere a’ suoi sgherri, e menar per le vie della città; e mentre che costoro lo flagellavano e svillaneggiavano con ogni fatta di ludibrii, ed il martirizzavano ferocemente, un banditore il precedeva gridando, doversi a Pitone così strano supplizio, per aver eccitata la città sua alla guerra. Questi strazii sosteneva il valoroso reggino con esemplare ed invitta costanza; ed esclamava in quegli estremi momenti, che gli si dava la morte per non aver voluto mancare al suo debito di ajutar la patria dal tiranno: a cui la Divinità però farebbe in breve portare la pena meritata per tanta scelleratezza. La sublime virtù di questo Eroe ormai prendeva di pietà i soldati stessi di Dionisio, ed una parte di loro era per sommuoversi, quando il tiranno, temendo non osassero strapparglielo di mano, ordinò l’uccidessero, ed a tutta la famiglia di lui fosse levata la vita.

Ma quanto in mezzo a’ tormenti fu benedetto il nome di Pitone che passava di questa vita, tanto fu maledetto quello di un esoso [p. 37 modifica]tiranno che trionfava sull’eccidio d’una repubblica innocente. La sventurata fine del virtuoso Reggino, che lasciava di sè fama perpetua e gloriosa, ebbe il compianto non della sola Italia, ma ancora della Grecia, ove parecchi poeti cantarono con mesti versi il caso compassionevole.