Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro primo/Capo terzo
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CAPO TERZO
(Dall’Olimp. LXXX alla XCI, 4.)
I. Repubblica. Gl’Imeresi in Reggio. Reggio repubblica torna a far parte delta Magna Grecia. II. I Pitagorici. Prosperità di Reggio. Glauco, musico e pittore. Edifizij pubblici. Tempii. Monete. Qualità naturali. III. Prima spedizione degli Ateniesi in Sicilia. I Reggini alleati agli Ateniesi. Fatti della guerra degli Ateniesi e Reggini coi Siracusani e Locresi. Assedio di Reggio. Battaglia dello Stretto. IV. Fatti di Nasso, di Mila, di Messena. V. Consiglio nazionale di Gela. Gli Ateniesi escono di Sicilia. VI. Seconda spedizione degli Ateniesi in Sicilia. Gli Ateniesi in Reggio. Apparecchi dei Sicilioti per respingere la nuova invasione. VII. Gli Ateniesi sono battuti, ed abbandonano per sempre la Sicilia. VIII. Concordia e civiltà degl’Italioti. Fiera di Crotone. Concilii nazionali. Tempii. Monete. Silace, pittore. Pritani ed Arconti.
I. Caduta in Reggio la tirannide, (Olimp. 8o, 2. av. Cr. 459.) i popolani non contenuti da alcun prevalente cittadino, trascorsero in tumulti, e precipitarono nell’anarchia. Onde tutta la città andata sossopra, ogni cosa fu piena di amniazzamenti, e di vicende dolorose. Sino a che il partito più debole, accattando esterni soccorsi, non chiamò ad intervenirvi dalla Sicilia gl’Imeresi, i quali restavano alleati a’ Reggini da’ tempi di Anassila e di Terillo. E gl’Imeresi volentieri vi accorsero, e cavando vantaggio dalle tribolazioni della città partita, sbandeggiarono da essa tutti i Reggini dell’una e dell’altra fazione, lasciandovi solo i moderati ed i neutri. Ed usurpandosi gli averi degli esuli, vi condussero da Imera le loro famiglie, e di ajutatori mutandosi in oppressori, consumarono un misfatto che non avrebbe osato alcun tiranno.
Nondimeno questa pubblica calamità, se per allora fu gravissima e fuori della opinione degli uomini, giovò poscia per indiretto a migliorar la repubblica. Imperciocchè distrutto colla forza il principio dissolvente ed anarchico, che aveva sostituito la licenza e lo scompiglio alla libertà ed all’ordine, e dato maggior polso al principio del potere e dell’autorità, senza di che nessun governo è durabile; Reggio fu riordinata a temperata repubblica, congiungendo acconciamente le pubbliche guarentigie del popolo coll’aristocrazia conservatrice e feconda dell’intelligenza e della ricchezza. Sedati gli animi, i fuorusciti Reggini furono rimpatriati, i partiti si confusero nel generoso pensiero di una patria comune; e Reggio rinvigorita nella sua nuova forma all’antica indipendenza, si agguagliò alla condizione delle finitime repubbliche. Le quali volentieri la raccettarono nel loro grembo, e permisero che tornasse a far parte della Magna Grecia.
II. E come a que’ tempi nelle dottrine pitagoriche, dirette alla pratica filosofia, ed a comporre sopra ragionevoli fondamenta gli statuti civili e politici, si esercitavano i più nobili, ricchi e dotti uomini, così per molto tempo nella repubblica di Reggio i supremi gradi furono conferiti a cittadini educati alla scuola Italica. Ed a costoro veramente è dovuto quell’ordinamento civile, e quel fruttuoso e solido progresso, la cui mercè tali repubbliche raggiunsero una virilità ed opulenza, che sembra favola a’ moderni. Ebbero allora agio i Reggini di attendere alle scienze, alle lettere, alle arti gentili, ed al commercio; e di stringersi in fraterna lega non solo colle repubbliche italiote e siciliote, ma ancora con quelle di Grecia. E vi gustarono i frutti di un viver riposato e di una civiltà, cui punto non perturbavano nè prepotenze e discordie domestiche, nè tirannidi o forestiere ingerenze. Tra i chiari Pitagorici che a que’ dì tennero il supremo magistrato della Repubblica sono da contarsi i reggini Aristocrate, Elicaone, Teereto, Teocle e Teeteto, i quali o nuove leggi vennero aggiungendo alle antiche, o le già date da Caronda modificarono, conforme era richiesto dall’esperienza e da’ tempi. E filosofo pitagorico fu pure il reggino Glauco, egregio musico e pittore che in questi tempi medesimi levò di sè molta fama.
Oltre a ciò ornavano la città nobilissimi edifizii pubblici e privati, ed egregie opere di pittura e di scoltura. Celebratissimi vi sorgevano i tempii di Giove, di Apollo Maggiore, di Apollo Minore, di Diana, di Venere, di Mercurio, di Castore e Polluce ed altrettali. De’ quali i più rinomati e venerati erano: quello di Apollo, che un’antichissima tradizione faceva fondato da Oreste; quello di Giove, che aveva massimo culto presso i primitivi Aurunci, i quali traevano da questo Dio la loro divina origine. Al cui culto allude mirabilmente un’antichissima moneta reggina di argento, ove le lettere si veggono scritte a uso degli Osci da destra a sinistra. In gran venerazione era presso i Reggini il tempio di Diana, la cui fondazione rimontava agli Aurunci ed agli Osci. Delle statue di marmo era principalmente famosa ed ammirata quella di Venere. Tra i pubblici monumenti si nominavano il Teatro, le Terme, la Zecca. Ed allora fu battuta in Reggio una gran quantità di quelle monete lodatissime di argento e di bronzo, che alludevano o al culto delle dette divinità, o a’ simboli della repubblica; e ci attestano ancora oggidì, come le arti belle e meccaniche fossero giunte a molta eccellenza. I lavori di plastica, e di stoviglie che nella Magna Grecia e nell’Etruria ebbero incremento e perfezione prima che in Grecia, erano io Reggio condotti con delicatezza e maestria, ed assai stimati presso gli antichi. Aggiungi a questo le bellezze eterne di un clima sano e temperato, le fertili e fruttuose campagne, i saporiti e ghiotti pasti dell’essormisto e del sifia, il desto, sottile, ed industrioso ingegno de’ cittadini, e ti sarà manifesto che niente mancava perchè Reggio fosse tra le più cospicue e splendide repubbliche delle genti italiote.
IV. Ma questa pace e prosperità inestimabile cominciava ad esser turbata dalle vicende della guerra; la quale avuto principio nel Peloponneso tra Spartani ed Ateniesi, si distese poi nella Sicilia, ed infierì sullo Stretto tra i Siracusani ed i Locresi da una parte, e dall’altra gli Ateniesi ed i Reggini. Questo nacque da che i Leontini, essendo in guerra coi Siracusani e non trovando sostegno negli altri Sicilioti, deliberarono di chiamare in loro soccorso gli Ateniesi. I quali ardendo già da gran pezza di avere qualche entratura in Sicilia, colsero il destro che offeriva la fortuna, e diedero facile udita all’invito che l'oratore Gorgia faceva loro in nome de’ Leontini. Risoluto l’intervento a pro de’ medesimi, la Repubblica di Atene maneggiò di tirar dalla sua altre repubbliche della stessa Sicilia e della Magna Grecia, per conseguire maggior successo all’impresa. Delle città Siciliote, quelle di origine acaica o calcidese che dir si voglia, fra le quali era importantissima Messena, si associarono agli Ateniesi: quelle poi di origine dorica tennero co’ Siracusani, a cui porse ajuti Sparta nemica di Atene. Camarina però, avvegnachè di dorica origine, volle unirsi agli Ateniesi. Delle città italiote, Locri stette co’ Siracusani, Reggio cogli Ateniesi e Leontini. Così Messena e Reggio erano nella stessa alleanza, ed agli Ateniesi rimaneva libera l’entrata per via di Messena in Sicilia, per via di Reggio nella Magna Grecia.
Atene spedì in Sicilia un’armata di cento navi e copiose truppe da sbarco; (Olimp. 88, 2. av. Cr. 427.) comandava Carèade l’armata, Làchete lo truppe. Gli Ateniesi posarono prima nel porto di Reggio, donde, uniti all’armata reggina di altre cento navi, presero dell’alto, e si diressero per Sicilia. Ma vi corsero incontro le armate siracusane e locresi, che incrociavano in quelle attenenze; ed in un conflitto a vista di Messena e di Reggio, che lasciò dubbioso il successo, Careade fu morto. Lachete allora si ricondusse a Reggio per riparar le navi sdrucite e rifornirsi del bisognevole, ed assunto il comando del navilio in luogo di Careade, sciolse di nuovo le vele ad una co’ Reggini, e s’indirizzarono contro le Isole Eolie ch’erano in lega co’ Siracusani; ma dopo devastatone il territorio, ne furono ributtati, e dovettero ritirarsi con grave lor perdita. Ma intanto che le flotte alleate di Atene e di Reggio operavano sulle coste di Sicilia, i Siracusani e parte delle milizie locresi tentavano per terra un colpo di mano sopra Messena; (Olimp. 88, 4. av. Cr. 425.) mentre ad un tempo altre bande di Locresi correvano sul territorio reggino, e minacciavano Reggio, per fare che l’una città, travagliandosi della difesa propria, non potesse badare al soccorso dell’altra. Messena, dopo lunghissima resistenza, cadde finalmente nelle mani dei Siracusani e de’ Locresi. Ed un forte presidio locrese fu messo nella città, e datone il comando a Demòtele.
I Siracusani si erano specialmente accalorati a questa impresa, perchè riguardavano Messena come la chiave della Sicilia; e portavano fondata opinione, che qualora gli Ateniesi ottenessero spazio di affortificarsi sulle due città dello Stretto, avrebbero minacciato con tutto lo sforzo per mare e per terra i possedimenti di Siracusa. I Locresi per contrario facevano furia in quel di Reggio, per l’odio immortale che nutrivano contro questa città sin da’ tempi che Anassila aveva cercato di soggiogarli. Eglino erano inoltre aizzati da que’ Reggini, che rifuggiti in tempo di discordie interne, dimoravano in Locri. Avevano spedito ancora i Locresi contro Reggio una parte del loro navile, prendendo profitto dell’assenza di una sezione delle armate ateniese e reggina, che allora erano alle prese cogli Sfatterioti. Speravano i Locresi, che aggiunto al possesso di Messena quello di Reggio, e fattisi per tal guisa arbitri dello Stretto, metterebbero gli Ateniesi in termini di non poter più sostenersi in quel mare. Ma già erano volate a Lachete le nuove del duplice assalto dato da’ nemici a Reggio e a Messena, ed ordinò che la sua armata corresse a tutte vele verso lo Stretto. Ma prima che questa vi giungesse, Pitodoro, per buona ventura de’ Reggini venendo da Atene a tenere il luogo di Careade, approdava in Reggio con un rinforzo di sedici navi; a cui faceva seguito una più considerevole armata condotta da Sofocle ed Eurimedonte. A quelle di Pitodoro si unirono otto navi reggine; e se il soccorso non fu a tempo di salvar Messena, impedì la dedizione di Reggio.
Trenta navi nemiche si approssimavano a Reggio minacciose; con queste si scontrarono le ventiquattro tra reggine ed ateniesi, che a difesa di Reggio stavano ordinate in battaglia fuori del porto. Pertinacissimo fu il combattimento navale, nè la notte il sospese; ma i Siracusani ed i Locresi furono sconfitti, e perdettero una delle più grosse navi: onde scornati si ritrassero nei porto di Messena. Vittoriosi gli Ateniesi ed i Reggini si condussero a Reggio, ove già erano a veduta Sofocle ed Eurimedonte colla nuova armata ateniese. Come ciò seppero i Locresi che da terra assediavano la città, e ne guastavano la contrada, si tolsero precipitosi dall’assedio, e ripassarono il confine.
IV. Ne’ seguenti giorni la flotta nemica, lasciando nel porto di Messena quelle navi che bisognavano a custodia della città, volse le prore al Peloro, ove era agli alloggiamenti l’esercito terrestre. Sopraggiuntevi le navi ateniesi e reggine, si diedero a tribolare il nemico nella sua stazione; ma questo in cambio ne ghermì una delle loro, la cui ciurma non potè altrimenti salvarsi che gittandosi a nuoto. Ciò veduto i Siracusani rimontarono su’ loro legni, e marina marina rifacevano la via di Messena. Gli Ateniesi in questo non rifinivano di bezzicarli per fianco, ed alla sfuggita, ma i Siracusani, non sopportando più innanzi la molestia, presero il mare, e sfidarono gli avversarii alla pugna. Nella quale gli Ateniesi perdettero un altro legno, ed i Siracusani senza averne alcuno scapito, rientrarono nel porto di Messena. Allora Lachete voltò le prore ateniesi e reggine contro Mila, paese che rispondeva a’ Messenii, ed era da loro presidiato. A’ nemici, che vi erano sbarcati, il presidio messenio tese un aguato, ma coloro se ne addiedero, e corsi sopra quello, ne uccisero più di mille, nè meno di seicento ne fecero prigionieri, ed obbligarono i difensori a cedere a patti la rocca. Da ivi parte dell’armata fu diretta ad infestare il litorale locrese, ed a tenere assediata Peripoli. Ai Locresi furono predate cinque navi; Peripoli fu espugnata da’ Reggini.
All’incontro i Siracusani ed i Locresi si spingevano una co’ Messeni a stringere per terra e per mare Nasso, che durava nella parte contraria, quantunque avessero in poter loro la rocca. Ed in quello stante parecchie navi reggine conducevansi a tenere in rispetto Camarina, dove una parte di cittadini brigava di dar la città a’ Siracusani. Nè Nasso avrebbe potuto così facilmente stare alla dura contro i nemici, se non fossero discesi da’ monti i Siculi in suo ajuto; di che i Nassii preso animo, fecero una vigorosa sortita, e scagliatisi a furia sopra i Messeni, ne ammazzarono oltre un migliajo: ed i rimanenti, mentre scompigliati si tiravano in fuga, furono cincischiati e sterminati da’ Siculi. Le quali triste nuove pervenute a Messena, molte altre bande di armati accorsero dalla città a difensione de’ loro. La costernazione in Messena era massima; di che sapendo giovarsi i nemici si accinsero a campeggiar la città con tutto lo sforzo. I Leontini, gli Ateniesi e loro alleati sicilioti battevano Messena da terra; la reggina ed ateniese armata la batteva per mare. I Messenii, operando una sortita improvvisa con parte del presidio locrese condotto da Demotele, colsero alla sprovveduta gli assedianti; dei quali gran parte andò in rotta ed in fuga, e moltissimi rimasero uccisi o presi. In questo dibattilo gli Ateniesi e Reggini, che stavano sulle navi, veduto il disastro de’ loro alleati, sbarcarono sollecitamente per ajutarli, e gittaronsi furiosi sopra i Messeni, a cui diedero la caccia sino alle porte della città. E dopo aver alzato un trofeo, ritornarono a Reggio.
V. Ma oggimai a’ Sicilioti era evidente che dal tormentarsi a vicenda loro non conseguitava altro che ruina e conquasso negli averi e nelle persone; (Olimp. 89, 1. av. Cr. 424.) mentre gl’invasori ateniesi andavansi preparando materia al dominio desiderato. Le prime città, che facessero senno, e praticassero di pacificarsi, furono Camarina e Gela, concludendo tra loro una tregua: e gli altri Sicilioti, imitandole, convocarono poi in Gela un Concilio nazionale, ove si ristrinsero commissarii di tutte le loro città, e di quelle della Magna Grecia, per trovar modo a concordia ed a conchiusione di pace. Nè lo scopo del congresso fallì; poichè il siracusano Ermocrate provò con sapiente eloquenza come gli Ateniesi, sotto colore di sovvenire i Leontini, ad altro non intendessero che a tener vive le guerre intestine, e nemiche e divise le città di Sicilia, per poterle signoreggiare una appresso dell’altra. Soggiunse come a comune salvezza fosse unico rimedio la pace: ed a conseguir questa, unico rimedio obbligar lo straniero ateniese a dileggiar di Sicilia. E la pace fu conchiusa; alla quale assentirono tutte le città siciliote ed italiote. Solo i Locresi negaronsi, non perchè la riprovassero, ma perchè, in odio a’ Reggini, avevano ritrosia di firmare un patto, a cui questi erano intervenuti. Dopo di che fu denunziato agli Ateniesi il trattato di Gela, e costoro invitati a riconoscerlo senza contrasto. E gli Ateniesi, non potendone altro, e vedendosi privi de’ loro alleati, fecero virtù della necessità, e quetamente si partirono. Ma tornati alla loro patria, Pitodoro e Sofocle furono da essa banditi, ed Eurimedonte punito in un’ammenda; perchè andò fama che avessero fatto l’abbandono della Sicilia, non per necessità, ma per viltà o per prezzo.
VI. Queste profonde piaghe delle guerre interne, che tanto detrimento avevano recato alle private e pubbliche fortune, erano sul rimarginarsi, quando una nuova tempesta suscitarono gli Ateniesi a subisso della Sicilia. Costoro non potevano darsi pace dell’aver dovuto partirsene, quando quest’isola pareva già caduta in poter loro inevitabilmente; e non restavano punto di prepararsi alle riscosse, con una seconda spedizione, che sortisse l’effetto, a cui era mancata la prima. Al, che porse cagione una sanguinosa zuffa levatasi tra gli Egestani ed i Selinuntini, nella quale i Siracusani presero favore pe’ secondi. Gli Ateniesi, tratti dall’ardita eloquenza di Alcibiade contro le ragionate opposizioni di Nicia, presero di ajutar Egesta; ed a tale intento spedirono in Sicilia un’armata di cento triremi con trenta altre avute dai loro alleati. Soprantendevano alla spedizione Alcibiade, Nicia, e Làmaco.
Partì l’ateniese navilio, (Olimp. 91, 1. av. Cr. 416.) e costeggiando la Japigia, si adoperava a guadagnarsi quel popolo bellicoso, ma non ne ottenne che alquanta gente a stipendio. Di là rasentando i lidi della Magna Grecia, non fu ricevuto da’ Tarentini, ma ebbe solamente due triremi, e trecento lanciatori da’ Metapontini; e settecento soldati di greve armatura, e trecento arcieri da’ Turii. E ciò perchè in Metaponto ed in Turio era avvenuta una recente rivolta popolare, in cui una parte, proclive agli Ateniesi, voleva svolgere i cittadini da’ patti di Gela; e per deferenza a tal parte furono dati a coloro i mentovati sussidii. Una porzione dell’esercito ateniese, sbarcando nel territorio di Turio, avviavasi per terra in quel di Crotone, ma questa città protestò, che sarebbe stato contro la volontà pubblica il passaggio di quell’esercito sul suo territorio. Allora gli Ateniesi rimbarcati, piegarono verso la marina di Locri, che loro non permise l’approdarvi, e proseguirono per mare sino a Reggio. Ivi fecero ressa a’ cittadini, antichi alleati, che loro si ricongiungessero in quel secondo cimento. (Olimp. 91, 2. av. Cr. 415.) Ma i Reggini, leali al trattato di Gela, risposero, che nulla far volevano senza prima intendersi cogli altri popoli italioti, co’ quali erano collegati. Solo permisero all’armata ateniese, che potesse prender terra fuori della città presso al tempio di Diana, ov’era il pubblico foro, con licenza di accomodarsi di tutto il bisognevole. Da Reggio gli Ateniesi mandarono loro confidenti in Sicilia colla commissione di procacciarsi alleanze contro i Siracusani, ma delle città siciliote parte si ricusarono recisamente, parte dando ambigue risposte volevano temporeggiare, per vedere intanto a che sarebbe riuscito tanto apparato di guerra. Certo è che agli Ateniesi fu questa volta assai malagevole il tentativo, perchè quasi nessuna di quelle città, che avevano giurato il trattato di Gela, si lasciò prendere alle artifiziose proposte.
Mentre che ciò avveniva, i Sicilioti al rumore della nuova impresa ateniese, avevano convocato in Siracusa un Consiglio, ove chi negava la spedizione, chi l’affemiava. Ermocrate la teneva indubitata, ed inanimiva i suoi concittadini ad apprestarsi con virile perseveranza per respingere un nemico che facendo le viste di soccorrere Egesta, mirava a manomettere la comune indipendenza, e ad aggravare il suo dominio su quelle bellissime ed invidiate contrade. Onde li esortava ad armarsi il più sollecitamente che potessero, ed a stringersi in formidabile alleanza co’ bellicosi Siculi, e cogl’Italioti. Ai quali premeva egualmente che la insolente cupidità degli Ateniesi fosse al tutto repressa, ed affogata nel loro sangue.
VII. Quando pervenne a Siracusa la certa notizia che la flotta ateniese era già nelle acque di Reggio, tutto con alacrità fu approntato ed ordinato a validissima e lunga resistenza. In Reggio i capitani ateniesi speculavano con accuratezza il tempo e luogo più accomodato ad attuare lo sbarco in Sicilia. Ed Alcibiade, passato sopra una nave a Messena, brigò, ma invano, di guadagnarsi l’alleanza di tal città; onde tornossene a Reggio. Ivi a pochi giorni gran parte dell’ateniese armata sciolse da Reggio, e direttasi per l’isola, prese terra in Nasso, e sbarcovvi le milizie senza punto di ostacolo. Da Nasso gli Ateniesi difilarono per Catana, dove entrarono favoriti dalle simpatie popolari. Di là pigliarono cammino per Siracusa, cercando di eccitarvi parti e tumulti, ma non vi ebbero favore. In tremende lotte si travagliarono allora i Siracusani e gli Ateniesi, di che non è mio uffizio narrare le vicende e gli effetti. Dico solamente che gli Ateniesi assai tardi si accorsero che non avevano più a combattere con un popolo diviso e discorde. Ed i Siracusani guerreggiarono con mirabile valore e fermezza, e malgrado i novelli ajuti che con settantatrè legni da Atene recavano Demostene ed Eurimedonte, gli Ateniesi furono prima respinti e squarciati nella gran battaglia navale commessa a vista di Siracusa, e poi senza pietà trucidati presso il fiume Assinare, mentre cercavano qualche via di salvarsi. Di sì compiuto successo i Siracusani resero merito al loro valoroso concittadino Ermocrate, ed allo spartano Gilippo. Settemila Ateniesi restarono prigionieri, e tra essi gl’illustri Nicia e Demostene; a cui, cosa indegna di civil popolo, fu tolta la vita. (Olimp. 91, 4. av. Cr. 413.)
Così misero termine ebbe la seconda spedizione ateniese in Sicilia!
VIII. Ma non avevan termine per questo i travagli dell’isola; poichè i Cartaginesi, a cui faceva gola questa contrada, non avevano punto cessato di darle fastidio da’ tempi di Gelone in qua. Mentre le repubbliche degl’Italioti, che tranne qualche dissidio interno gioivano di una profonda tranquillità, erano in ogni maniera di civiltà fiorentissime. Un’intima alleanza le teneva tra sè concordi ed unite, e perciò forti contro qualunque cupidigia straniera. Ogni anno in Crotone nel vestibolo del tempio di Giunone Lacinia celebravasi una fiera, ove era gran concorso di gente, non che d’Italia, di Sicilia, di altri stati finitimi, e fino della stessa repubblica di Cartagine. Era magnifico ed ammirabile quel tempio per le stupende pitture fattevi dall’eracleote Zeusi, le quali ancora duravano a’ tempi di Cicerone. I Concilii nazionali, dove si adunavano i delegati delle repubbliche Italiote, per trattare degli affari scambievoli, si tenevano in Eraclea, dopo che Sibari che n’era l’antica sede, scadde di potenza e d’impero.
Celebratissimo era in Locri il tempio di Proserpina, in Sibari quello di Giove Omorio, quello di Minerva in Metaponto, di Nettuno in Caulonia; di Apollo, di Diana, e di Mercurio in Reggio. E come Mercurio era tenuto protettore di tutte le città mercantili, ebbe culto e tempio quasi in ogni città marittima della Sicilia, e dell’Italia.
Veniva a que’ tempi coniata in Reggio una gran copia di quelle monete, che oggi conosciamo; delle quali moltissime, recando l’impronta della lira, del serpente, del tripode, dell’arco e faretra, come pure le teste laureate di Apollo e Diana, e de’ Dioscuri, e la persona intera di Mercurio, rendono testimonio quanto queste divinità sieno state in riverenza presso gli antichi Reggini.
Erano famosi a quell’età in Reggio Silàce, pittore, che fu chiamato a condurre opere nel Peloponneso; ed Androdamante pitagorico, che diede leggi a’ Calcedonesi di Tracia. L’alleanza, il commercio e la consuetudine, ch’ebbero i Reggini cogli Ateniesi, durante e dopo la guerra della Sicilia e del Peloponneso, fecero sì che i primi insensibilmente adottassero in molte parti le leggi costitutive de’ secondi. E sembra certo, che da ciò traesse principio il magistrato de’ Pritani e degli Arconti, succeduti all’antico Egemone; magistrato che poi, non ostante le mutate condizioni de’ tempi, durò sin oltre a’ primi Imperatori romani. Non per ciò fu abolito il Consiglio de’ Mille, nominati per censo; i quali eleggevano il Senato, dal cui seno erano tratti gli Arconti ed i Pritani. Nel Pritaneo radunavansi i Pritani ed il Senato, che nelle città italiote componevano la Suprema Magistratura; a somiglianza di Atene e di Corinto, dove tali uffizii furono creati da’ Bacchidi dopo la cacciata de’ Re, e soppressi poi da Cipselo, che vi ristorava la tirannide. In Reggio i Pritani e gli Arconti rappresentavano il Senato; da questo era rappresentato il Consiglio de’ Mille; e questi Mille rappresentavano il popolo.