Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/VII. La Commedia/II
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ii
I tentativi fatti, compreso il Convito, furono infelici. Trattandosi di veritá da esporre e non da cercare, manca lo spirito e l’ardore scientifico; manca in tutti, anche in Dante. La stessa esposizione non è libera, predeterminata da forme scolastiche. Da queste condizioni non potea uscire una letteratura filosofica; quella forma, propria degli uomini meditativi, che ti rivela non solo l’idea, ma come in te nasce, come la si presenta, con esso i sentimenti che l’accompagnano, pregna di altre idee, le quali per la potenza comprensiva della parola intravvedi, ancora senza contorni, mobili, nasciture. Qui sta la vita superiore della forma filosofica, generata immediatamente dal travaglio del pensiero, che mette in moto tutte le altre facoltá, compresa l’immaginazione. In quei tentativi il contenuto scientifico ci sta, non nel punto che tu lo trovi e vi metti sopra la mano, ma giá trovato, divenuto nello spirito un antecedente non esaminato, tolto pesolo e grezzo dalla scuola. La terra si manifesta meglio al coltivatore che al proprietario. Dante sa di avere i tali fondi, ma non ci va, non entra in comunione con quelli, non vive della vita de’ campi, non li lavora: li conosce sulla carta. Rimane una proprietá astratta, senza effettiva possessione, senza assimilazione, un mio che non è me, non è fatto parte dell’anima mia. Non ci è investigazione e non ci è passione, dico la passione che è generata da un amoroso lavoro intellettuale. Il filosofo fora la superficie e si seppellisce nel mondo sotterraneo, dove, come dice Mefistofele, stanno le profonde radici della scienza. Ma qui la scienza è salita sulla superficie, e se ne coglie i frutti senza fatica. Tutto è dato, la scienza con esso le sue prove e il suo linguaggio; sí che, ferme e intangibili le parti superiori della scienza, non rimane libera che l’ultima e piú bassa operazione dell’intelletto: distinguere e sottilizzare.
Essendo la scienza base di tutto l’edificio, ne seguitò quella falsa poetica di cui è detto. La letteratura solenne e dotta divenne un istrumento della scienza, un modo di volgarizzarla. E tenne due vie: l’esposizione diretta, o l’allegorica. Né altro fu l’intendimento di Dante nella rappresentazione dell’altro mondo. Come quei filosofi che sotto nome di «utopia» costruiscono un mondo dove sia realizzato il loro sistema, Dante costruisce il mondo allegorico della scienza, dove pur trova modo di esporla in forma diretta nelle sue parti sostanziali.
Egli ha aria di dire: — Volete salvarvi l’anima? venite appresso a me nell’altro mondo; ivi impareremo dalla bocca de’ morti la filosofia morale, la scienza della salvazione. — E i morti parlano ed espongono la scienza, soprattutto in paradiso, i cui stalli sembrano convertiti in vere cattedre o pulpiti. Né la scienza è solo nelle parole de’ morti, ma anche nella costruzione e rappresentazione dell’altro mondo, dove essa è sposta sotto figura, in forma allegorica. Il sistema insegue il poeta in mezzo a’ suoi fantasmi e dice: — Bada che tu non passeggi per curiositá, per osservare e dipingere: il tuo scopo è l’insegnamento della scienza per la salute dell’anima; non ti dimenticare della scienza. — E la poetica gli soggiunge: — Pensa che tutte le tue invenzioni, belle che sieno e maravigliose, sono né piú né meno che sciocche bugie, quando non rendano odore di scienza: la poesia è un velo sotto il quale si dee nascondere la dottrina. — Ond’è che il poeta costringe la stessa realtá a produrre un contenuto scientifico: dietro la realtá ci è la scienza, come dietro l’ombra ci è il corpo: qui la scienza è il corpo, e la realtá è l’ombra, «ombrifero prefazio del vero»; anzi è meno che ombra, perché nell’ombra ci è pure l’immagine del corpo. È l’alfabeto della scienza, come la parola è del pensiero; un alfabeto composto non di lettere ma di oggetti, ciascuno segno della tale e tale idea.
Questi erano i concetti e queste le forme a cui lo spirito era giunto. Perciò quel concetto fondamentale dell’etá, il mistero dell’anima o dell’umana destinazione, non era ancora realizzato come arte; perché l’arte è realtá vivente, che abbia il suo valore e il suo senso in se stessa, e qui la scienza, in luogo di calare nel reale ed obbliarvisi, lo tira e lo scioglie in sé.
Il mistero dell’anima era dunque o rozza e greggia realtá nella letteratura popolare, o trattato e allegoria nella letteratura dotta o solenne.
Dante s’impadroní di questo concetto e tentò realizzarlo come arte. Ma ci si mise con le stesse intenzioni e con le stesse forme. Prese quella rozza realtá degli ascetici e volle farne l’ombrifero prefazio del vero, l’allegoria della scienza. Da questa intenzione non potea uscir l’arte.
Neppure l’esposizione della scienza in forma diretta è arte. Il poeta, che vuole esporre la scienza e vuol pur fare una poesia, si propone un problema assurdo: voler dare corpo a ciò che per sua natura è fuori del corpo. La poesia si riduce dunque a un puro abbigliamento esteriore: non penetra l’idea, non se l’incorpora; l’idea rimane invitta nella sua astrazione. Dante spiega in questo assunto tutte le forze della sua immaginazione. Nessuno piú di lui ha saputo con tanta potenza assalire la scienza nel proprio campo e farle forza; ma questo connubio della poesia e della scienza, ch’egli chiama nel Convito un «eterno matrimonio», non è uno di due, è un eterno due. La poesia può farle preziosi doni: può vestirla sontuosamente, ingemmarla, girarle attorno carezzevole; può abbigliarla, non possederla. E la possiede allora solamente quando non la vede piú fuori di sé, perché è divenuta la sua vita e anima: la realtá.
L’allegoria è una prima forma provvisoria dell’arte. È giá la realtá, che però non ha valore in se stessa ma come figura, il cui senso e il cui interesse è fuori di sé, nel figurato, oggetto o concetto che sia. E poiché nel figurato ci è qualche cosa che non è nella figura, e nella figura ci è qualche cosa che non è nel figurato, la realtá, divenuta allegorica, vi è necessariamente guasta e mutilata. O il poeta le attribuisce qualitá non sue ma del figurato, come il veltro che si ciba di sapienza e di virtude; o esprime di lei solo alcune parti, e non perché sue ma perché si riferiscono al figurato, come il grifone del Purgatorio. In tutti e due i casi la realtá non ha vita propria, o per dir meglio non ha vita alcuna: l’interesse è tutto nel figurato, nel pensiero. Ora, o il pensiero è oscuro, e cessa ogni interesse; o è dubbio, di maniera che ti si affaccino piú sensi, e tu rimani sospeso e raffreddato; o è chiaro, e lo hai innanzi nella sua generalitá, senza carattere poetico. La selva è figura della vita terrena. E la vita terrena, appunto perché figurato, ti si porge spoglia di ogni particolare, per cui e in cui è vita, generale e immobile come un concetto. Questo povero figurato è condannato, come Pier delle Vigne, a guardarsi il suo corpo penzolare innanzi senza che mai sen rivesta: e non propriamente suo, perché quel corpo singolare che chiamasi «figura» serve a due padroni; è sé ed un altro, è insieme lettera e figura; un corpo a due anime, rappresentato in guisa, che prima paia se stesso, la selva, e, considerato attentamente, mostri in sé le orme di un altro. Talora la figura fa dimenticare il figurato; talora il figurato strozza la figura. Per lo piú nel senso letterale penetrano particolari estranei che lo turbano e lo guastano; e per volerci procurare un doppio cibo, ci si fa stare digiuni.
Adunque in queste forme non ci è ancora arte. La realtá ci sta o come immagine del pensiero astratto ed estrinseco, o come figura di un figurato parimente astratto ed estrinseco. Non ci è compenetrazione dei due termini. Il pensiero non è calato nell’immagine; il figurato non è calato nella figura. Hai forme iniziali dell’arte; non hai ancora l’arte.
Dante si è messo all’opera con queste forme e con queste intenzioni. Se l’allegoria gli ha dato abilitá a ingrandire il suo quadro e a fondere nel mondo cristiano tutta la coltura antica, mitologia, scienza e storia; ha d’altra parte viziato nell’origine questo vasto mondo, togliendogli la libertá e spontaneitá della vita, divenuto un pensiero e una figura, una costruzione a priori, intellettuale nella sostanza, allegorica nella forma.
E se la Commedia fosse assolutamente in questi termini, sarebbe quello che fu il Tesoretto prima e il Quadriregio poi, grottesca figura d’idee astratte.
Ma dirimpetto a quel mondo della ragione astratta viveva un mondo concreto e reale, la cui base era la storia del Vecchio e Nuovo Testamento nella sua esposizione letterale e allegorica, e che nelle allegorie, nei misteri, nei cantici, nelle laude, nelle visioni, nelle leggende avea avuta giá tutta una letteratura. Era la letteratura degli uomini semplici, poveri di spirito. A costoro la via a salute era la contemplazione non di esseri allegorici, figurativi della scienza, ma reali: Dio, la Vergine, Cristo, gli angioli, i santi, l’inferno, il purgatorio, il paradiso; ciò che essi chiamavano l’altra vita, non figura di questa, anzi la sola che essi chiamavano realtá e veritá. Il contemplante o il veggente era il santo, il profeta, l’apostolo, banditore della parola di Dio. Dante, l’amico della filosofia, contemplando il regno divino, se ne fa non solo il filosofo ma il profeta e l’apostolo, rivelandolo e predicandolo agli uomini; diviene il missionario dell’altro mondo, ed è san Pietro che gli apre la bocca e lo investe della sacra missione:
Apri la bocca |
Ora questo mondo cristiano, di cui si faceva il profeta, era per lui una cosa cosí seria come per tutt’i credenti, seria nel suo spirito e nella sua lettera. Ne parla col linguaggio della scienza, lo intravvede attraverso la scienza; ma la scienza non lo dissolveva, anzi lo illustrava e lo confermava. Supporre che esso fosse una figura, una forma trovata per adombrarvi i suoi concetti scientifici, è un anacronismo, è un correre sino a Goethe. La scienza penetra in questo mondo come ragionamento o come allegoria, e spiega la sua costruzione e il suo pensiero, a quel modo che il filosofo spiega la natura. E come la natura, cosí l’altro mondo è per Dante piú che figura: è vivace e seria realtá, che ha in se stessa il suo valore e il suo significato.
Né quel mondo cristiano rimane nella sua generalitá religiosa, com’è ne’ cantici, nelle prediche e ne’ misteri e leggende. Dalla vita contemplativa cala nella vita attiva e si concreta nella vita reale. Essendo la perfezione religiosa nel dispregio de’ beni terreni, i credenti, da Francesco d’Assisi a Caterina, non poteano vedere con animo quieto i costumi licenziosi de’ chierici e de’ frati; la corruzione della cittá santa, dove Cristo si mercava ogni giorno; il papa, divenuto sovrano temporale e dominato da fini e interessi terreni, in tresca adultera co’ re. Su questo punto i santi sono cosí severi come Dante: piú avean fede, e maggiore era l’indignazione. Venendo piú al particolare, abbiam visto Bonifazio legarsi con Filippo il bello contro l’imperatore (ciò che Dante chiama un adulterio), inviare Carlo di Valois a Firenze, cacciarne i Bianchi, instaurarvi i guelfi. Il guelfismo era allora la Chiesa, fatta meretrice del re di Francia, che la trasse poco poi in Avignone, divenuta pietra di scandalo e aizzatrice di tutte le discordie civili. Come potere e interesse temporale, era essa non solo radice e causa della corruzione del secolo, ma impedimento alla costituzione stabile delle nazioni, e massime d’Italia, in quella unitá civile o imperiale, che rendea immagine dell’unitá del regno di Dio. A questo mondo guasto contrapponevano la purezza de’ tempi evangelici e primitivi e il vivere riposato e modesto delle cittá, prima che vi entrasse la corruzione e la licenza de’ costumi, di cui la Chiesa dava il mal esempio.
Come si vede, il mondo politico entrava per questa via nel mondo cristiano e ne facea parte sostanziale. La politica non era ancora una scienza con fini e mezzi suoi: era un’appendice dell’etica e della rettorica. E, come vita reale, il suo modello era il mondo cristiano, di cui si ricordava un’immagine pura in tempi piú antichi, una specie di etá dell’oro della vita cristiana.
Questo mondo cristiano-politico non era giá per Dante una contemplazione astratta e filosofica. Mescolato nella vita attiva, egli era giudice e parte. Offeso da Bonifazio, sbandito da Firenze, errante per il mondo tra speranze e timori, fra gli affetti piú contrari, odio e amore, vendetta e tenerezza, indignazione e ammirazione, con l’occhio sempre vòlto alla patria che non dovea piú vedere, in quella catastrofe italiana c’era la sua catastrofe, le sue opinioni contraddette, la sua vita infranta nel fiore dell’etá e offesi i suoi sentimenti di uomo e di cittadino. Le sue meditazioni, le sue fantasie mandano sangue. Non è Omero, contemplante sereno e impersonale: è lui in tutta la sua personalitá; vero microcosmo, centro vivente di tutto quel mondo, di cui era insieme l’apostolo e la vittima.
Se dunque, come filosofo e letterato, involto nelle forme e ne’ concetti dell’etá, volea costruire un mondo etico o scientifico in forma allegorica, come entra in quel mondo, non vi trova piú la figura. Simile a quel pittore che s’inginocchia innanzi al suo San Girolamo, trasformatosi nell’immaginazione la figura nella persona del santo, egli cerca la figura e trova una realtá piena di vita, trova se stesso.
Oltre a ciò, Dante era poeta. Invano afferma che «poeta» vuol dire «profeta», banditore del vero. Sublime ignorante, non sapea dov’era la sua grandezza. Era poeta e si ribella all’allegoria. La favola, ciò ch’egli chiama «bella menzogna», lo scalda, lo soverchia, e vi si lascia ir dietro come innamorato, né sa creare a metá, arrestarsi a mezza via. Nel caldo dell’ispirazione non gli è possibile starsi col secondo senso innanzi e formar figure mozze, che vi rispondano appuntino, particolare con particolare, accessorio con accessorio, come riesce a’ mediocri. La realtá straripa, oltrepassa l’allegoria, diviene se stessa; il figurato scompare, in tanta pienezza di vita, fra tanti particolari. Indi la disperazione de’ comentatori: egli fece il suo mondo e lo abbandonò alle dispute degli uomini.
Per metter d’accordo la sua poetica con la sua poesia, Dante sostiene nel Convito che il senso letterale dee essere indipendente dall’allegorico, di modo che sia intelligibile per se stesso. Con questa scappatoia si è salvato dalle strette dell’allegoria, ed ha conquistato la sua libertá d’ispirazione, la libertá e indipendenza delle sue creature. Sia pure l’altro mondo figura della scienza; ma è, prima e innanzi tutto, l’altro mondo, e Virgilio è Virgilio, e Beatrice è Beatrice, e Dante è Dante; e se d’alcuna cosa ci dogliamo, è quando il secondo senso vi si ficca dentro e sconcia l’immagine e guasta l’illusione.
Sicché nella Commedia, come in tutt’i lavori d’arte, si ha a distinguere il mondo intenzionale e il mondo effettivo, ciò che il poeta ha voluto e ciò che ha fatto. L’uomo non fa quello che vuole, ma quello che può. Il poeta si mette all’opera con la poetica, le forme, le idee e le preoccupazioni del tempo; e meno è artista, piú il suo mondo intenzionale è reso con esattezza. Vedete Brunetto e Frezzi. Ivi tutto è chiaro, logico e concorde: la realtá è una mera figura. Ma se il poeta è artista, scoppia la contraddizione, vien fuori non il mondo della sua intenzione, ma il mondo dell’arte.