Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/VII. La Commedia/III

VII. La Commedia - III.

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iii

Come l’argomento siasi affacciato a Dante non è chiaro. Le memorie secrete del genio non sono scritte ancora, e mal si può indovinare da quello che è espresso quello che è preceduto nello spirito d’un autore. È difficile far la geologia di un lavoro [p. 163 modifica]d’arte, trovare nel definitivo le tracce del provvisorio. È probabile che la Commedia sia stata vagamente concepita fin dalla giovinezza, ad imitazione di quelle «commedie dell’anima», di quelle visioni dell’altra vita, cosí in voga; e che dapprima il poeta pensasse solo alla glorificazione di Beatrice e alla rappresentazione pura e semplice dell’altro mondo: e forse de’ frammenti e anche de’ canti furono scritti prima che un disegno ben chiaro e concorde gli entrasse in mente. Questo è il tempo oscuro alla critica e altamente drammatico, il tempo de’ tentennamenti, del silenzioso contendere con se stesso, degli abbozzi, del va e vieni; storia intima del poeta. Il quale, quando gli si mostra l’argomento, vede per prima cosa dissolversi quella parte di realtá che vi risponde, fluttuante come in una massa di vapori guardata da alto, dove gli alberi, i campanili, i palazzi, tutte le figure si decompongono e si offrono a frammenti. Chi non ha la forza di uccidere la realtá, non ha la forza di crearla. Ma sono frammenti giá penetrati di virtú attrattiva, amorosi, che si cercano, si congregano, con desiderio, con oscuro presentimento della nuova vita a cui sono destinati. La creazione comincia veramente quando quel mondo tumultuario e frammentario trovi un centro intorno a cui stringersi. Allora esce dall’illimitato, che lo rende fluttuante, e prende una forma stabile; allora nasce e vive, cioè si sviluppa gradatamente secondo la sua essenza. Ora il mondo dantesco trovò la sua base nella idea morale.

La idea morale non è concetto arbitrario ed estrinseco all’argomento: è insito nell’altro mondo, è il suo concetto; perché senza di quella l’altro mondo non ha ragion d’essere. La base dunque è vera, è nell’argomento; e se difetto c’è, il difetto è nella natura dell’argomento. Ma Dante, meditandovi sopra, e non come poeta ma come filosofo, valicò l’argomento. Non è contento che la ci sia, ma la mostra e la spiega. E non si contenta neppure di questo. Quella idea diviene la filosofia, tutto un sistema di concetti ben coordinato; e non è piú la base, il senso interiore dell’altro mondo, a quel modo che lo spirito è nella natura, ma è essa il contenuto, essa l’argomento, essa lo scopo. [p. 164 modifica]Così quella vivace realtá si va ad evaporare in una generalitá filosofica, e il lavoro diviene un insegnamento morale-politico sotto il velo dell’altro mondo. Il poeta spontaneo e popolare si volta nel poeta dotto e solenne. Descrivere l’altro mondo cosí alla semplice e nel suo senso immediato gli pare un frivolo passatempo, la maniera de’ narratori volgari. La lettera ci è, ma è per i profani, per gli uomini semplici, che non vedono di lá dall’apparenza. Ma egli scrive per gl’iniziati, per gl’intelletti sani, e loro raccomanda di non fermarsi alla corteccia, di guardare di lá! E tutti si son messi a guardare di lá.

Così sono nati due mondi danteschi: uno letterale e apparente, l’altro occulto; la figura e il figurato. E poiché l’interesse è in questo senso occulto, in questo di lá, i dotti si son messi a cercarlo. L’hanno cercato, e non l’hanno trovato; e dopo tante dispute e vane congetture, esce infine il buon senso, esce Voltaire e dice: «Gl’italiani lo chiamano ‘divino’, ma è una divinitá occulta: pochi intendono i suoi oracoli; la sua fama si manterrá sempre, perché nessuno lo legge». E Voltaire vuol dire: — Abbiamo sudato parecchi secoli per capirti; e poiché non ti vuoi far capire, statti con Dio. — E vuol dire ancora: — Ne val poi la pena? È una falsa divinitá quella che rimane nascosta. — Pure né il veto del Voltaire valse ad arrestare le ricerche, né il suo disprezzo ad intiepidire l’ammirazione. Con nuovo ardore italiani e stranieri si misero a interpretare questo Giano a due facce o piuttosto a due mondi, l’uno visibile e l’altro invisibile; ciascuno si provò ad alzare un lembo del velo di cui si è ravvolto il dio. Ma né acutezza d’ingegno né copia di dottrina né profonda conoscenza di quei tempi né studio paziente delle altre sue opere hanno potuto trarci fuori delle ipotesi e delle congetture. Gli antichi interpreti dissentivano ne’ particolari; il dissenso de’ moderni è piú profondo: hai interi sistemi che si confutano a vicenda. Oggi ancora non si pubblica un Dante in Germania, che non ci si appicchino nuove spiegazioni; non puoi leggere una critica della Commedia, che non ti trovi ingolfato in un pelago di quistioni. Dante è divenuto un nome che spaventa, irto di sillogismi e soprasensi, e spesso sei ridotto [p. 165 modifica]a domandarti: — Qual è il vero Dante? — Poiché ciascun comentatore ha il suo, ciascuno gli appicca le opinioni e passioni sue, e lo fa cantare a suo modo; e chi ne fa un apostolo di libertá, di umanitá, di nazionalitá, chi un precursore di Lutero, chi un santo padre. Cercano Dante dove non è, cercano i suoi pregi dove sono i suoi difetti; e qual maraviglia che il Lamartine alla sua volta, cercandolo colá e non vel trovando, si sia affrettato a conchiudere: «Dunque Dante non esiste»? Io ne conchiudo: — Poiché non è lá, cerchiamolo altrove. — La grandezza del dio non è nel santuario, ma lá dove si mostra con tanta pompa, al di fuori. A forza di cercar maraviglie in un mondo ipotetico, non vediamo quelle che ci si affacciano innanzi. Parlando a coro della dignitá della Commedia e de’ veri e del senso arcano, si è data una importanza fattizia a questo mondo intellettuale-allegorico, se non fosse per altro, per la fatica che ci si è spesa. Se Dante tornasse in vita, sentendo a dire che Beatrice è l’eresia o la sua anima, che le arpie sono i monaci domenicani, che Lucifero è il papa, che il suo vocabolario è un gergo settario, e vedendo quanti sensi occulti gli sono affibbiati, potrebbe a piú d’uno tirargli le orecchie e dire: — Cotesto «arri» non ci misi io. — Ma gli si potrebbe rispondere: — Vostra colpa: perché non siete stato piú chiaro? Ci avete promessa un’allegoria: perché non ci avete data un’allegoria? La vostra figura non risponde appuntino al figurato: perché l’avete fatta sí bella? perché le avete data tanta realtá? In tanta ricchezza di particolari, dove o come trovare l’allegoria? E qual maraviglia che la stessa figura significhi una per me e una per voi? qual maraviglia che nella stessa figura si trovi di che provare la veritá di tre o quattro interpretazioni? E ci fosse solo un senso! Ma ci fate sapere che, oltre all’allegorico, ci è il senso morale e l’anagogico: dove trovare il bandolo? I vostri ascetici gridano che il corpo è un velo dello spirito; ma il peccatore fa di cappello allo spirito e adora la carne. E anche voi gridate che i versi sono un velo della dottrina; e, come il peccatore, piantate lí il figurato, e correte appresso alla figura, e la fate cosí impolpata, cosí corpulenta, che è un velo denso e fitto, [p. 166 modifica]di lá dal quale non si vede nulla, e perciò si vede tutto, quello che intendete voi e quello che intendiamo noi. Se dunque la vostra allegoria è come l’ombra di Banco, messa tra voi e noi, che ci toglie la vostra vista; se il vostro poema è divenuto un immenso geroglifico, un mondo ignoto, alla cui scoperta si son messi infruttuosamente molti Colombi; di chi è la colpa? Non è forse della vostra poca logica, che altro intendete e altro fate? — Rimproveri che sono un elogio.

Cosí è. Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che non intendeva. Ciascuno è quello che è, anche a suo dispetto, anche volendo essere un altro. Dante è poeta e, avviluppato in combinazioni astratte, trova mille aperture per farvi penetrare l’aria e la luce. Tratto ad una falsa concezione dal vezzo de’ tempi, valica l’argomento e si trova in un mondo di puri concetti, e fa di questi la sua intenzione, e si tira appresso tutta la realtá e ne vuol fare la figura de’ suoi concetti. Ma, come attinge il reale, ivi sente se stesso, ivi genera, ivi l’ingegno trova la sua materia: quelle figure prendono corpo, acquistano una vita propria; e le diresti creature libere e indipendenti, se quella benedetta intenzione non vi fosse rimasa attaccata come una palla di piombo, impacciando a volta a volta i loro movimenti. Cosí quel mondo intenzionale, tanto caro al poeta, si è ito come nebbia dissipando innanzi alla luce del mondo reale, solo rimasto vivo. Tutto l’altro è l’astratto di quel mondo, è il lavoro oltrepassato: non è la Commedia; è il suo di lá, la sua nebbia, che pur penetra qua e lá e lascia delle grandi ombre, che gl’interpreti dilatano e trasformano in una sola e vasta ombra. A quel modo che i geologi scoprono i vestigi di forme imperfette, che attestano la lenta e progressiva formazione della materia, qui si discernono i frammenti di un mondo prosaico, intellettuale, allegorico, scissi, isolati, sterili, piú o meno tollerabili, secondo la maggiore o minore abilitá dell’esposizione, inviluppati in una forma piú alta, alla quale il genio sospinge il poeta attraverso gli errori della sua poetica. I quali frammenti sono i fossili della Commedia, morti giá da gran tempo, vivi solo agli eruditi, i geologi della letteratura; e se la loro morte non ha potuto seco involgere il [p. 167 modifica]rimanente, gli è che il vero lavoro è in questo rimanente, dotato di una vita cosí fresca e tenace, che distende un po’ di sua luce anche sulle parti morte. Quel contenuto astratto vive in grazia del mondo in cui si trova entrato: spiccatenelo, isolatelo, e non se ne parlerebbe piú.

Che cosa è dunque la Commedia? È il medio evo realizzato, come arte, malgrado l’autore e malgrado i contemporanei. E guardate che gran cosa è questa! Il medio evo non era un mondo artistico, anzi era il contrario dell’arte. La religione era misticismo, la filosofia scolasticismo. L’una scomunicava l’arte, abbruciava le immagini, avvezzava gli spiriti a staccarsi dal reale. L’altra viveva di astrazioni e di formole e di citazioni, drizzando l’intelletto a sottilizzare intorno a’ nomi e alle vacue generalitá che si chiamavano «essenze». Gli spiriti erano tirati verso il generale, piú disposti a idealizzare che a realizzare: ciò che è proprio il contrario dell’arte. Ne’ poeti semplici trovi il reale rozzo, senza formazione, come ne’ misteri, nelle visioni, nelle leggende. Ne’ poeti solenni trovi una forma o crudamente didascalica o figurativa e allegorica. L’arte non era nata ancora. C’era la figura; non c’era la realtá nella sua libertá e personalitá.

Dante raccoglie da’ misteri la commedia dell’anima, e fa di questa storia il centro di una sua visione dell’altro mondo. Tutta questa rappresentazione non è che senso letterale: la visione è allegorica, i personaggi sono figure e non persone; ma ciò che è attivo nel suo spirito lo porta verso la figura e non verso il figurato. La sua natura poetica, tirata per forza nelle astrattezze teologiche e scolastiche, ricalcitra e popola il suo cervello di fantasmi, e lo costringe a concretare, a materializzare, a formare anche ciò che è più spirituale e impalpabile, anche Dio. Quel mondo letterale lo ammalia, lo perseguita, lo assedia e non posa che non abbia ricevuta la sua forma definitiva; e non è piú lettera ma è spirito, non è piú figura ma è realtá: è un mondo in sé compiuto e intelligibile, perfettamente realizzato. Visione e allegoria, trattato e leggenda, cronache, storie, laude, inni, misticismo e scolasticismo, tutte le forme letterarie e tutta la cultura dell’etá sta qui dentro inviluppata e vivificata, in questo [p. 168 modifica]gran mistero dell’anima o dell’umanitá; poema universale, dove si riflettono tutt’i popoli e tutti i secoli che si chiamano il «medio evo».

Ma questo mondo artistico, uscito da una contraddizione tra l’intenzione del poeta e la sua opera, non è compiutamente armonico, non è schietta poesia. La falsa coscienza poetica disturba l’opera di quella geniale spontaneitá, e vi gitta dentro un tentennare, un non so che di mal sicuro e di non compiuto, una mescolanza e crudezza di colori. Il pensiero, ora nella sua cruditá scolastica, ora abbellito d’immagini che pur non bastano a vincere la sua astrattezza, vi ha troppo gran parte. Le sue figure allegoriche ricordano talora piú i mostri orientali che la schietta bellezza greca; personificazioni astratte, anzi che persone conscie e libere. Preoccupato del secondo senso che ha in mente, spesso gli escono particolari estranei alla figura, che turbano e distraggono il lettore e gli rompono l’illusione. La presenza perenne di un altro senso, che aleggia al di sopra della rappresentazione ed introducevisi a quando a quando, ne turba la chiarezza e l’armonia. Anche lo stile, inviluppato alcuna volta in rapporti lontani e sottili, perde la sua luciditá e riesce intralciato e torbido. Non è un tempio greco: è un tempio gotico, pieno di grandi ombre, dove contrari elementi pugnano, non bene armonizzati. Or rozzo, or delicato. Ora poeta solenne, or popolare. Ora perde di vista il vero e si abbandona a sottigliezze, ora lo intuisce rapidamente e lo esprime con semplicitá. Ora rozzo cronista, ora pittore finito. Ora si perde nelle astrattezze, ora di mezzo a quelle fa germogliare la vita. Qui cade in puerilitá, lá spicca il volo a sopraumane altezze. Mentre tien dietro a un sillogismo, brilla la luce dell’immagine; e mentre teologizza, scoppia la fiamma del sentimento. Talora ti trovi innanzi ad una fredda allegoria, quando tutto ad un tratto vi senti dentro tremare la carne. Talora la sua credulitá ti fa sorridere, talora la sua audacia ti fa stupire. Fu un piccolo mondo, dove si rifletteva tutta l’esistenza, com’era allora. I contrari elementi, che fermentavano in una societá ancora nello stato di formazione, contendevano in lui, e senza che ne avesse coscienza. [p. 169 modifica]Se guardi alle sue aspirazioni, tutto è armonia. Filosofo, pensa il regno della scienza e della virtú. Cristiano, contempla il regno di Dio. Patriota, sospira al regno della giustizia e della pace. Poeta, vagheggia una forma tutta luce e proporzione e armonia, «lo bello stile»: il suo autore è Virgilio. Maggiore era la barbarie e la rozzezza, e piú si vagheggiava un mondo armonico e concorde. Ma il poeta è inviluppato egli medesimo in quella rozza realtá e in quelle forme discordi; e ne sente la puntura, e gli manca la serenitá dell’artista. E gli esce dalla fantasia un mondo dell’arte in gran parte realizzato, ma dove pur trovi gli angoli e le scabrositá di una materia non perfettamente doma.