Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/VII. La Commedia/I

VII. La Commedia - I.

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VII. La Commedia VII. La Commedia - II

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Chi mi ha seguito vede che la «divina commedia» non è un concetto nuovo né originale né straordinario, sorto nel cervello di Dante e lanciato in mezzo a un mondo maravigliato. [p. 145 modifica]Anzi il suo pregio è di essere il concetto di tutti, il pensiero che giaceva in fondo a tutte le forme letterarie: rappresentazioni, leggende, visioni, trattati, tesori, giardini, sonetti e canzoni. L’Allegoria dell’anima e la Commedia dell’anima sono gli schizzi, le categorie, i lineamenti generali di questo concetto.

Nel Convito la sostanza è l’etica, che Dante cerca di rendere accessibile agl’illetterati, esponendola in prosa volgare. Qui il problema è rovesciato. La sostanza sono le tradizioni e le forme popolari rannodate intorno al mistero dell’anima, il concetto di tutt’i misteri e di tutte le leggende; ed è in questo quadro che Dante gitta tutta la coltura di quel tempo. Con questa felice ispirazione, pigliando a base della coltura le tradizioni e le forme popolari, riunisce le due letterature, che si contendevano il campo, intorno al comune concetto che le ispirava, il «mistero dell’anima». La rappresentazione e la leggenda esce dalla sua rozza volgaritá e si alza a’ piú alti concepimenti della scienza; la scienza esce dal santuario e si fa popolo, si fa mistero e leggenda. Indi l’immensa popolaritá di questo libro, che gl’illetterati accettavano nel senso letterale e i dotti comentavano come un libro di scienza, come la Somma di san Tommaso. Il popolo vedeva in quei versi quel medesimo che sentiva nelle prediche, nelle divozioni e rappresentazioni; né è maraviglia che qualcuno, guardando Dante con quella faccia pensosa e come alienata, dicesse: — Costui par veramente uscito ora dall’inferno. — Gli eruditi si affannavano a cercare il senso de’ versi strani, e il Boccaccio iniziava quella serie di comenti che spesso, in luogo di squarciare il velo, lo fanno piú denso.

In effetti la Divina commedia è una visione dell’altro mondo allegorica. Cristianamente, la visione e la contemplazione dell’altra vita è il dovere del credente, la perfezione. Il santo vive in ispirito nell’altro mondo; le sue estasi, le sue visioni si riferiscono alla seconda vita a cui sospira. Dante accetta questa base ascetica, popolarissima: contemplare e vedere l’altro mondo è la via della salvazione. Per campare dalla selva del vizio e dell’ignoranza, egli si getta alla vita contemplativa, vede in ispirito l’altro mondo e narra quello che vede. Questo è il motivo [p. 146 modifica]ordinario di tutte le visioni, è la storia di tutt’i santi, è il tèma di tutt’i predicatori, è la lettera della Commedia, visione dell’altro mondo, come via a salute. Ma la visione è allegoria. L’altro mondo è allegoria e immagine di questo mondo, è in fondo la storia o il mistero dell’anima ne’ suoi tre stati, detti nell’Allegoria dell’anima Umano, Spoglia, Rinnova, che rispondono a’ tre mondi, Inferno, Purgatorio e Paradiso. È l’anima intenebrata dal senso, nello stato puramente umano, che, spogliandosi e mondandosi della carne, si rinnova, ritorna pura e divina. Questa allegoria era popolare e comune non meno che la lettera. Ciascuno vedeva un po’ l’altro mondo con l’occhio di questo mondo, con le sue passioni e interessi. I predicatori, soprattutto nella descrizione delle pene infernali, cercavano immagini delle passioni terrene. Il mistero dell’anima era la base di tutte le invenzioni, la leggenda delle leggende. L’uomo, caduto nell’errore e nella miseria, che finisce o vendendo l’anima al demonio o purgandosi e salvandosi, era il fondamento di tutte le storie popolari, come s’è visto nell’Introduzione alle virtú e nella Commedia dell’anima.

La Commedia dell’anima è l’anima uscita dalle mani di Dio pura, che in terra combatte le sue battaglie con la carne e col demonio, e vince assistita dalla grazia di Dio. Vizi e virtú combattono, come gli dèi di Omero, intorno all’anima; le virtú vincono e l’anima è salva. Nell’Introduzione alle virtú è un giovane caduto in miseria, a cui apparisce confortatrice la Filosofia, sua maestra e signora, e gli mostra la battaglia dei Vizi e delle Virtú; e il giovane, spregiando i beni terrestri, si leva al cielo. La filosofia è anche la divina consolatrice di Boezio, cosí popolare, e di Dante, a cui dopo la morte di Beatrice apparve questa «nobilissima figlia dell’Imperatore dell’universo», facendolo suo amico e servo. Il vizio e l’ignoranza, la conversione per opera di Dio o della filosofia, la redenzione e beatificazione, visione di Dio e della scienza, era il luogo comune delle due letterature, de’ semplici e degli uomini colti. E Dante fonde insieme le due forme, e tira nella sua allegoria filosofia e teologia, ragione e grazia, Dio e scienza, e fa un mondo armonico, [p. 147 modifica]assegnando a ciascuno il suo luogo. L’anima nell’inferno e nel purgatorio, non essendo uscita ancora dal terreno, ha a guida il lume naturale, la ragione o la filosofia; ma la ragione è insufficiente senza la grazia di Dio: fatta libera e monda e leggiera, ha nel paradiso maestra la grazia o la teologia, luce intellettuale, che le mostra la scienza senza velo o Dio nella sua essenza.

Perché l’altro mondo è allegorico, figura dell’anima nella sua storia, il poeta è sciolto da’ vincoli liturgici e religiosi e spazia nel mondo libero dell’immaginazione. Prendendo a base le tradizioni e le forme cristiane, adopera alla sua costruzione tutt’i materiali della scienza, sacra e profana, e le tradizioni e favole del mondo pagano, mescolando insieme Enea e san Paolo, Caronte e Lucifero, figure classiche e cristiane. Cosí ha realizzato quel mondo universale della coltura, tanto desiderato dalle classi colte e fino allora tentato invano, cristiano nel suo spirito e nella sua letteratura, ma dove giá penetra da tutte le parti il mondo antico. Mescolanza che in molti contemporanei pare strana e grottesca, legittimata qui dall’allegoria, che concede al poeta libertá di forme ch’egli creda piú acconce a significare i suoi concetti. Il mondo pagano e la scienza profana sono qui materiali di costruzione, usati a edificare un tempio cristiano, a quel modo che colonne egizie e greche si veggono talora nelle costruzioni moderne divenire simbolo e figure de’ nuovi tempi e delle nuove idee. Cosí a questa costruzione gigantesca prendon parte tutte le etá e tutte le forme, fuse insieme e battezzate, penetrate da un solo concetto, il concetto cristiano.

L’ordito è semplicissimo: è la storia o mistero dell’anima nella sua espressione elementare, come si trova nella rappresentazione della Commedia dell’anima, e l’hai giá tutta e chiara innanzi, fin dal primo canto. Dante nel giorno del giubileo, quando Bonifazio facea mostra di tutta la sua possanza e il mondo cristiano si raccoglieva intorno a lui, si trova smarrito in una selva oscura, e sta per soggiacere all’assalto delle passioni, figurate nella lonza, il leone e la lupa: quando a camparlo dal luogo selvaggio esce Virgilio, e lo mena seco a contemplare l’inferno [p. 148 modifica]e il purgatorio; ove, confessati i suoi falli, guidato da Beatrice, sale in paradiso e di luce in luce giunge alla faccia di Dio. Allegoricamente, Dante è l’anima, Virgilio è la ragione, Beatrice è la grazia; e l’altro mondo è questo mondo stesso nel suo aspetto etico e morale: è l’etica realizzata, questo mondo quale dee essere secondo i dettati della filosofia e della morale, il mondo della giustizia e della pace, il regno di Dio.

Dante è l’anima non solo come individuo ma come essere collettivo, come societá umana o umanitá. Come l’individuo, cosí la societá è corrotta e discorde e non può aver pace se non instaurando il regno della giustizia o della legge, riducendosi dall’arbitrio de’ molti sotto unico moderatore. E qui entra la tradizione virgiliana: la monarchia prestabilita da Dio, fondata da Augusto, discendente di Enea, e Roma per dritto divino capo del mondo. Questo concetto politico non è intruso e soprapposto, ma è, come si vede, lo stesso concetto etico, applicato all’individuo e alla societá.

È tale la medesimezza, che la stessa allegoria si può interpretare in un senso puramente etico per rispetto all’individuo, e in un senso politico per rispetto alla societá. E non è perciò maraviglia che la stessa materia si presti con tanta docilitá alle piú diverse interpretazioni.

Se l’allegoria ha reso possibile a Dante una illimitata libertá di forme, gli rende d’altra parte impossibile la loro formazione artistica. Dovendo la figura rappresentare il figurato, non può essere persona libera e indipendente, come richiede l’arte, ma semplice personificazione o segno d’idea, sicché non contenga se non i tratti soli che hanno relazione all’idea, a quel modo che il vero paragone non esprime di se stesso se non quello solo che sia immagine della cosa paragonata. L’allegoria dunque allarga il mondo dantesco, e insieme lo uccide, gli toglie la vita propria e personale, ne fa il segno o la cifra di un concetto a sé estrinseco. Hai due realtá distinte, l’una fuori dell’altra, l’una figura e adombramento dell’altra, perciò amendue incompiute e astratte. La figura, dovendo significare non se stessa ma un altro, non ha niente d’organico e diviene un accozzamento [p. 149 modifica]meccanico mostruoso, il cui significato è fuori di sé, com’è il grifone del purgatorio, l’aquila del paradiso, e il Lucifero, e Dante con le sette «P» incise sulla fronte.

La poesia non s’era ancora potuta sciogliere dall’allegoria. Il cristianesimo in nome del Dio spirituale facea guerra non solo agl’idoli, ma anche alla poesia, tenuta lenocinio e artifizio: voleva la nuda veritá. E veritá era filosofia o storia: la veritá poetica non era compresa. La poesia era stimata un tessuto di menzogne, e «poeta» e «mentitore», come dice il Boccaccio, era la stessa cosa; i versi erano chiamati, come dice san Girolamo, «cibo del diavolo». La poesia perciò non fu accettata se non come simbolo e veste del vero: l’allegoria fu una specie di salvacondotto, pel quale poté riapparire fra gli uomini. Erano detti «poeti solenni», a distinzione de’ «popolari», i dotti che esprimevano in poesia la dottrina sotto figura o in forma diretta. Dante definisce la poesia «banditrice del vero», sotto «il velame della favola ascoso», di modo che il lettore «sotto alla dura corteccia, sotto favoloso e ornato parlare, trovi salutari e dolcissimi ammaestramenti». La poesia è in sé una «bella menzogna», che non ha alcun valore se non come figura del vero.

Con questa falsa poetica, di cui abbiamo visto l’influenza ne’ nostri lirici, Dante lavora sopra idee astratte: trova una serie di concetti, e poi ti forma una serie corrispondente di oggetti. Le menti erano assuefatte a questo processo, a correre al generale. Il campo ordinario della filosofia scolastica era l’«ente» con tutte le altre generalitá; e la pratica del sillogismo avea avvezzi tutti, anche i poeti, a cercare in ogni cosa la maggiore, la proposizione generale. Ora quel mondo di concetti è la maggiore dell’altro mondo.

Quali sieno questi concetti, io dirò quasi con le stesse parole di Dante.

La patria dell’anima è il cielo e, come dice Dante, discende in noi da altissimo abitacolo. Essa partecipa della natura divina.

L’anima, uscendo dalle mani di Dio, è «semplicetta», «sa nulla»; ma ha due facoltá innate, la ragione e l’appetito, «la [p. 150 modifica]virtú che consiglia», e l’esser «mobile ad ogni cosa che piace», l’esser «presta ad amare»1.

L’appetito (affetto, amore) la tira verso il bene2. Ma nella sua ignoranza non sa discernere il bene, segue la sua falsa immagine e s’inganna. L’ignoranza genera l’errore, e l’errore genera il male3.

Il male o il peccato è posto nella materia, nel piacere sensuale4.

Il bene è posto nello spirito: il sommo bene è Dio, puro spirito5.

L’uomo dunque, per esser felice, dee contrastare alla carne e accostarsi al sommo bene, a Dio. A questo fine gli è stata data la ragione come consigliera: indi nasce il suo libero arbitrio e la moralitá delle sue azioni6.

La ragione per mezzo della filosofia ci dá la conoscenza del bene e del male. Lo studio della filosofia è perciò un dovere: è via al bene, alla moralitá. La moralitá è la «bellezza della filosofia»7: è l’etica, regina delle scienze, «il primo cielo cristallino».

A filosofare è necessario amore. L’amore (appetito) può esser sementa di bene e di male, secondo l’oggetto a cui si volge. Il falso amore è «appetito» non «cavalcato dalla ragione». Il vero amore è studio della filosofia, «unimento spirituale dell’anima con la cosa amata». [p. 151 modifica]

Filosofia è «amistanza» a sapienza, amicizia dell’anima con la sapienza. Nelle nature inferiori l’amore è «sensibile dilettazione». Solo l’uomo, come «natura... razionale, ha... amore alla veritá e alla virtú» (alla filosofia)8. Ciò è vera felicitá, che per contemplazione della veritá si acquista9.

In questi concetti si trova il succo della morale antica. Giá i filosofi pagani aveano mostrato la filosofia come unico porto fra le tempeste della vita: esser filosofo significava, e significa anche oggi, resistere alle passioni ed a’ piaceri, vincer se stesso, serbare l’eguaglianza dell’animo nelle umane vicissitudini.

Ma ecco ora sopraggiungere il cristianesimo.

L’umanitá per il peccato d’origine cadde in servitú dei sensi (del male o del peccato), e la ragione e l’amore non furono piú sufficienti a salvarla. La ragione andava a tentoni e menava all’errore: «i filosofi andavan e non sapean dove»; l’amore, rimaso senza «rettore», divenne appetito sensuale. Era necessaria una redenzione soprannaturale. Dio si fece uomo e redense l’umanitá offrendosi vittima espiatoria per lei10.

Mediante questo sacrificio, la ragione è stata avvalorata dalla fede, l’amore avvalorato dalla grazia, la filosofia è stata compiuta dalla teologia, la rivelazione.

Redenta l’umanitá, ciascun uomo ha acquistato la virtú di salvarsi con l’aiuto di Dio. Guidato dalla ragione e dalla fede, fortificato dall’amore e dalla grazia, può affrancarsi da’ sensi e levarsi di mano in mano sino a Dio, al sommo bene.

Questo cammino, dalla materia o dal peccato sino allo spirito o al bene, comprende tutto il circolo della morale o etica. La conoscenza della morale (naturale e rivelata, filosofia e teologia) è perciò necessaria a salute.

La morale è il «Nosce te ipsum», la conoscenza di se stesso. L’uomo si trova in questa vita in uno de’ tre stati di cui tratta la morale: stato di peccato, stato di pentimento, stato di grazia. [p. 152 modifica]

L’altro mondo è figura della morale. L’inferno è figura del male o del vizio; il paradiso è figura del bene o della virtú; il purgatorio è il passaggio dall’uno all’altro stato mediante il pentimento e la penitenza. L’altro mondo è perciò figura de’ diversi stati, ne’ quali l’uomo si trova in questa vita11.

La rappresentazione dell’altro mondo è dunque un’etica applicata, una storia morale dell’uomo, com’egli la trova nella sua coscienza. Ciascuno ha dentro di sé il suo inferno e il suo paradiso.

Il viaggio nell’altro mondo è figura dell’anima nel suo cammino a redenzione. Ed è Dante stesso che fa questo viaggio.

Si trova in una selva oscura (stato d’ignoranza e di errore, la selva erronea del Convito); vede il dilettoso colle, «principio e cagione di tutta gioia» (la beatitudine), illuminato dal sole «che mena dritto altrui per ogni calle» (la scienza): ma tre fiere (la carne, gli appetiti sensuali) gli tengono il passo. L’uomo da sé non può salire il calle, non può giungere a salute: viene dunque il deus ex machina, l’aiuto soprannaturale. Si richiede non solo ragione ma fede, non solo amore ma grazia. Virgilio (ragione e amore) lo guida insino a che, confesso e pentito e purgato d’ogni macula terrena, succede Beatrice (ragione sublimata a fede, amore sublimato a grazia). Con questo aiuto esce dallo stato d’ignoranza e di errore (la selva), e prende il cammino della scienza (l’altro mondo, il mondo etico e morale). Gli si affaccia prima l’inferno (l’anima nello stato del male); e conosce il male nella sua natura, nelle sue specie, ne’ suoi effetti12. Entra allora in purgatorio (pentimento ed espiazione), dove ancor vive la memoria e l’istinto del male; e, conosciuto il suo stato, pentito e mondo, diventa libero (dalla carne o dal peccato). Si trova allora ricondotto allo stato d’innocenza, nel quale era l’uomo avanti il peccato d’origine; e vede il paradiso terrestre e vede Beatrice (fede e grazia). Con la sua guida sale in paradiso (l’anima nello stato di beatitudine); di grado in grado si leva sino [p. 153 modifica]alla conoscenza e amore (contemplazione beatifica) di Dio, del sommo bene, e in questa mistica congiunzione dell’umano e del divino si riposa (è beato).

La redenzione della societá ha luogo nello stesso modo che degl’individui. La societá serva della materia è anarchia, discordia, sviata dall’ignoranza e dall’errore. E come l’uomo non può ire a pace se non vinca la carne ed ubbidisca alla ragione, cosí la societá non può ridursi a concordia se non presti ubbidienza ad un supremo moderatore (l’imperatore), che faccia regnare la legge (la ragione), guida e freno dell’appetito13.

Con questo fondo generale si lega tutto lo scibile di quel tempo: metafisica, morale, politica, storia, fisica, astronomia, ecc.

Il centro intorno a cui gira questa vasta enciclopedia è il problema dell’umana destinazione, che si trova in fondo a tutte le religioni e a tutte le filosofie, il mistero dell’anima; pensiero della letteratura volgare sotto tutte le sue forme. Il problema è posto ed è sciolto cristianamente. L’umanitá ha perduto ed ha racquistato il paradiso: questa storia epica di Milton è l’antecedente del problema. L’umanitá ha racquistato il paradiso, cioè ciascun uomo ha acquistato la forza di salvarsi. Ma in che modo? qual è la via di salvazione? La Commedia è la risposta a questa domanda, la soluzione del problema.

Il cristianesimo ne’ primi tempi di fervore rispondea: — L’uomo si salva imitando Cristo che ha salvato l’umanitá, si salva con l’amore. Bisogna volger le spalle alla vita terrena e seguire Dio, lui amare, lui contemplare. — Di qui la preminenza della vita contemplativa, che Dante chiama «eccellentissima» e «simile alla [p. 154 modifica]vita divina». Il che dovea menar dritto alla visione estatica, alla comunione tra l’anima e Dio, al misticismo, tanta parte della letteratura volgare. Gli uomini stanchi del mondo cercavano pace e obblio nei monasteri, e nutrivano l’anima del pensiero della morte, della meditazione dell’altra vita; i santi padri esortano spesso i fedeli a volger la mente all’altro mondo; anche oggi le prediche, i libri ascetici, i libri di preghiera non sono che un continuo «Memento mori»; è famoso il «Pensa, anima mia», frase formidabile, a cui il lettore vede giá in aria venir dietro il giudizio universale e le fiamme dell’inferno. Se le cose di quaggiú sono caduche e «nulla promission rendono intera», se il significato serio della vita è nell’altro mondo, se lá è il vero, è la realtá; l’Iliade, il poema della vita, è la Commedia, la storia dell’altro mondo.

In quei primi tempi la scienza non è necessaria a salute; anzi i cristiani menavano vanto della loro ignoranza: «Beati pauperes spiritu». Avendo per avversari gli uomini piú dotti del paganesimo, rispondevano ex abundantia cordis, con la sicurezza e l’eloquenza della fede, la loro lingua di fuoco. Ma questo amore di cuori semplici, che spesso umiliava l’orgoglio di una scienza vòta e arida, non bastò piú appresso. Aristotile dominava nelle scuole; la scienza si era introdotta nella teologia e ne avea fatto un cumulo di sottigliezze; lo stesso misticismo avea preso forme scientifiche, divenuto ascetismo, scienza della santificazione, in Agostino, Bernardo e Bonaventura. L’amore dunque prende un contenuto, diviene scienza; e la loro unitá è la filosofia, uso amoroso di sapienza.

La scienza però non contraddice, non annulla, anzi fortifica e dimostra lo stesso concetto della vita. Anche per Dante la santificazione è posta nella contemplazione; l’oggetto della contemplazione è Dio; la beatitudine è la visione di Dio; al sommo della scala de’ beati mette i contemplanti, non gli operanti: ma per giungere all’unione con Dio non basta volere, bisogna sapere, ci vuole la sapienza che è amore e scienza, unitá del pensiero e della vita. Perciò Virgilio non può esser ragione che non sia anche amore, e Beatrice non può esser fede che non [p. 155 modifica]sia anche grazia: Dante stesso conosce e vuole a un tempo; ogni suo atto del conoscere mena a un suo atto del volere. L’intelletto è in cima della scala: l’amore dee essere inteso, se ne dee «avere intelletto».

Tale è la soluzione dantesca. A quattro secoli di distanza il problema si ripresenta, ma i termini sono mutati. Il punto di partenza non è piú l’ignoranza, la selva oscura; ma la sazietá e vacuitá della scienza, l’insufficienza della contemplazione, il bisogno della vita attiva. La sapiente Beatrice si trasforma nell’ignorante e ingenua Margherita; e Fausto non contempla ma opera: anzi il suo male è stato appunto la contemplazione, lo studio della scienza, e il rimedio che cerca è ribattezzarsi nelle fresche onde della vita. Ma al tempo di san Tommaso la ragione entrava appena nella sua giovinezza; sorgea da lungo ozio, curiosa, credula, acuta, tanto piú confidente quanto meno esperta della misura di sé e delle cose; le si domandava tutto e prometteva tutto. Dovea ella darci la pietra filosofale del mondo morale, la felicitá. Lo scopo della scienza non era speculativo solamente, ma pratico. Nell’ordine speculativo era giá conseguito il suo scopo, divenuta per Dante un libro chiuso di cui tutte le pagine sono scritte. Ma la scienza dee operare anche sulla volontá, menare a virtú e felicitá. E se questo miracolo non era ancora avvenuto, se la realtá era tanto disforme alla scienza, doveasene recare la cagione, secondo Dante e i contemporanei, all’ignoranza. Bisognava dunque volgarizzare la scienza, darle uno scopo morale, drizzarla all’opera. Indi l’importanza che ebbe l’etica e la rettorica, la scienza de’ costumi e l’arte della persuasione.

Note

  1.      Esce di mano a Lui, che la vagheggia,...
    l’anima semplicetta che sa nulla... (Purg., xvi, 85 e 88).
         Innata vi è la virtú che consiglia... (Purg., xviii, 62).
    L’animo, ch’è creato ad amar presto,
    ad ogni cosa è mobile che piace (Purg., xviii, 19-20).
  2.      Ciascun confusamente un bene apprende (Purg., xvii, 127)
  3.      Immagini di ben seguendo false (Purg., xxx, 131).
  4.                                    Le presenti cose
    col falso lor piacer volser miei passi (Purg., xxxi, 34-5).
  5.      Solo il peccato è quel che la disfranca
    e falla dissimile al sommo bene (Par., vii, 79-80).
  6.      Questo è il principio, lá onde si piglia
    cagion di meritare in voi... (Purg., xviii, 64-5).
         Color che ragionando andâro al fondo,
    s’accorser d’esta innata libertade,
    però moralitá lasciâro al mondo (Purg., xviii, 67-9).
  7. Convito, iii, 15.
  8. Convito, iii, 3.
  9. Convito, iv, 22.
  10. Paradiso, vii, 25 sgg.
  11. «Poëta agit de inferno isto, in quo, peregrinando ut viatores, mereri et demereri possumus» (Lettera a Can Grande) [§ 8, glossa marginale del cod. magliabecchiano, riferita nell’ediz. Fraticelli, p. 516, n. 1.]
  12. Vedi canto xi.
  13. «Omne, quod est bonum, per hoc est bonum, quod in uno consistit... Necesse est, ad optime se habere humanum genus, monarcham esse in mundo» (De monarchia, i, c. 17).

         Di picciol bene in pria sente sapore:
    quivi s’inganna e dietro ad esso corre,
    se guida o fren non torce lo suo amore.
         Però convenne leggi per fren porre,
    convenne rege aver, che discernesse
    della vera cittade almen la torre
         Le leggi son; ma chi pon mano ad esse? (Purg., xvi, 91-7).