Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/I. I siciliani

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Storia della letteratura italiana II. I toscani

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I

I SICILIANI


[La canzone di Ciullo e l’epoca letteraria della quale è documento — Elaborazione anteriore del volgare — Il volgare e la cultura in Sicilia — L’eco delle Crociate nelle canzoni siciliane — Motivi e forme popolari — Rinaldo d’Aquino, Odo delle Colonne e altri — L’esotismo e l’artificiositá nella cultura e poesia siciliane — Precoce «seicentismo» — Ruggieri Pugliese, Guido delle Colonne e Iacopo da Lentino — Perfezionamento della sintassi e della musicalitá — L’Intelligenzia e il sonetto dello «sparviere» — Caduta degli Svevi e fine della cultura siciliana.]


Il piú antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo (diminutivo di Vincenzo) di Alcamo, e una canzone di Folcacchiero da Siena.

Quale delle due canzoni sia anteriore, è cosa puerile disputare, essendo esse non principio ma parte di tutta un’epoca letteraria, cominciata assai prima e giunta al suo splendore sotto Federico secondo, da cui prese il nome.

Federico secondo, imperatore d’Alemagna e re di Sicilia, chiamato da Dante «cherico grande», cioè uomo dottissimo, fu, come leggesi nel Novellino, nobilissimo signore, nella cui corte a Palermo venía «la gente che avea bontade, sonatori, trovatori e belli favellatori». E perciò i rimatori di quel tempo, ancorché parecchi sieno d’altra parte d’Italia, furono detti «siciliani».

Che cosa è la cantilena di Ciullo?

È una tenzone, o dialogo, tra Amante e Madonna: Amante che chiede, e Madonna che nega e nega, e in ultimo concede: tema frequentissimo nelle canzoni popolari di tutti i tempi e [p. 2 modifica]luoghi, e che trovo anche oggi a Firenze nella Canzone tra il frustino e la crestaia.

Ciascuna domanda e risposta è in una strofa di otto versi, sei settenari, di cui tre sdruccioli e tre rimati, chiusi da due endecasillabi rimati. La lingua è ancor rozza e incerta nelle forme grammaticali e nelle desinenze, mescolata di voci siciliane, napolitane, provenzali, francesi, latine. Diamo ad esempio due strofe:

Amante


     Molte sono le femine
c’hanno dura la testa1,
e l’uomo con parabole2
le dimina3 e ammonesta4:
tanto intorno percacciale5
sinché l’ha in sua podestá6.
Femina d’uomo non si può tenere:
guárdati, bella, pur di ripentere7:

Madonna


     Che eo8 me ne pentesse?9
davanti10 foss’io auccisa11,
ca nulla buona femina
per me fosse riprisa12.

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Er sera13 ci passasti
correnno14 alla distisa15.
Acquistiti16 riposo, canzoneri17:
le tue paraole18 a me non piaccion gueri19.


La canzone è tirata giú tutta d’un fiato, piena di naturalezza e di brio e di movimenti drammatici, rapida, tutta cose, senza ombra di artificio e di rettorica. Ci è una finezza e gentilezza di concetti in forma ancor greggia, ineducata. E perciò il documento è piú prezioso, perché se l’ingegno del poeta apparisce ne’ concetti e ne’ sentimenti e nell’andamento vivo e rapido del dialogo, la forma è quasi impersonale, ritratto immediato e genuino di quel tempo.

E, studiando in quella forma, è facile indurre che c’era allora giá la nuova lingua, non ancora formata e fissata, ma tale che non solo si parlava ma si scriveva; e c’era pure una scuola poetica col suo repertorio di frasi e di concetti e con le sue forme tecniche e metriche giá fissate.

Chi sa quanto tempo si richiede perché una lingua nuova acquisti una certa forma che la renda atta ad essere scritta e cantata, può farsi capace che la lingua di Ciullo, ancoraché in uno stato ancora di formazione, dovea giá essere usata da parecchi secoli indietro.

E ci volle anche almeno un secolo perché fosse possibile una scuola poetica, giunta allora all’ultimo grado della sua storia, quando i concetti, i sentimenti e le forme diventano immobili come un dizionario e sono in tutti i medesimi. [p. 4 modifica]

Come e quando la lingua latina sia ita in decomposizione, quali erano i dialetti usati dalle varie plebi, come e quando siensi formate le lingue nuove o moderne neolatine, quando e come siesi formato il nostro volgare, si può congetturare con piú o meno di verisimiglianza, ma non si può affermare per la insufficienza de’ documenti. Oltreché, non è questo il luogo di esaminare e chiarire quistioni filologiche di cosí alto interesse, materia non ancora esausta di sottili e appassionate discussioni.

Si possono affermare alcuni fatti.

La lingua latina fu sempre in uso presso la parte colta della nazione, parlata e scritta da’ chierici, da’ dottori, da’ professori e da’ discepoli. Ricordano Malespini dice che Federico secondo seppe «la lingua nostra latina e il nostro volgare».

Ci erano dunque due lingue nostre nazionali, il latino e il volgare. E che accanto al latino ci fosse il volgare, parlato nell’uso comune della vita, si vede pure da’ contratti e istrumenti scritti in un latino che pare una traduzione dal volgare e dove, spesso, accanto alla voce latina trovi la voce in uso con un «vulgo dicitur» o «dicto».

Questo volgare non era in fondo che lo stesso latino, come erasi ito trasformando nel linguaggio comune, detto il «romano rustico». Nell’812 il concilio di Torsi raccomanda ai preti di affaticarsi a dichiarare le omelie in «lingua romana rustica». Questa lingua romana o romanza, dice Erasmo, presso gli spagnuoli, gli africani, i galli e le altre romane province era cosí nota alla plebe, che gli ultimi artigiani intendevano chi la parlasse, «solo che l’oratore si fosse accostato alla guisa del volgo». Il volgo dunque parlava un dialetto molto simile al romano; e similissimo a questo dovea essere il nostro volgare, anzi quasi non altro che questo, uno nelle sue forme sostanziali, vario ne’ diversi dialetti quanto alle sue parti accidentali, come desinenze, accenti, affissi, ecc. C’era dunque un tipo unico, presente in tutte le lingue neolatine e piú prossimo, come nota Leibnizio, alla lingua italica che ad alcun’altra.

Con lo scemare della coltura prevalsero i dialetti. Per le chiese, per le scuole, negli atti pubblici era usato un latino barbaro, [p. 5 modifica]molto simile alla lingua del volgo. Nell’uso comune il volgare non era parlato in nessuna parte, ma era dappertutto come il tipo unico a cui s’informavano i dialetti e che li certificava di una sola famiglia. Questo tipo o carattere de’ nostri dialetti appare e nella somiglianza de’ vocaboli e delle forme grammaticali e nei mezzi musicali e analitici sostituiti alla prosodia e alle forme sintetiche della lingua latina. Il nome generico della nuova lingua, come segno di distinzione dal latino, era il «volgare». Cosí Malespini dicea «la nostra lingua latina e il nostro volgare», cioè la nuova lingua parlata in tutta Italia dal volgo ne’ suoi dialetti.

Con lo svegliarsi della coltura, se parecchi dialetti rimasero rozzi e barbari come le genti che li parlavano, altri si pulirono con tendenza visibile a svilupparsi dagli elementi locali e plebei e prendere un colore e una fisonomia civile, accostandosi a quel tipo o ideale comune fra tante variazioni municipali, che non si era perduto mai, che era come criterio a distinguere fra loro i dialetti piú o meno conformi a quello stampo e che si diceva il «volgare», cosí prossimo al romano rustico.

Proprio della coltura è suscitare nuove idee e bisogni meno materiali, formare una classe di cittadini piú educata e civile, metterla in comunicazione con la coltura straniera, avvicinare e accomunare le lingue, sviluppando in esse non quello che è locale ma quello che è comune.

La coltura italiana produsse questo doppio fenomeno: la ristaurazione del latino e la formazione del volgare. Le classi piú civili da una parte si studiarono di scrivere in un latino meno guasto e scorretto: dall’altra, ad esprimere i sentimenti piú intimi e familiari della nuova vita, lasciando alla spregiata plebe i natii dialetti; cercarono forme di dire piú gentili, un linguaggio comune, dove appare ancora questo o quel dialetto, ma ci si sente giá uno sforzo ad allontanarsene e prendere quegli abiti e quei modi piú in uso fra la gente educata e che meglio la distinguano dalla plebe.

Questo linguaggio comune si forma piú facilmente dove sia un gran centro di coltura, che avvicini le classi colte e sia come [p. 6 modifica]il convegno degli uomini piú illustri. Questo fu a Palermo nella corte di Federico secondo, dove convenivano siciliani, pugliesi, toscani, romagnoli o, per dirla col Novellino, «dove la gente che avea bontade venía a lui da tutte le parti».

Il dialetto siciliano era giá sopra agli altri, come confessa Dante. E in Sicilia troviamo appunto un volgare cantato e scritto, che non è piú dialetto siciliano e non è ancora lingua italiana, ma è giá, malgrado gli elementi locali, un parlare comune a tutti i rimatori italiani, e che tende piú e piú a scostarsi dal particolare del dialetto e divenire il linguaggio delle persone civili.

La Sicilia avea avuto giá due grandi epoche di coltura: l’araba e la normanna. Il mondo fantastico e voluttuoso orientale vi era penetrato con gli arabi, e il mondo cavalleresco germanico vi era penetrato co’ normanni, che ebbero parte cosí splendida nelle Crociate. Ivi, piú che in altre parti d’Italia, erano vive le impressioni, le rimembranze e i sentimenti di quella grande epoca da Goffredo a Saladino; i canti de’ trovatori, le novelle orientali, la Tavola rotonda, un contatto immediato con popoli cosí diversi di vita e di coltura, avea colpito le immaginazioni e svegliata la vita intellettuale e morale. La Sicilia divenne il centro della coltura italiana. Fin dal 1166 nella corte del normanno Guglielmo secondo convenivano i trovatori italiani. Sotto Federico secondo l’Italia colta avea la sua capitale in Palermo. Tutti gli scrittori si chiamavano «siciliani». Cronache e trattati scrivevano in un latino giá meno rozzo, anzi ricercato e pretensioso, come si vede nel Falcando. I sentimenti e le idee nuove avevano la loro espressione in quel romano rustico, fondo comune di tutt’i dialetti e divenuto il parlare della gente colta, il «volgare», di tutt’i volgari moderni il piú simile al latino.

La lingua di Ciullo non è dialetto siciliano, ma giá il volgare, com’era usato in tutt’i trovatori italiani, ancora barbaro, incerto e mescolato di elementi locali, materia ancora greggia.

Vi si trova una forma poetica molto artificiosa e musicale, con un gioco assai bene inteso di rime e grande ricchezza e spontaneitá di forme e di concetti. Per giungere fin qui è stato necessario un lungo periodo di elaborazione. Ciullo è l’eco [p. 7 modifica]ancora plebea di quella vita nuova svegliatasi in Europa al tempo delle Crociate e che avea avuta la sua espressione anche in Italia, e massime nella normanna Sicilia. Di quella vita un’espressione ancor semplice e immediata, ma piú nobile, piú diretta e meno locale, è nella romanza attribuita al re di Gerusalemme e nel Lamento dell’amante del crociato di Rinaldo d’Aquino. Sentimenti gentili e affettuosi sono qui espressi in lingua schietta e di un pretto stampo italiano, con semplicitá e veritá di stile, con melodia soave. Cantato e accompagnato da istrumenti musicali, questo «sonetto», come lo chiama l’innamorata, dovea fare la piú grande impressione. Comincia cosí:

     Giammai non mi conforto
né mi voglio allegrare.
Le navi sono al porto
e vogliono collare.
Vassene la piú gente
in terra d’oltremare.
Ed io, oimè lassa dolente!
come degg’io fare?
     Vassene in altra contrata,
e nol mi manda a dire:
ed io rimango ingannata.
Tanti son li sospire
che mi fanno gran guerra
la notte con la dia;
né in cielo né in terra
non mi par ch’io sia.

Il séguito della canzone è una tenera e naturale mescolanza di preghiere e di lamenti, ora raccomandando a Dio l’amato, ora dolendosi con la croce:

La croce mi fa dolente,
e non mi val Deo pregare.
Oimè, croce pellegrina,
perché m’hai cosí distrutta?
oimè lassa tapina!
ch’io ardo e incendo tutta.

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Finisce cosí:

     Però ti prego, Dolcetto,
che sai la pena mia,
che me ne facci un sonetto
e mandilo in Soria:
ch’io non posso abentare
notte né dia:
in terra d’oltremare
ita è la vita mia.

La lezione è scorretta; pure questa è giá lingua italiana, e molto sviluppata ne’ suoi elementi musicali e ne’ suoi lineamenti essenziali.

L’amante che prega e chiede amore, l’innamorata che lamenta la lontananza dell’amato o che teme di essere abbandonata, le punture e le gioie dell’amore, sono i temi semplici de’ canti popolari, la prima effusione del cuore messo in agitazione dall’amore. E queste poesie, come le piú semplici e spontanee, sono anche le piú affettuose e le piú sincere. Sono le prime impressioni, sentimenti giovani e nuovi, poetici per se stessi, non ancora analizzati e raffinati.

Di tal natura è il Lamento dell’innamorato per la partenza in Soria della sua amata di Ruggerone da Palermo e il canto di Odo delle Colonne da Messina, dove l’innamorata con dolci lamenti effonde la sua pena e la sua gelosia. Eccone il principio:

     Oi lassa innamorata,
contar vo’ lo mia vita,
e dire ogni fiata
come l’amor m’invita,
ch’io son, senza peccata,
d’assai pene guernita
per uno che amo e voglio
e non aggio in mia baglia20,
siccome aver io soglio;
però pato travaglia.

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Ed or mi mena orgoglio,
lo cor mi fende e taglia.
     Oi lassa tapinella,
come l’amor m’ha prisa!
come lo cor m’infella
quello che m’ha conquisa!
La sua persona bella
tolto m’ha gioco e risa,
ed hammi messa in pene
ed in tormento forte:
mai non credo aver bene,
se non m’accorre morte,
e spero, lá che vene,
traggami d’esta sorte.
     Lassa! che mi dicía,
quando m’avia in celato:
— Di te, o vita mia,
mi tegno piú pagato,
che s’i’avessi in balia
lo mondo a signorato.


Sono sentimenti elementari e irridessi, che sbuccian fuori nella loro natia integritá senza immagini e senza concetti. Non ci è poeta di quel tempo, anche tra’ meno naturali, dove non trovi qualche esempio di questa forma primitiva, elementare, «a suon di natura», come dice un poeta popolare, e com’è una prima e súbita impressione còlta nella sua sinceritá. Ed è allora che la lingua esce cosí viva e propria e musicale che serba una immortale freschezza, e la diresti «pur mò nata», e fa contrasto con altre parti ispide dello stesso canto. Rozza assai è una canzone di Enzo re; ma chi ha pazienza di leggerla vi trova questa gemma:

Giorno non ho di posa,
come nel mare l’onda:
core, ché non ti smembri?
esci di pene e dal corpo ti parte:
ch’assai val meglio un’ora
morir che ognor penare.

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Rozzissima è una canzone di Folco di Calabria, poeta assai antico; ma nella fine trovi lo stesso sentimento in una forma certo lontana da questa perfezione, pur semplice e sincera:

Perzò meglio varria
morir in tutto in tutto,
ch’usar la vita mia
in pena ed in corrutto,
com’uomo languente.

Nella canzone a stampa di Folcacchiero da Siena, fredda e stentata, è pure qua e colá una certa grazia nella nuda ingenuitá di sentimenti che vengon fuori nella loro cruditá elementare. Udite questi versi:

E’ par ch’eo viva in noia della gente:
ogn’uomo m’è selvaggio:
non paiono li fiori
per me com’ giá soleano,
e gli augei per amori
dolci versi faceano — agli albori.

Questi fenomeni amorosi sono a lui cosa nuova, che lo empiono di maraviglia e lo commuovono e lo interessano, senza ch’ei senta bisogno di svilupparli o di abbellirli. Narra, non rappresenta e non descrive. Non è ancora la storia, è la cronaca del suo cuore.

Però niente è in questi che per ingenuitá e spontaneitá di forma e di sentimento uguagli il canto di Rinaldo di Aquino e di Odo delle Colonne. Sono due esempli notevoli di schietta e naturale poesia popolare.

Ma la coltura siciliana avea un peccato originale. Venuta dal di fuori, quella vita cavalleresca, mescolata di colori e rimembranze orientali, non avea riscontro nella vita nazionale. La gaia scienza, il codice d’amore, i romanzi della Tavola rotonda, i Reali di Francia, le novelle arabe, Tristano, Isotta, Carlomagno e Saladino, il soldano, tutto questo era penetrato in Italia; e se colpiva l’immaginazione, rimaneva estraneo all’anima e alla vita [p. 11 modifica]reale. Nelle corti ce ne fu l’imitazione. Avemmo anche noi i trovatori, i giullari e i novellatori. Vennero in voga traduzioni, imitazioni, contraffazioni di poemi, romanzi, rime cavalleresche. L’Intelligenzia, poema in nona rima ultimamente scoperto, è una imitazione di simil genere. L’amore divenne un’arte, col suo codice di leggi e costumi. Non ci fu piú questa o quella donna, ma la donna con forme e lineamenti fissati, cosí come era concepita ne’ libri di cavalleria. Tutte le donne sono simili. E cosí gli uomini: tutti sono il cavaliere, con sentimenti fattizi e attinti da’ libri. Ma il movimento si fermò negli strati superiori della societá e non penetrò molto addentro nel popolo, e non durò. Forse, se la Casa sveva avesse avuto il di sopra, questa vita cavalleresca e feudale sarebbe divenuta italiana. Ma la caduta di Casa sveva e la vittoria de’ comuni nell’Italia centrale fecero della cavalleria un mondo fantastico, simile a quel favoleggiare di Roma, di Fiesole e di Troia.

Essendo idee, sentimenti e immagini una merce bella e fatta, non trovate e non lavorate da noi, si trovano messe lí, come tolte di peso, con manifesto contrasto tra la forma ancor rozza e i concetti peregrini e raffinati. Sono concetti scompagnati dal sentimento che li produsse, e che non generano alcuna impressione. Quando vengono sotto la penna, il cervello e il cuore sono tranquilli. Il poeta dice che amore lo fa «trovare», lo rende un trovatore; ma è un amore come lo trova scritto nel codice e ne’ testi, né ti è dato sentire ne’ suoi versi una tragedia sua, le sue agitazioni. Le reminiscenze, le idee in voga gli tengono luogo d’ispirazione. Sono migliaia di poesie, tutte di un contenuto e di un colore, cosí somiglianti che spesso sei impacciato a dire il tempo e l’autore del canto, ove ne’ codici sia discordanza o silenzio: ciò che non di rado accade. La poesia non è una prepotente effusione dell’anima, ma una distrazione, un sollazzo, un diporto, una moda, una galanteria. È un passatempo come erano le corti d’amore, è la «gaia scienza», un modo di passarsela allegramente e acquistarsi facile riputazione di spirito e di coltura facendo sfoggio della dottrina d’amore; e chi piú mostrava saperne era piú ammirato. Invano cerchi ne’ canti di [p. 12 modifica]Federico, di Enzo, di Manfredi, di Pier delle Vigne le preoccupazioni o le agitazioni della loro vita: vi trovi il solito codice d’amore con le stesse generalitá. L’arte diviene un mestiere, il poeta diviene un dilettante; tutto è convenzionale, concetti, frasi, forme, metri: un meccanismo che dovea destare grande ammirazione nel volgo, specialmente usato dalle donne; la Nina siciliana e la Compiuta donzella fiorentina dovettero parere un miracolo.

Quello che avvenne si può indovinare. Migliori poeti son quelli che scrivono senza guardare all’effetto e senza pretensione, a diletto e a sfogo e come viene. Anche nelle poesie piú rozze trovi bei movimenti di affetto e d’immaginazione, con una gentilezza e leggiadria di forma che viene dal di dentro. Sono piú vicini al sentimento popolare e alla natura. Ma quando vai su, quando ti accosti a quella poesia che Dante chiama «aulica e cortigiana», ti trovi giá lontano dal vero e dalla natura, ed hai tutt’i difetti di una scuola poetica nata e formata fuori d’Italia, e giá meccanizzata e raffinata. Hai tutt’i difetti della decadenza, un seicentismo che infetta l’arte ancora in culla. Ci è giá un repertorio. Il poeta dotto non prende quei concetti cosí crudi e nudi, come fanno i rozzi nella loro semplicitá; ma per fare effetto li assottiglia e li esagera. Nei rozzi non ci è alcun lavoro: in questi un lavoro c’è, ma freddo e meccanico. Concetti, immagini, sentimenti, frasi, metri, rime, tutto è sforzato, tormentato, oltrepassato, sí che il lettore ammiri la dottrina, lo spirito e le difficoltá superate. Trovi insieme rozzezza e affettazione. La lingua ancor giovane non è raffinata come il concetto, e scopre l’artificio di un lavoro a cui rimane estranea. E fosse almeno originale questo lavoro, si che rivelasse nel poeta una vera svegliatezza e attivitá dello spirito! Ma è un seicentismo venuto anch’esso dal di fuori. Eccone un esempio:

     Umile sono ed orgoglioso,
prode e vile e coraggioso,
franco e sicuro e pauroso,
e sono folle e saggio...

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facciome prode e dannaggio,
e diraggio:
— Vi’ corno
mal e bene aggio
piú che null’omo.


Cosí comincia una canzone Ruggieri Pugliese, tutta su questo andare; dove la rozzezza e la negligenza della forma esclude ogni serietá di lavoro: è una litania di antitesi racimolate qua e lá e messe insieme a casaccio.

I poeti siciliani di questo genere piú ammirati a quei tempi sono Guido delle Colonne e il notaio Iacopo da Lentino.

Guido, dottore o, come allora dicevasi, giudice, fu uomo dottissimo. Scrisse cronache e storie in latino, e voltò di greco in latino la Storia della caduta di Troia di Darete, una versione che fu poi recata parecchie volte in volgare. Un uomo par suo sdegna di scrivere nel comune volgare, e tende ad alzarsi, ad accostarsi alla maestá e gravitá del latino; sí che meritò che Dante le sue canzoni chiamasse «tragiche», cioè del genere nobile e illustre. Ma la natura non lo avea fatto poeta, e la sua dottrina e il lungo uso di scrivere non valse che a fargli conseguire una perfezione tecnica della quale non era esempio avanti. Hai un periodo ben formato, molta arte di nessi e di passaggi, uno studio di armonia e di gravitá: artificio puramente letterario e a freddo. Manca il sentimento; supplisce l’acutezza e la dottrina, studiandosi di fare effetto con la peregrinitá d’immagini e concetti esagerati e raffinati, che parrebbero ridicoli se non fossero incastonati in una forma di grave e artificiosa apparenza. Ecco un esempio:

     Ancor che l’aigua21 per lo foco lasse
la sua grande freddura,
non cangerea natura,
se alcun vasello in mezzo non vi stasse;

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anzi avverrea senza alcuna dimura
che lo foco stutasse,
o che l’aigua seccasse;
ma per lo mezzo l’uno e l’altro dura.
Cosí, gentil criatura,
in me ha mostrato Amore
l’ardente suo valore,
che senz’amore — era aigua fredda e ghiaccia.
Ma el m’ha sí allumato
di foco, che m’abbraccia,
ch’eo fôra consumato,
se voi, donna sovrana,
non foste voi mezzana
infra l’Amore e meve,
che fa lo foco nascere di neve.


E non si ferma qui, e continua con l’acqua e il foco e la neve, e poi dice che il suo spirito è ito via, e lo «spirito ch’io aggio, credo lo vostro sia che nel mio petto stia», e conchiude ch’ella lo tira a sé, ed ella sola può, come di tutte le pietre la sola calamita ha balía di trarre: paragone in cui spende tutta la strofa, spiegando come la calamita abbia questa virtú. Questi son concetti e freddure, dissimulate nell’artificio della forma; perché, se guardi alla condotta del periodo, all’arte de’ passaggi, alla stretta concatenazione delle idee, alla felicitá dell’espressione in dir cose cosí sottili e difficili, hai poco a desiderare.

In Iacopo da Lentino questa maniera è condotta sino alla stravaganza, massime ne’ sonetti. Non mancano movimenti d’immaginazione ed una certa energia d’espressione, come:

     Ben vorria che avvenisse
che lo meo core uscisse
come incarnato tutto,
e non dicesse mutto — a voi sdegnosa:
ché Amore a tal m’addusse
che, se vipera fusse,
naturia perderea:
ella mi vederea: — fôra pietosa.

[p. 15 modifica]Ma son affogati fra paragoni, sottigliezze e freddure, che nella rozza e trascurata forma spiccano piú, e sono reminiscenze, sfoggio di sapere. Non sente amore, ma sottilizza d’amore, come:

     Fino amor di fin cor vien di valenza
e scende in alto core somigliante,
e fa di due voleri una voglienza,
la qual è forte piú che lo diamante,
     legandoli con amorosa lenza,
che non si rompe né scioglie l’amante.

Su questa via giunge sino alla piú goffa espressione di una maniera falsa e affettata, come è un sonetto che comincia:

     Lo viso, e son diviso dallo viso,
e per avviso credo ben visare,
però diviso viso dallo viso,
ch’altr’è lo viso che lo divisare, ecc.

Nondimeno questi passatempi poetici, se rimasero estranei alla serietá e intimitá della vita, ebbero non piccola influenza nella formazione del volgare, sviluppando le forme grammaticali e la sintassi e il periodo e gli elementi musicali, come si vede principalmente in Guido delle Colonne. Ne’ piú rozzi trovi de’ brani di un colore e di una melodia che ti fa presentire il Petrarca. Valgano a prova alcuni versi nella canzone attribuita a re Manfredi:

     E vero certamente credo dire,
che fra le donne voi siete sovrana
e d’ogni grazia e di virtú compíta,
per cui morir d’amor mi saria vita.

L’Intelligenzia, poema allegorico, pieno d’imitazioni e di contraffazioni, ha una perfezione di lingua e di stile, che mostra nell’ignoto autore un’anima delicata, innamorata, aperta alle bellezze della natura, e fa presumere a quale eccellenza di forma [p. 16 modifica]era giunto il volgare. C’è una descrizione della primavera, non nuova di concetti, ma piena di espressione e di soavitá, come di chi ne ha il sentimento. E continua cosí:

     Ed io stando presso a una fiumana,
in un verziere, all’ombra d’un bel pino,
aveavi d’acqua viva una fontana
intorneata di fior gelsomino.
Sentía l’áire soave a tramontana,
udía cantar gli augelli in lor latino;
allor sentío venir dal fino Amore
un raggio che passò dentro dal core,
come la luce appare sul mattino.

E descrive cosí la sua donna:

     Guardai le sue fattezze dilicate,
che nella fronte par la stella Diana,
tant’è d’oltremirabile biltate,
e ne l’aspetto sí dolce ed umana!
Bianca e vermiglia di maggior clartate
che color di cristallo o fior di grana:
la bocca picciolella ed aulorosa,
la gola fresca e bianca piú che rosa,
la parlatura sua soave e piana.
     Le bionde trecce e i begli occhi amorosi,
che stanno in sí salutevole loco,
quando li volge, son sí dilettosi
che ’l cor mi strugge come cera foco.
Quando spande li sguardi gaudiosi,
par che il mondo s’allegri e faccia gioco...

Qui ci è un vero entusiasmo lirico, il sentimento della natura e della bellezza: ond’è nata una mollezza e dolcezza di forma, che con poche correzioni potresti dir di oggi; cosí è giovine e fresca.

E se il sonetto dello «sparviere» è della Nina, se è lavoro di quel tempo, come non pare inverisimile, è un altro esempio della [p. 17 modifica]eccellenza a cui era venuto il volgare, maneggiato da un’anima piena di tenerezza e d’immaginazione:

     Tapina me che amava uno sparviero;
amaval tanto ch’io me ne moria;
a lo richiamo ben m’era maniero,
ed unque troppo pascer noi dovia.
     Or è montato e salito sí altero,
assai piú altero che far non solia;
ed è assiso dentro a un verziero,
e un’altra donna l’averá in balia.
     Isparvier mio, ch’io t’avea nodrito;
sonaglio d’oro ti facea portare,
perché nell’uccellar fossi piú ardito;
     or sei salito siccome lo mare,
ed hai rotti li geti22 e sei fuggito
quando eri fermo nel tuo uccellare.

Con la caduta degli Svevi questa vivace e fiorita coltura siciliana stagnò, prima che acquistasse una coscienza piú chiara di sé e venisse a maturitá. La rovina fu tale che quasi ogni memoria se ne spense, ed anche oggi, dopo tante ricerche, non hai che congetture, oscurate da grandi lacune.

Nata feudale e cortigiana, questa coltura diffondevasi giá nelle classi inferiori ed acquistava una impronta tutta meridionale. Il suo carattere non è la forza né l’elevatezza, ma una tenerezza raddolcita dall’immaginazione e non so che molle e voluttuoso fra tanto riso di natura. Anche nella lingua penetra questa mollezza, e le dá una fisonomia abbandonata e musicale, come d’uomo che canti e non parli, in uno stato di dolce riposo: qualitá spiccata de’ dialetti meridionali.

La parte ghibellina, sconfitta a Benevento, non si rilevò piú. Lo nobile signore Federico e il bennato re Manfredi dieron luogo ai papi e agli Angioini loro fidi. La parte popolana ebbe il di sopra in Toscana, e la libertá de’ comuni fu assicurata. La [p. 18 modifica]vita italiana, mancata nell’Italia meridionale in quella sua forma cavalleresca e feudale, si concentrò in Toscana. E la lingua fu detta «toscana», e «toscani» furon detti i poeti italiani. De’ siciliani non rimase che questa epigrafe:





Note

  1. Sono ostinate.
  2. «Parabole» o «paraole», parole. Nel basso latino si dice «parabola».
  3. «Dimina» come «dimino», per domina o domino.
  4. Persuade, ammonisce. In provenziale e spagnuolo si dice «admonestar».
  5. «Percacciare», dar la caccia: in provenzale «percassar».
  6. «Potestas», podestá; come «maiestas», maestá.
  7. «Pentere», «ripentere», dal latino «poenitere».
  8. «Eo» da «ego», come «meo» da «meus», ablativo «meo».
  9. «Pentessi», pentissi: desinenza conforme alla latina «poenituisset».
  10. Piuttosto o innanzi: in provenzale «davant».
  11. In napoletano «acciso», nel basso latino «aucir», nel provenzale «aucir» e «aucis», nell’antico francese «occire».
  12. Nel basso latino «prisus» e «riprisus», in siciliano «prisu» e «riprisu». «Ca» vuol dire ché, o perché, ed è napoletano.
  13. Ieri sera: in provenzale «er sera», dal latino «heri sero».
  14. «Correnno», forma napoletana: «quanno, murino, dicenno, correnno», ecc.
  15. «Alla distisa», a tutta corsa.
  16. «Acquistiti» in luogo di «acquistati», desinenza dell’imperativo usata anche oggi in parecchi luoghi: «acquistiti riposo» vuol dire «vattene in pace, ritirati e finiscila, acquétati».
  17. «Canzoneri, canzonerò, canzonere» vuol dire canzonatore, burlatore.
  18. «Paraole» o «parabole», in provenzale «paraulas».
  19. «Gueri» o, come è in Brunetto Latini, «guero»: guari, punto, niente affatto: in francese «guère».
  20. «Baglia», balia.
  21. Acqua.
  22. «Geto» è un lacciuolo di pelle che si lega a’ piè degli uccelli.