Storia d'Italia/Libro VII/Capitolo VI
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VI
Non movevano queste preparazioni i genovesi, intenti alla occupazione di Monaco, ove aveano intorno molti legni, e semila uomini di gente raccolta tumultuariamente della plebe e del contado, sotto il governo di Tarlatino capitano de’ pisani, il quale insieme con Piero Giambacorta e alcuni altri soldati era stato mandato da loro in favore de’ genovesi. E a Genova, perseverandosi e moltiplicando continuamente negli errori, il castellano del Castelletto, che insino ad allora era stato quietissimo né aveva avuto dal popolo molestia alcuna, o per comandamento del re o per cupiditá di rubare, fece all’improviso prigioni molti del popolo, e cominciò a molestare con l’artiglierie il porto e la cittá; per il che Roccalbertino entrato in timore di se medesimo si partí, e i fanti franzesi che erano alla guardia del palagio publico si rifuggirno nel Castelletto. Ebbe poco dipoi fine l’assedio stato molti mesi intorno a Monaco: perché intendendo quegli che vi erano accampati che per soccorrerlo s’approssimavano Ivo d’Allegri e i principali de’ gentiluomini con tremila fanti soldati da loro e con altre genti mandate dal duca di Savoia, non avendo avuto ardire di aspettargli, se ne levorono. E giá divulgava la fama passare continuamente in Lombardia l’esercito destinato dal re: per la qual cosa accendendosi il furore di quegli ne’ quali doveva essere cagione di migliori consigli, la moltitudine, che insino a quel dí, avendo dissimulato con le parole quella ribellione che esercitava con l’opere, gridava il nome del re di Francia né avea rimosso de’ luoghi publici i segni suoi, creò doge di Genova Paolo di Nove tintore di seta, uomo della infima plebe; scoprendosi per questo in manifestissima ribellione, perché con la creazione del doge era congiunta la dichiarazione che la cittá di Genova non fusse sottoposta a principe alcuno. Le quali cose eccitando l’animo del re a maggiore indegnazione, ed essendogli significato da’ nobili che in luogo de’ segni suoi aveva posto i segni di Cesare, augumentò le provisioni prima ordinate: commosso ancora piú perché Cesare, stimolato da’ genovesi e forse occultamente dal pontefice, l’avea confortato a non molestare Genova come terra di imperio, offerendo di interporsi col popolo perché si riducessino alle cose che fussino giuste. Nutrirno qualche poco l’audacia del nuovo doge e de’ tribuni i successi prosperi che ebbono nella riviera di levante: perché avendo Ieronimo figliuolo di Gianluigi dal Fiesco con dumila fanti e alcuni cavalli recuperato Rapallo, e andando di notte per prendere Recco, scontrandosi con le genti che vi venivano in soccorso da Genova, si messono, senza combattere, disordinatamente in fuga; la fuga de’ quali venendo agli orecchi di Orlandino nipote di Gianluigi, che con un’altra moltitudine di gente era disceso a Recco, si messe medesimamente in fuga. Onde diventati il doge e i tribuni piú insolenti assaltorno il Castellaccio, fortezza antica ne’ monti sopra Genova edificata da’ signori di Milano quando dominavano quella cittá acciò che, quando fusse necessario, le genti mandate da loro di Lombardia potessino accostarsi a Genova e soccorrere il Castelletto; nel quale essendo piccola guardia lo occuporono facilmente, perché quegli pochi franzesi che vi erano si arrenderono sotto la fede di essere salva la vita e la roba loro: la quale fede fu incontinente violata, gloriandosi quegli che avevano fatto tale eccesso, per segno del quale tornorono in Genova con le mani sanguinose e con allegrezza grande. E nel tempo medesimo cominciorno a battere con l’artiglierie il Castelletto e la chiesa di San Francesco contigua a quello.
Ma era giá passato il re in Italia, e l’esercito si andava continuamente raccogliendo per assaltare Genova senza indugio. E nondimeno i genovesi, abbandonati di ogni sussidio, perché il re cattolico benché desideroso della conservazione loro non voleva separarsi dal re di Francia, anzi l’aveva accomodato di quattro galee sottili, né il pontefice ardiva dimostrare con altro che con occulti conforti e speranze l’animo suo, avendo solo trecento fanti forestieri, non capitani esperti di guerra, carestia di munizione, persistevano nella ostinazione; confidandosi d’avere, per la strettezza de’ passi e difficoltá e asprezza del paese, facilmente a proibire che gli inimici non si accostassino a Genova: per la quale vana speranza disprezzavano i conforti di molti, e specialmente del cardinale dal Finale; il quale seguitando il re gli confortava, con spessi messi e lettere, a rimettersi nella volontá sua, dando loro speranza di conseguire facilmente venia e tollerabili condizioni. Ma camminando giá l’esercito per la via del Borgo de’ Fornari e di Serravalle, cominciorono ad apparire vani i disegni de’ genovesi, non discorsi né misurati dagli uomini periti della guerra ma co’ clamori e con la iattanza vana della vile e imperita moltitudine. Però, non corrispondendo gli animi degli uomini nel pericolo presente a quello che temerariamente, quando il timore era lontano, si erano promessi, seicento fanti de’ loro che erano a guardia de’ primi passi, accostandosi i franzesi, vilmente si fuggirono; onde perduto l’animo tutti gli altri che erano alla guardia de’ passi si ritirorono in Genova, lasciandogli liberi a franzesi: l’esercito de’ quali, avendo giá passato senza ostacolo alcuno il giogo de’ monti, era sceso nella valle di Pozevera appresso a Genova miglia sette, con grandissima ammirazione de’ genovesi, che contro a quello che si erano scioccamente persuasi ardisse di alloggiare in quella valle circondata da monti asprissimi, e in mezzo di tutto il paese inimico. Nel quale tempo l’armata del re di otto galee sottili otto galeoni molte fuste e brigantini, presentatasi innanzi a Genova, era passata verso Portovenere e la Spezie, seguitando l’armata genovese di sette galee e sei barche; la quale non avendo ardire di fermarsi nel porto di Genova si era ritirata in quegli luoghi. Di val di Pozevera andò l’esercito ad alloggiare nel borgo di Rivarolo distante da Genova due miglia, e presso alla chiesa di San Piero della Rena, che è contigua al mare; e benché camminando scontrassino a piú passi fanti de’ genovesi, nondimeno tutti, non dimostrando maggiore virtú che avessino fatto gli altri, si ritirorono. E il dí medesimo arrivò all’esercito la persona del re, il quale alloggiò nella badia del Boschetto a rincontro del borgo di Rivarolo, accompagnato dalla maggiore parte della nobiltá di Francia, da moltissimi gentiluomini dello stato di Milano e dal marchese di Mantova: il quale il re aveva pochi dí innanzi dichiarato capo dell’ordine di San Michele, e donatogli lo stendardo il quale dopo la morte di Luigi undecimo non era mai stato dato ad alcuno: ed erano nell’esercito ottocento lancie (perché il re avea, rispetto all’asprezza del paese, lasciate l’altre in Lombardia) mille ottocento cavalli leggieri seimila svizzeri e seimila fanti di altre nazioni.
Avevano i genovesi, per non lasciare libero il cammino per il quale per i monti si va al Castellaccio, dipoi a Genova, per via piú corta che per la strada di San Piero della Rena contigua alla marina, edificato uno bastione in su l’altezza del monte che si dice la Montagna del promontorio, tra il borgo di Rivarolo e San Piero in Arena: dal quale bastione si andava al Castellaccio per la schiena del poggio. A questo bastione si indirizzò l’esercito, il dí medesimo che era alloggiato a Rivarolo; e da altra parte uscirno di Genova ottomila fanti guidati da Iacopo Corso luogotenente di Tarlatino, perché Tarlatino e i soldati de’ pisani, fermatisi, quando il campo si levò da Monaco, in Ventimiglia, non aveano potuto, quando furno richiamati da’ genovesi i quali mandorno la nave di Demetrio Giustiniano per condurgli, tornare a Genova, né per la via di terra per lo impedimento de’ franzesi, né per mare per i venti contrari. Ma cominciando giá i franzesi a salire scoperseno i fanti de’ genovesi, i quali saliti in sul monte, per il colle per il quale si andava al bastione, e dipoi discesane la maggiore parte, aveva fatto testa in su uno poggetto che è a mezzo il monte: contro a’ quali mandò Ciamonte a combattere molti gentiluomini e buono numero di fanteria: da’ quali i genovesi, per la moltitudine e per il vantaggio del sito, si difendevano valorosamente, e con danno non piccolo de’ franzesi perché, disprezzando gli inimici come raccolti quasi tutti di artefici e di uomini del paese, andavano volonterosamente, non considerando la fortezza del luogo, ad assaltargli; e giá era stato ferito, benché non molto gravemente, la Palissa nella gola. Ma Ciamonte, volendo spuntargli di quello luogo, fece tirare ad alto due cannoni, i quali battendogli per fianco gli sforzorono a ritirarsi verso il monte, in sul quale era rimasta l’altra parte delle loro genti; dove seguitandogli ordinatamente i franzesi, quegli che erano a guardia del bastione, ancorché per il sito e per la fortificazione che vi era stata fatta potessino sicuramente aspettare l’artiglierie, dubitando che tra loro e la gente che era in sul monte non entrasse in mezzo qualche parte de’ franzesi, l’abbandonorono con somma infamia; donde quegli che dal poggetto avevano cominciato a ritirarsi verso il bastione, vedutosi tagliato il cammino, presono fuori della strada consueta per balze e aspri precipizi la via di Genova, essendo nel ritirarsi morti di loro circa trecento. Dal quale successo essendo ripiena di incredibile terrore tutta la cittá, la quale governata secondo la volontá della infima plebe non si reggeva né con consiglio militare né con prudenza civile, mandorono due oratori nello esercito a trattare di darsi con capitoli convenienti; i quali, non ammessi agli orecchi del re, furono uditi dal cardinale di Roano, e da lui ebbono risposta che il re avea deliberato non accettargli se in lui non rimettevano senza altro patto assolutamente l’arbitrio di se stessi e di tutte le cose loro: ma mentre che trattavano con lui, una parte della plebe che recusava l’accordo, uscita tumultuosamente di Genova, si scoperse con molti fanti per i poggi e per il colle, che veniva dal Castellaccio, e si accostorono a uno quarto di miglio al bastione per recuperarlo; e avendo scaramucciato co’ franzesi che erano usciti loro incontro, per spazio di tre ore, si ritirorono senza vantaggio di alcuna delle parti al Castellaccio. Nel quale tempo il re, dubitando di maggiore movimento, stette continuamente armato con molta gente a cavallo nel piano tra ’l fiume della Pozevera e l’alloggiamento dello esercito. E nondimeno la notte seguente, disperate le cose loro, ed essendo fama che i principali del popolo avevano composto occultamente col re insino quando era in Asti, lamentandosi la plebe di essere ingannata, il doge, con molti di quegli che per le cose commesse non speravano perdono e con quella parte de’ pisani che vi era, si partí per andare a Pisa; e la mattina come fu dí, tornati in campo i medesimi imbasciadori, acconsentirono di dare la cittá alla discrezione del re: non avendo sostenuta piú che otto dí la guerra, con grandissimo esempio della imperizia e confusione de’ popoli che, fondandosi in su speranze fallaci e disegni vani, feroci quando è lontano il pericolo, perduti poi presto d’animo quando il pericolo è vicino, non ritengono alcuna moderazione.
Fatto l’accordo, il re con l’esercito si accostò a Genova, alloggiati i fanti ne’ borghi; i quali non ebbe piccola difficoltá a ritenere, massimamente i svizzeri, che non vi entrassino per saccheggiarla. Entrò dipoi in Genova con la maggiore parte delle altre genti, avendo prima messa la guardia nel Castellaccio, Ciamonte; al quale i genovesi consegnorono tutte le armi publiche e private che furono condotte nel Castelletto, e tre pezzi di artiglieria quali vi avevano condotti i pisani; che furono poi mandate a Milano: e il dí prossimo, che fu il vigesimonono d’aprile, entrò in Genova la persona del re con tutte le genti d’arme e arcieri della guardia, ed egli appiedi sotto il baldacchino, armato tutto con l’armi bianche, con uno stocco nudo in mano. Al quale si feciono incontro gli anziani con molti de’ piú onorati cittadini; i quali essendosegli gittati innanzi a’ piedi con molte lagrime, uno di loro, poiché alquanto fu fatto silenzio, in nome di tutti parlò cosí:
— Noi potremmo affermare, cristianissimo e clementissimo re, che se bene al principio delle contenzioni co’ nostri gentiluomini intervenne quasi la maggiore parte de’ popolari, nondimeno che l’esercitarle insolentemente, e molto piú la contumacia e la inubbidienza a’ comandamenti regi, procedette solamente dalla feccia della infima plebe; la temeritá della quale né noi né gli altri cittadini e mercatanti e artefici onesti potemmo mai raffrenare: e però, che qualunque pena si imponesse o alla cittá o a noi affliggerebbe gli innocenti senza detrimento alcuno degli autori e partecipi di tanti delitti; i quali, mendichi di tutte le cose e vagabondi, non sono tra noi in numero d’uomini non che di cittadini, né hanno essi questa infelice cittá in luogo di patria. Ma la intenzione nostra è, lasciate indietro tutte le scuse, non ricorrere ad altro che alla magnanimitá e alla pietá di tanto re, in quella sommamente confidare, quella umilissimamente supplicare che, con quello animo col quale perdonò a’ falli molto maggiori de’ milanesi, si degni volgere quegli occhi pietosissimi verso i genovesi, pochi mesi innanzi felicissimi, ora esempio di tutte le miserie. Ricordatevi con quanta gloria del vostro nome fu allora per tutto il mondo celebrata la vostra clemenza, e quanto piú sia degno confermarla usando simile pietá che incrudelendo oscurarla. Ricordatevi che da Cristo, redentore di tutta l’umana generazione, derivò il cognome vostro di cristianissimo, e che però, a imitazione sua, vi si appartiene esercitare sopra ogni cosa la clemenza e la misericordia propria a lui. Siano grandissimi quanto si voglia i delitti commessi, siano inestimabili, non saranno giammai maggiori della pietá e della bontá vostra. Voi, nostro re, rappresentate tra noi il sommo Dio con la degnitá e con la potenza (perché che altro che dii sono i re tra i sudditi loro?) e però tanto piú vi si appartiene rappresentarlo medesimamente con la similitudine della volontá e delle opere, delle quali nessuna è piú gloriosa nessuna piú grata nessuna fa piú ammirabile il nome suo che la misericordia. —
Seguitorono queste parole le voci alte di tutti gridando misericordia. Ma il re camminò innanzi non dando risposta alcuna; benché, comandando si levassino di terra e deponendo lo stocco che aveva nudo in mano, facesse segno di animo piú tosto inclinato alla benignitá. Arrivò poi alla chiesa maggiore, dove si gli gittò innanzi a’ piedi numero quasi infinito di donne e di fanciulli d’ogni sesso, i quali tutti vestiti di bianco supplicavano con grandissime grida e pianti miserabili la sua clemenza e misericordia. Commosse, secondo che si disse, questo aspetto non mediocremente l’animo del re; il quale, ancora che avesse deliberato di privare i genovesi di ogni amministrazione e autoritá, e appropriare al fisco quelle entrate che sotto nome di San Giorgio appartengono a’ privati e, spogliatigli d’ogni immagine di libertá, ridurgli a quella subiezione nella quale sono le terre dello stato di Milano, nondimeno, pochi dí poi, considerando che con questo modo non solo si punivano molti innocenti ma si alienavano eziandio gli animi di tutta la nobiltá, ed essere piú facile il signoreggiarla con qualche dolcezza che totalmente con la disperazione, confermò il governo antico, come era innanzi a queste ultime sedizioni. Ma per non dimenticare in tutto la severitá, condannò la comunitá in centomila ducati per la pena del delitto, i quali non molto poi rimesse; in dugentomila altri, in certi tempi, per rimborsarlo delle spese fatte e per edificare la fortezza alla torre di Codifá, poco lontana da Genova e che è situata in sul mare, sopra al borgo che va in val di Pozevera e a San Piero in Arena: la quale, perché può offendere tutto il porto e parte della cittá, è non immeritamente chiamata la Briglia. Volle ancora pagassino maggiore guardia che la solita e che continuamente tenessino nel porto armate tre galee sottili a sua ubbidienza, e che si fortificassino il Castelletto e il Castellaccio; annullò tutte le convenzioni fatte prima tra lui e quella cittá, riconcedendo quasi tutte le cose medesime ma come privilegi non come patti, acciò che fusse sempre in sua potestá il privarnegli; fece rimuovere delle monete genovesi i segni antichi, e ordinò che in futuro vi fusse impresso il segno suo per dimostrazione di assoluta superioritá. Alle quali cose si aggiunse la decapitazione di Demetrio Giustiniano, il quale manifestò nel suo esamine tutte le pratiche e le speranze avute dal pontefice; nel quale supplicio incorse, pochi mesi poi, Paolo da Nove ultimamente doge, il quale navigando da Pisa a Roma, ingannato da uno corso che era stato suo soldato, fu venduto a’ franzesi. Fatto che ebbe il re queste cose, e ricevuto solennemente da’ genovesi il giuramento della fedeltá e data venia a tutti, eccetto che a circa sessanta i quali rimesse alla disposizione della giustizia, se ne andò a Milano; avendo, subito che ebbe ottenuta Genova, licenziato l’esercito: col quale, essendo tutti gli altri male proveduti, gli sarebbe stato facile, continuando il corso della vittoria, opprimere chi gli fusse paruto in Italia; ma lo licenziò sí presto per certificare il pontefice il re de’ romani e i viniziani, i quali stavano con grandissimo sospetto, che la venuta sua in Italia non era stata per altro che per la recuperazione di Genova.