Specchio di vera penitenza/Distinzione terza/Capitolo secondo

Distinzione terza - Capitolo secondo

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CAPITOLO SECONDO.


Dove si dimostra come la paura ritrae altrui dalla penitenzia.


Lo secondo impedimento della penitenzia si è il timore, cioè la paura d’afflizione o di pena corporale;1 chè gli uomini che sono avvezzi agli agi e alle delizie e a’ diletti della carne, e di seguire la propria volontà, temono di partirsi, in tutto o in parte, dagli usati diletti. La qual cosa si conviene pur fare da coloro che imprendono a fare penitenzia: a’ quali ancora ne conviene patire alcuna pena e malagevolezza e nelle loro carni e nelle loro menti, per soddisfare a quello2 che male si dilettarono, seguendo la loro volontà propria, e ne’ desiderii della carne, e nelle nequizie e nelle malizie della mente. Il remedio contro a questa vana paura si è considerare che niuno peccato puote rimanere che non sia punito: o e’ si punisce in questa vita o nell’altra. In questa vita si puniscono per la penitenzia; nell’altra per la divina giustizia. E con ciò sia cosa che la pena della penitenzia sia brieve e lieve e particulare; quella dell’altra vita, cioè dello ’nferno, sia [p. 43 modifica]eterna e sanza fine, sia grave, anzi gravissima, e sopra ogn’altra pena sia generale e universale; non fanno saviamente coloro che questa brieve pena ischifano, e vanno alla eterna sanza fine. E che la pena dello ’nferno sia gravissima, si dimostra non solamente per la Scrittura santa del santo Vangelo e de’ Profeti, che in molti luoghi ne parlano, dicendo come ell’è gravissima e sanza rimedio alcuno e sanza fine, ma eziandio per certi essempli di cose vedute e udite.

Leggesi nella Vita de’ Santi Padri, che andando una volta santo Macario per lo diserto, trovò uno capo d’uno uomo morto; e toccandolo col bastone ch’ e’ portava in mano appoggiandosi, e iscongiurandolo che gli dovesse dire cui capo egli era stato, rispose il teschio e disse: ch’era stato d’uno sacerdote de’ pagani, il quale era ito a dannazione. E domandandolo che pena avesse, rispose: che per più spazio che non era dalla terra in sino al cielo, era fuoco ardente, che mai non si spegnea né scemava, sopra il capo suo e degli altri pagani dannati, e altrettanto n’era di sotto a’ loro piedi; e che i mali cristiani erano ancora più profondati nel fuoco ardente, e con maggiori pene di loro. A questo medesimo provare fa quello che ’ntervenne a Parigi, dove si diede il saggio delle pene dello ’nferno.

Leggesi che a Parigi fu uno maestro che si chiamava Ser Lo,3 il quale insegnava loica e filosofia, e avea molti iscolari. Intervenne che uno de’ suoi iscolari, tra gli altri, arguto e sottile in disputare, ma superbo e vizioso di sua vita, morì, e dopo alquanti dì, essendo il maestro levato di notte allo studio, questo iscolare morto gli apparì; il quale il maestro riconoscendo, e non sanza paura, domandò quello che di lui era: rispose ch’era dannato. E domandandolo il maestro se le pene dello ’nferno erano gravi come si dicea; rispose, che infinitamente maggiori, e che colla lingua non [p. 44 modifica]si potrebbono contare, ma che gliene mosterrebbe alcuno segno. Vedi tu, diss’egli, questa cioppa piena di soffismi, della quale io paio vestito? questa mi pesa e grava più che s’io avessi la maggiore torre di Parigi o la maggiore montagna del mondo in su le spalle, e mai nolla potrò por giù. E questa pena m’è data dalla divina giustizia per la vanagloria ch’io ebbi del parermi saper più che gli altri, e spezialmente di sapere fare sottili soffismi, cioè argomenti, da vincere altrui disputando. E però questa cioppa della mia pena n’è tutta piena; però che sempre mi stanno dinanzi agli occhi a mia confusione. E levando alta la cappa, ch’era aperta dinanzi, disse: Vedi tu il fodero di questa cappa? tutta è bracia, e fiamma d’ardente fuoco pennace, il quale sanza veruna lena m’arde e mi divampa. E questa pena m’è data per lo peccato disonesto della carne, del quale fui nella vita mia viziato, e continuàilo infino alla morte sanza pentimento o proponimento di rimanermene.4 Onde, con ciò sia cosa ch’io perseverassi nel peccato sanza termine e sanza fine, e averei voluto più vivere per più potere peccare; degnamente la divina giustizia m’ha dannato, e tormentando mi punisce sanza termine e sanza fine. Eimè lasso! che ora intendo quello che, occupato nel piacere del peccato e inteso a’ sottili soffismi della loica, non intesi, mentre ch’io vivetti nella carne: cioè per che ragione si dea dalla divina giustizia la pena dello ’nferno sanza fine all’uomo per lo peccato mortale. E acciò che la mia venuta a te sia con alcuno utile ammaestramento di te,5 rendendoti cambio di molti ammaestramenti che desti a me, porgimi la mano tua, bel maestro. La quale il maestro porgendo, lo scolaro iscosse il dito della sua mano ch’ardea, in su la palma del maestro, dove cadde una picciola gocciola [p. 45 modifica]sudore, e forò la mano dall’uno lato all’altro con molto dolore e pena, come fosse stata una saetta focosa et aguta. Ora hai il saggio delle pene dello ’nferno, disse lo scolaro; e urlando con dolorosi guai, sparì. Il maestro rimase con grande afflizione e tormento per la mano forata e arsa; né mai si trovò medicina che quella piaga guarisse, ma infino alla morte rimase così forata: donde molti presono utile ammaestramento di correzione. E ’l maestro compunto, tra per la paurosa visione e per lo duolo, temendo di non andare a quelle orribili pene delle quali avea il saggio, diliberò d’abbandonare la squola e ’l mondo. Onde in questo pensiero fece due versi, i quali, entrando la mattina vegnente in isquola, davanti a’ suoi iscolari, dicendo la visione e mostrando la mano forata e arsa, ispose e disse:

Linquo coa ranis, era corvis vanaque vanis;
Ad loycam pergo, quoe mortis non timet ergo:

Io lascio alle rane il gracidare e a’ corvi il crocitare, e le cose vane del mondo agli uomini vani: e io me ne vado a tale loica, che non teme la conclusione della morte: cioè alla santa Religione. E così abandonando ogni cosa, si fece religioso, santamente vivendo in sino alla morte. E se si trovasse alcuno che dicesse: Io non farò penitenzia nella vita mia, ma alla fine mi penterò e andrò a fare penitenzia nel purgatoro; istolto sarebbe questo detto: chè, come è detto di sopra, non ogni persona che crede fare buona fine, la fa; anzi molti ne rimangono ingannati, però che, comunemente e il più delle volte, come l’uomo vive, così muore; e, come dice san Gregorio: che, per giusto giudicio di Dio, l’uomo peccatore morendo dimentica sé medesimo, il quale vivendo dimenticò Iddio. Ma pogniamo che l’uomo fosse certo di pentersi alla fine; che sciocchezza sarebbe a volere anzi andare alle pene del purgatorio, delle quali dice santo Agostino che avanzano ogni pena che sostenere si possa in questa vita, [p. 46 modifica]che voler sostenere qui un poco di penitenzia? la quale, perché si fa volontariamente, soddisfa più per lo peccato, avvegna che picciola, che non fa quella del purgatoro che si sostiene per necessità, avvegna che grandissima: imperò che ivi non è né luogo né tempo di meritare. E che la pena del purgatoro sia grandissima, dicono tutti i Santi, che in qualunche modo si prenda il purgatoro, o per quello luogo ch’ è in verso il centro della terra dov’ è lo ’nferno, dove l’anime si purgano in quello medesimo fuoco ch’è nello ’nferno; o vero per alcun altro luogo sopra terra, come si truova che in diversi luoghi l’anime sostengono pene purgatorie, secondo il giusto giudicio di Dio; in qualunche modo si prenda, le pene sono gravissime. E se s’intende il purgatoro ch’è fra la terra dov’è il fuoco dello ’nferno, non è dubbio che la pena che dà quel fuoco all’anime, in quanto è strumento della divina giustizia, è gravissima. Se si prenda il purgatoro per altri luoghi sopra terra, a’ quali la divina giustizia ha diputate certe anime, o perché in quegli luoghi commissono, quando viveano in carne, alcuno peccato, o per domandare in quelli luoghi aiuto da parenti o da amici, o per ammaestramento di coloro che vivono, o per altro giudicio occulto di Dio; certa cosa è che le pene sono gravissime, secondo che le determina la divina giustizia, più e meno, secondo la quantità e la qualità delle colpe che s’hanno a purgare. E di ciò troviamo molti essempli, de’ quali solo uno, per non iscrivere troppo lungo, ne porrò.6

Leggesi iscritto da Elinando, che nel contado di Niversa fu uno povero uomo, e di quale era buono e temente Iddio, ch’era carbonaio, e di quella arte si vivea. E avendo egli accesa la fossa de’ carboni una volta, e sendo la notte in una sua capannetta a guardia della incesa fossa, sentì in su l’ora della mezza notte grandi strida. Uscì fuori per vedere che fosse, e vide venire in verso la fossa, correndo e stridendo, una [p. 47 modifica]femmina iscapigliata e ignuda; e dietro le venìa uno cavaliere in su uno cavallo nero correndo, con uno coltello ignudo in mano; e della bocca e degli occhi e del naso del cavaliere e del cavallo uscia fiamma di fuoco ardente. Giugnendo la femmina alla fossa, ch’ardea, non passò più oltre, e nella fossa non ardiva di gittarsi; ma correndo intorno alla fossa, fu sopraggiunta dal cavaliere, che dietro le correa; la quale traendo guai, presa per li svolazzanti7 capelli, crudelmente la ferì per lo mezzo del petto col coltello che tenea in mano. E cadendo in terra, con molto ispargimento di sangue, sì la riprese per li insanguinati capelli, e gittòlla nella fossa de’ carboni ardenti; dove lasciandola stare per alcuno spazio di tempo, tutta focosa e arsa la ritolse; e ponéndolasi davanti in su ’l collo del cavallo, correndo se n’andò per la via dond’era venuto. La seconda e la terza notte dive il carbonaio la simile visione. Donde, essendo egli dimestico del conte di Niversa, tra per l’arte sua de’ carboni, e per la bontà la quale il conte, ch’era uomo d’anima, gradiva, venne al conte, e dissegli la visione che tre notti avea veduta. Venne il conte col carbonaio al luogo della fossa; e vegghiando insieme nella capannetta, nell’ora usata venne la femmina stridendo, e ’l cavaliere dietro, e feciono tutto ciò che ’l carbonaio avea veduto. Il conte, avvegna che per lo orribile fatto ch’avea veduto, fosse molto spaventato, prese ardire. E partendosi il cavaliere ispietato colla donna arsa attraversata in su ’l nero cavallo, gridò iscongiurandolo che dovesse ristare, e sporre la mostrata visione. Volse il cavaliere il cavallo, e fortemente piangendo, si rispose e disse: Da poi, conte, che tu vuoi sapere i nostri8 martirii, i quali Iddio t’ha voluto mostrare, sappi ch’io fu’ Giuffredi tuo cavaliere, e in tua corte nodrito. Questa femmina, contro a cui io sono tanto crudele e fiero, è dama Beatrice, moglie che fu del tuo caro cavaliere [p. 48 modifica]Berlinghieri. Noi prendendo piacere di disonesto amore l’uno dell’altro, ci conducemmo a consentimento di peccato; il quale a tanto condusse lei, che per potere fare più liberamente il male, uccise il suo marito. E perseverammo nel peccato in fino alla ’nfermità della morte: ma nella infermità della morte, in prima ella e poi io tornammo a penitenzia; e confessando il nostro peccato, ricevemmo misericordia da Dio, il quale mutò la pena eterna dello ’nferno in pena temporale di purgatoro. Onde sappi che noi non siamo dannati, ma facciamo in cotale guisa, com’hai veduto, per nostro purgatoro; e averanno fine, auando che sia, nostre gravi pene. E domandando il conte che gli desse ad intendere le loro pene più specificatamente, rispose con lagrime e sospiri: Imperò che questa donna per amore di me uccise il suo marito, l’è data questa penitenzia, che ogni notte, tanto quanto hai stanziato la divina giustizia, patisce per le mie mani duolo di penosa morte di coltello. E imperò ch’ella ebbe in ver’ di me ardente amore di carnale concupiscenzia, per le mie mani ogni notte è gittata ad ardere nel fuoco, come nella visione vi fu mostrato. E come già ci vedemmo con grande disio e con piacere di gran diletto, così ora ci veggiamo con grande odio e ci perseguitiamo con grande isdegno. E come l’uno fu cagione all’altro d’accendimento di disordinato amore, così l’uno è cagione all’altro di crudele tormento: chè ogni pena ch’io fo patire a lei, sostegno io; chè ’l coltello di che io la ferisco, tutto è fuoco che non si spegne; e gittandola nel fuoco, e traéndonela e portandola, tutto ardo io di quello medesimo fuoco ch’arde ella. E ’l cavallo si è uno demonio, al quale siamo dati, che ciha a tormentare. Molte altre sono le nostre pene. Pregate Iddio per noi; e fate limosine e dire messe, acciò che si alleggierino9 i nostri martirii. E, questo detto, sparì, come saetta folgore.
[p. 49 modifica]Non c'incresca adunque, dilettissimi miei, sofferire alquanto di pena qui, acciò che possiamo iscampare da quelle orribili pene e dolorosi tormenti dell’altra vita, alla quale, o vogliamo noi o no, pure ci conviene andare.

Note

  1. Le edizioni del 95 e del 25 qui aggiungono: o temporale; quella del Salviati, non molto a proposito: o spirituale.
  2. Così il Manoscritto e la stampa del primo secolo.
  3. Nelle stampe che precedettero quella del 25, è Serto: nel nostro Codice sembra leggersi: Berto.
  4. Da del quale sino a rimanermene manca nel nostro Manoscritto. Non sempre, però, stimandole, superflue, faremo avvertenze di tal natura.
  5. Non meglio, alcerto, nel Codice: sia alcuno utile ammeastramento a te.
  6. Ediz. 95: per non iscrivere troppo prolixo, ne conteremo.
  7. Il Manoscritto: per li suoi.
  8. Il medesimo: i miei.
  9. Le edizioni del 400 e Salviati: alleggerischino - alleggeriscano