Sotto la tenda/In vista di Fez

In vista di Fez

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Un brigante gentile Fez El- Gedid

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IN VISTA DI FEZ.

Il Sebù è uno dei pochi fiumi del mondo che possano vantarsi di fare il proprio comodo senza render conto delle loro azioni alle Società geografiche. Esso ha una sorgente assolutamente clandestina fra le vette nevose del Medio Atlante, e il suo corso è per due terzi ignoto. Serpeggia in valli inesplorate, arriva a poche miglia da Fez, poi riprende una strada ipotetica per sboccare al piano di Hallat, dove finalmente si costituisce prigioniero della geografia e lascia registrare docilmente le sue ultime giravolte fino alla foce.

Sul corso superiore del Sebù le opinioni dei viaggiatori sono naturalmente discordi, ma mi guarderò bene dal parlarne al lettore, prima di tutto perchè la nascita del Sebù mi lascia completamente indifferente, e poi perchè trovo degna di rispetto la rara indipendenza di questo gran fiume marocchino. Mi contento di osservarlo con discrezione al momento in cui esce dagli ultimi contrafforti montuosi, nonchè dal mistero. Nella pianura il Sebù disegna un grande angolo capriccioso, una specie di A immensa tracciata da una mano tremolante, col vertice in vicinanza di Kariat El-Habbesi [p. 122 modifica](villaggio che i lettori conoscono già). Da sud vari confluenti scendono attraverso il piano a confidare le loro acque al Sebù; ma anche di essi la cosa più nota è il nome: hanno il pudore di non ammettere l’esplorazione del loro letto.

Ho premesso tutta questa topografia oroidrografica per dare un’idea approssimativa del paese attraversato. Immaginate dunque questi piani di Hallat, vasti come un mare, solcati da corsi d’acqua che li rendono fertili, paludosi, ricchi e insalubri.

Si gira a zig-zag per evitare pantani mascherati da superbe infiorescenze, pieni di tartarughe che sembrano ciottoli natanti, pantani canori per il gracidare incessante delle rane; si cerca la strada fra sterpi e rovi, fra erbe alte coronate di fiori, levando voli di pernici e di aironi; si va per ore ed ore nella solitudine assoluta, senza scorgere un villaggio, senza incontrare un uomo, temendo anzi d’incontrarne.

L’uomo è l’animale più temibile della creazione quando si trova in luoghi deserti.

Questo mare verde ha delle rive; catene di montagne si sollevano da tutti i lati, lontano, meno che a ponente, verso l’Oceano, dove l’orizzonte basso trema nel miraggio. Noi ci siamo diretti a sud-est prendendo come mèta un monte alto e regolare, vagamente simile al Vesuvio, lo Tselfat, il quale ci appariva nero contro fosche nubi temporalesche che s’addensavano a poco a poco saettandosi e rombando.

Una tenda solitaria biancheggiava fra i cespugli: era una nzala. I soldati, straccioni come i mendicanti, accoccolati sull’erba, intrecciavano cesti di vimini. Ci hanno chiesto l’elemosina. Dopo cinque ore di marcia abbiamo incontrato un’antica Kubba di marabù abbandonata, annerita dalle in temperie, mezzo demolita dal fulmine, assalita da quegli arbusti rampicanti che amano le rovine, culminata da un nido di cicogne. Poco dopo siamo entrati in un sentiero battuto — la strada di Rabat — serpeggiante sulla riva d’un fiume, l’Erdom, il quale viene da Mequinez e si getta nel Sebù in un luogo ancora ignoto. Su quelle sponde, bordate di cactus e d’aloe, abbiamo rivisto degli armenti al pascolo, e dei villaggi recanti traccie di recenti incendi. [p. 123 modifica] Gli abitanti non ci guardavano con occhio eccessivamente amichevole. Essendoci fermati per dare un breve riposo ai muli, una diecina d’uomini armati ci sono venuti intorno, limitandosi però a domandare chi ero e ad osservarmi in silenzio. Una frotta di monelli, sopravvenuta poco dopo, non ha imitato la lodevole moderazione dei grandi, ed ha spinto l’interesse per la mia persona fino a lanciarmi qualche sasso e molte ingiurie, il che depone in favore dello spirito bellicoso delle nuove generazioni. In quei luoghi le devastazioni non erano più una conseguenza delle lotte fra i Beni-Hesen e i Beni-Melek, ma di quelle fra i Beni-Hesen e gli Shrardà. Tutto questo battagliare è la conseguenza di una machiavellica abilità governativa. II Makhzen ha concesso ai Beni-Hesen i piani alla sinistra del Sebù per contenere i berberi Zummur, che si annidano più al sud; ma a levante della pianura, sulle colline, ha posto la tribù degli Shrardà per contenere i BeniHesen. Tutte le popolazioni del Marocco sono disposte così; mai delle genti affini si trovano vicine; ne nascerebbe una unione, l’unione, si sa, farebbe la forza, e la forza farebbe la rivolta. Il Governo marocchino non si regge che in virtù [p. 124 modifica]di queste scissioni; più i suoi popoli si battono e si derubano e più il Sultano è sicuro d'essere il Sultano.

La pianura di Hallat arriva senza transazioni alle montagne che la circondano, senza ondeggiamenti, eguale come un'acqua calma, come un gran lago verde. E le montagne si schierano in rango; formano una barriera regolare di declivi scoscesi ed erbosi e di vette turrite, sulle quali strane roccie bianche dànno l'illusione di grandi città. Scendendo dalle sommità del Medio Atlante, il tumultuare dei monti non si spegne in un digradato ondulare di balze, ma si arresta di colpo come una squadra di cavalieri che faccia la fantasia. Una fantasia di giganti. Ad oriente, la catena montuosa ha una interruzione, una specie di spaccatura profonda, un passaggio angusto fra pareti a picco; è la Bab-Tsiuka, cioè la Porta di Tsiuka. In essa s'ingolfa la strada di Fez.

La tempesta ci ha colti in quella gola da imboscate, nella quale era già notte. Un vento da uragano c'investiva di fronte, facendo scaturire lugubri ululati dalle anfrattuosita delle roccie, dando alle montagne una voce sinistra ed ostile; e la pioggia scrosciante batteva sui nostri visi. La strada era tramutata in torrente; l'acqua fangosa scorrendo verso il piano gorgogliava fra le zampe delle cavalcature; i mulattieri s'erano attaccati alle code delle bestie da soma, e si lasciavano rimorchiare così. Per le vallate brontolava il tuono senza fine. [p. 125 modifica]

Siamo sboccati in una vasta radura chiusa fra monti; l0 Tselfat, nudo da quel lato e tetro, dirupato, imponente, sovrastava con la sua vetta a scaglioni, maestoso come un fantastico e immenso castello. Un piccolo villaggio si ritraeva dalla radura addossandosi ad una balza, e sotto alla pioggia dirotta le misere capanne nere pareva si stringessero impaurite. Era il primo villaggio degli Shrardà. Vi abbiamo messo 1l campo. Gli abitanti ci hanno accolto amichevolmente, offrendoci del latte e delle uova. Poi sono venuti armati a fare la guardia all’accampamento.

Tutta la notte, nell’imperversare della bufera, abbiamo udito le preghiere delle sontinelle accoccolate intorno alle nostre tende, e il loro monotono grido di all’erta: Ya asses! rimandato dall’una all’altra ad ogni minuto. Ad un certo momento degli urli, dei colpi di fucile, un correre disordinato di gente. Sono balzato fuori; pioveva sempre, e nell’oscurità profonda sentivo il gridìo vagante delle sentinelle disperse. Un’ombra s’è appressata: era Mustafà. — Che succede? — gli ho chiesto.

— Dicono che dei predoni tentavano di rubare i nostri muli. Ma è per la mancia.

L’ottimo capo-carovaniere ha fatto una risatina. [p. 126 modifica]— Non capisco — ho soggiunto.

— Conosco il paese, io. Gli Shrardà fanno finta di salvarci per essere ben pagati domattina. Capite?

— Perfettamente. Buona notte.

E sono tornato a letto mentre le guardie riprendevano poco dopo il loro posto, pazientemente, e intonavano un canto di grazia per lo scampato pericolo. Ho perdonato subito in cuor mio a quella povera gente il loro piccolo inganno. Essi erano all’aperto nella notte tempestosa vegliando alla mia salvezza; se un pericolo vero si fosse presentato, si sarebbero battuti per me, ignoto straniero; poco male se non volendo perdere il frutto della loro devozione mi difendevano anche contro un pericolo immaginario. Ero così caldo nella mia cuccia, e fuori urlava la raffica! Queste condizioni sono molto propense allo sviluppo della pietà.

È singolare il fatto che al Marocco, specialmente fra le tribù docili al Makhzen come quella degli Shrardà, un europeo sia infinitamente meglio protetto e difeso di qualsiasi marocchino. Ciò è dovuto in parte a quel benefico dovere di ospitalità del quale ho già parlato, ma più ancora ad una istituzione barbara e provvidenziale: la responsabilità collettiva.

Se un arabo viene ammazzato, le autorità non se ne immischiano; i parenti del morto fanno vendetta, se possono, e, se non possono, la cosa finisce lì. Ma se uno straniero viene ucciso, è il suo Governo che pensa alla vendetta, e allora la cosa è seria: arrivano degl’incrociatori, poi arriva un ultimatum, e tl Makhzen è costretto a pagare un’indennità, a mettere in prigione dei kaid, a chiedere solennemente scusa con promessa di "non farlo più„. Ora, metter dentro dei kaid, passi; chiedere scusa, poco male; ma pagare è grave. Il Makhzen trova il modo di rifarsi.

Esso non può rintracciare sempre i colpevoli, perciò ritiene responsabili in solido tutti gli abitanti della regione dove giace il cadavere dell’assassinato: incatena i capi e impone il pagamento d’una taglia, la quale è sempre molto superiore all’indennità richiesta dal governo straniero (bisogna pur guadagnare qualche cosa!). La presenza del morto [p. 127 modifica]costituisce una prova di colpabilità. Se la popolazione non è rea di avere ucciso è colpevole di non aver difeso. L’argomento è salomonico. Ma avvengono delle cose strane. Talvolta cadaveri di europei subiscono traslazioni fantastiche. Ricordo un fatto recente: due anni or sono un giornalista tedesco, il dottor Genthe, fu ucciso alla sera dell’8 marzo fuori della Bab EsSegma — una porta di Fez — da due arabi innamoratisi improvvisamente del suo cavallo e del suo fucile. Una donna, certa Lalla Fatma, appartenente al duar vicino, spaventata dalla responsabilità, caricò il cadavere sopra un mulo, e camminò tutta la notte per andarlo a seppellire all’est della capitale, sotto un mucchio di pietre in riva al fiume Fez. Due giorni dopo dei pescatori lo videro e avvertirono gli abitanti, i quali gettarono il corpo nel fiume per sbarazzarsene. Il fiume lo trascinò fino alla confluenza del Sebù, dove lo atterrò sulla sponda fangosa. Dei pastori respinsero il cadavere nell’acqua; i gorghi del Segù lo afferrarono. Cominciò allora per quel misero corpo un macabro viaggio. Ogni tanto le acque lo abbandonavano alla spiaggia, e sempre gl’indigeni lo gettavano di nuovo alla corrente, e la sinistra navigazione ricominciava, senza riposo. Scendendo il gran fiume il morto giunse ancora a prender terra presso alla strada che [p. 128 modifica]conduce a Tangeri, dove fu scorto da un corriere di legazione che portò a Fez la notizia. Incalzato dalle minaccie della di plomazia tedesca, il Makhzen spedì un kaid con dei soldati alla ricerca, ma intanto il cadavere era di nuovo scomparso, respinto dalla paura nel fiume. Soltanto quarantatrè giorni dopo il delitto, il 20 aprile, il kaid potè ritrovare il corpo a Mehdia, presso alla foce del Sebù, quando stava per essere afferrato dai marosi dell’Atlantico. Quel morto aveva per corso più di 350 chilometri, attraverso regioni in gran parte inesplorate.

In simili circostanze cadaveri d’europei hanno compiuto viaggi che sarebbero stati impossibili ad europei viventi; sono andati a finire in terre berbere, per contrade ignote. Quaggiù non è sempre l’assassino che fugge; qualche volta fugge l’assassinato....

Ma lasciamo andare; l’argomento manca di gaiezza. E il lettore preferisce certo le modeste avventure d’un uomo vivo alle più straordinarie peregrinazioni dei morti.

Da Bab-Tsiuka la strada sale e scende per montagne brulle, gira per anguste valli arse dalla siccità, è chiusa in un orizzonte ristretto, vario e monotono come un ondeggia mento d’oceano. S’incontrano molte carovane; si passa di lì anche per andare da Fez a Rabat, a Mogador, a Marrakesh. I cammelli spelati e solenni si seguono in fila con passo oscillante, girando intorno intorno il loro vecchio muso stupido e superbo. E branchi d’asini minuscoli e pelosi come capre, carichi e piagati, trottano in disordine sotto ad una grandine di bastonate lanciando ogni tanto al cielo ragli di protesta. Le nzala governative spesseggiano, e ad ogni nzala sono scene tumultuose fra soldati che chiedono una tassa di pedaggio e carovanieri che non vogliono pagare, mentre le bestie spaventate scappano via per tutti i versi con le some ballonzolanti. S’incontrano mokhazni imperiali, messaggeri del Sultano che portano ordini ai governatori; talvolta sono negri, schiavi di palazzo, Abid, il cui volto spicca come una macchia nera fra le candide pieghe dei burnus. S’incontrano arabi del sud, appartenenti alle tribù fedeli dei Menahba o [p. 129 modifica]dei Rehamna, cavalieri makhzen dal berretto alto e puntuto, diretti a prestar servizio nelle file del piccolo esercito sceriffiano. Fez è ancora lontana, ma si sente il suo avvicinarsi.

Scendendo la costa dirupa d’un monte roccioso, lo Zahuta, abbiamo incontrato uno dei più grandi kaid del Marocco e dei più ricchi, che tornava alla sua sede dopo tre anni di residenza alla Corte. Si chiama El-Gundafi, ed è signore di una valle dell’Atlante al sud di Marrakesh. La sua kasbah è un grande castello fra le montagne, visitato ogni anno dalla neve; per raggiungerlo egli deve viaggiare un mese. El-Gundafi è vecchio; la sua vita è stata una battaglia. Ha combattuto per il Sultano e contro il Sultano, volta a volta; ha sollevato e domato vaste ribellioni. Egli comanda duemila cavalieri.

Tre anni or sono l’Imperatore mandò suo zio, Mulei Arafa, al sud per sedare dei malumori di tribù e indurre quelle genti alla pace e al pagamento dei tributi. Quando il Sultano non può inviare un esercito, prova ad inviare un suo parente. Non è più la forza delle armi che impone, ma la santità della persona: tutta la famiglia imperiale discende da Maometto. Tuttavia, ad onta dell’influenza del parente Maometto, lo zio del Sultano si trovò minacciato dai berberi [p. 130 modifica]sulla via del ritorno, e chiese aiuto al Gundafi, il quale, trovandosi in vena di fedeltà, si mise alla testa d’un piccolo esercito e scortò lo sceriffo fino a Fez. Ma qui il kaid fu trattenuto, un po’ ospite e un po’ ostaggio, per assicurarsi la sua fedeltà futura. Così è rimasto fino ad ora. Alla fine ha pagato al Makhzen qualche centinaio di migliaia di duros, ed ha ottenuto in compenso la libertà di tornare a casa, e la nomina di dieci kaid di suo piacimento per le regioni vicine. È partito con i loro brevetti nella shkara per insediarli e per rinsediarsi. Laggiù lo aspettano battaglie. Si dice che un suo potente nemico, il kaid degli Mtuga, abbia assalito e devastato la sua kasbah uccidendogli un fratello, un figlio e varî servi, e che intenda prendere il suo posto.

Quando l’ho incontrato, il vecchio Gundafi era pensoso; curvo sulla sella guardava avanti a sè. Cavalcava una mula, ma lo seguivano lontano palafrenieri che tenevano a briglia tre magnifici cavalli arabi riccamente bardati, caracollanti in un desiderio di galoppo. Il kaid era circondato dalla sua corte d’ufficiali e di dignitari, dai gellaba bianchi e i selham azzurri che coprivano fastosamente le groppe dei cavalli; avevano i cappucci calati sulle fronti. Ultimo del gruppo era un vecchio dalla barba bianca che cantava a voce spiegata i primi versi del Corano: "Lode sia a Dio, Signore dei mondi, il Pietoso e il Compassionevole, Re del giorno del Giudizio. In Te cerchiamo aiuto...."

Eravamo lontani, il vecchio era scomparso al di là della vetta, e il vento ci portava ancora la sua voce orante nel silenzio della campagna.

Il seguito del Gundafi ha durato un’ora a passare, disordinato come un’emigrazione. Erano manipoli di cavalieri berberi dai fucili coperti d’argento, dai lunghi sproni a spina, dorati, dalle selle e briglie ricamate. Erano squadre di fantaccini dall’aria brigantesca, carovane di muli e di cammelli carichi, cavalli condotti a mano, mandrie di montoni scortate da soldati, portatori d’acqua gravati delle loro otri piene e tremolanti, e poi l’harem, le due mogli del kaid, a cavallo di mule bianche, vestite dell’azzurro selham degli uomini, la Digitized by Google [p. 131 modifica]fronte coperta fino alle ciglia e il viso fino agli occhi con lini candidi ; intorno a loro gli eunuchi negri dallo sguardo feroce, cavalcavano col fucile alla coscia; dietro, le ancelle, anch' esse velate, modestamente sedute sulle some di muli bardati. Siamo giunti alla sera ad un fiume, il Mikkes, avvallato fra colline grigie di oliveti, che sono in gran parte proprietà di moschee di Fez. Da lì si diparte la strada romana che va a Volubilis, fra i monti Zerhun, dove ancora delle colonne e degli archi stanno eretti.

Sul fiume è un ponte moderno. Una iscrizione araba, incastrata sopra un pilone, dice che quel ponte fu eretto dal l'architetto imperiale El-Hadj Abd-Errahman El-Heulj.

Quell'architetto non era arabo ; era francese. S'era chiamato una volta capitano De Saulty. Fuggito dall'Algeria per una triste storia d'amore, divenuto spergiuro e disertore, scese l'ultimo gradino e si fece rinnegato. Abbracciò la religione musulmana, vestì il burnus e si coprì del turbante. Quando — non sono troppi anni — la Francia istituì a Fez la missione militare, e gli ufficiali francesi furono ricevuti alla Corte, si vide un vecchio marocchino, curvo, sorretto da due servi, uscire dalla folla ed appressarsi tremando agli stranieri. Egli guardava avidamente l'uniforme d'uno chasseur d'Afrique; si protendeva in una silenziosa contemplazione,

L. Barzini. Sotto la Tenda. 9
[p. 132 modifica]come attratto da quei colori e da quella foggia. Sul suo volto si diffondeva un dolore quieto e profondo; sgorgavano lagrime dai suoi occhi stanchi e scorrevano giù per le gote smunte, inperlavano la lunga barba candida; e guardava, guardava. Poi si lasciò cadere in ginocchio e si prostrò implorando con parole strane. Egli era El-Hadj Abd-Errahman El-Heulj.

Invocava perdono, e forse non dagli uomini. La sua preghiera disperata era rivolta all’uniforme, a quell’uniforme che egli aveva vestito in giorni lontani ed onesti, e che aveva tradito. Abbandonata e dimenticata, essa tornava, come un rimorso, a parlargli d’una patria perduta, di gioie sepolte, di battaglie fuggite. E tutto quello che egli credeva da lunghi anni spezzato in lui, si riannodava con stretta implacabile. La giovinezza si congiungeva alla vecchiaia estrema: tutto il resto crollava. Qualche giorno dopo El-Hadj morì.

Al fiume Mikkes comincia il territorio d’un’altra tribù fedele al Makhzen, quella degli Udeya. La capitale è tutta circondata da questi cosacchi sceriffiani, tribù venute in epoche relativamente recenti dalle oasi del sud, dalla culla della dinastia, genti rozze e fanatiche che mantengono ancora in tatto il culto per lo sceriffo, che hanno portato dall’interno una freschezza selvaggia, una ingenuità beduina non ancora contaminata dalla corruzione moresca. Fez non è più che a sei ore di strada dal ponte del Mikkes.

Sono le ore più lunghe e noiose del viaggio. Si ha la febbre di giungere, di sapere che cosa c’è in fondo a quella interminabile strada così aspra. La via che conduce ad una città vi parla sempre di essa, vi prepara all’arrivo, vi dice vagamente con voce sempre più alta quello che vi aspetta, essa gradatamente vi fa giungere all’orecchio il linguaggio che udrete, vi mostra gli uomini alla cui folla andrete a mescolarvi, vi abitua ai loro usi, alle loro idee, e di tanto intanto lascia intravedere in qualche edificio l’impronta di un’arte singolare della quale i capolavori ammirerete alla fine. Che cosa mi aveva mostrato la via che porta a Fez?

Essa mi aveva strappato dall’Europa, rudemente, [p. 133 modifica]—i3igliendomi dagli occhi e dalla mente tutto quel che conosco. Mi aveva inabissato giorno per giorno in un passato dal quale mi pareva di non poter tornare mai più, un passato barbaro, patriarcale e feroce. Dal giorno che vidi l’ultima nave a vapore, avevo camminato molto indietro nel tempo. Cavalcando per terre vergini avevo percorso a ritroso dei secoli. Quale mondo lontano, antico, incontaminato m’aspettava?

Fez. Una città che è oggi quello che fu Cordova undici secoli or sono, e per la quale le descrizioni di Leone l’Africano, scritte quattrocento anni fa, sono le più esatte, le più vive, le più vere. Fez, detta " la Colta „, che mantiene ancora una università dove si studia la medicina salernitana, dove non giunse la nozione della sfericità della terra, dove l’astrologia e l’alchimia sono in onore. Immutata e immutabile, Fez aspetta il ritorno delle sue glorie, sogna il trionfo delle sue idee, canta nelle sue canzoni popolari le conquiste di Spagna: " O belle notti di Granata, città di delizie. E là che conobbi le donne che m’impararono ad amare ... Come immaginarla Fez?

Abbiamo scorto da lontano due montagne alte e vicine, la Tghat e la Zalagh. Fez è alle loro falde, nella valle. [p. 134 modifica]Pagina:Luigi Barzini. Sotto la tenda.djvu/134