Sotto il velame/L'altro viaggio/I
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Le rovine e il gran veglio - XII | L'altro viaggio - II | ► |
I.
A te convien tenere altro viaggio:
rispose, poi che lagrimar mi vide;
se vuoi campar d’esto loco selvaggio:
il qual loco è la piaggia diserta, o il mondo coperto e gravido d’ogni malizia.1 Il viaggio lo circoscrive Virgilio stesso: sarà per loco eterno; comincerà dalle disperate strida del vestibolo e finirà coi canti nel fuoco. Egli lascerà nel suo partire Dante con anima più degna, con la quale potrà, se vorrà, salire alle beate genti.2 Invero sulle sponde di Letè lo lascia in conspetto di Beatrice. Letè è il fiume che dal paradiso terrestre cala giù per i balzi del purgatorio e scende, non noto che per il suono del suo cadere, al centro della terra,3
per la buca di un sasso ch’egli ha roso.
Quattro fiumi Dante attraverserà prima di giungere a quello. E quei quattro fiumi scendono dal luogo dove gli uomini sognarono il Paradiso terrestre dal quale discende veramente il quinto. Misticamente hanno la stessa origine, e misticamente riescono allo stesso fine. E i quattro fiumi dell’inferno non sono che l’unico Acheronte il quale sgorga dalla ferita della natura umana. E il Letè va al centro della terra per una ferita ch’esso fece. E misticamente l’Acheronte e il Letè sono lo stesso fiume; e Dante passa l’uno e l’altro con circostanze simili. Invero egli cade, là, come l’uom cui sonno piglia; qua, cade vinto.4 Là, dopo il passo, trova le tre disposizioni che il ciel non vuole, che sono le quattro ferite, contro le quali sono le quattro virtù cardinali. E queste esercita, riacquista, passando sempre quel fiume unico ne’ suoi ultimi tre aspetti, che equivalgono a quattro, di fiume tristo (per le due incontinenze) e fiume di fuoco (per la violenza) e fiume di gelo (per la frode). Dopo il passo di Acheronte egli ha insomma esercitate le quattro virtù cardinali. Qua, dopo il passo di Letè, trova “quattro belle„ che, ninfe nella divina foresta e stelle nel cielo, sono le quattro virtù cardinali.5
L’Acheronte è, per i corporalmente morti, la seconda morte: quella inflitta dal peccato in genere, dal peccato d’origine, dal peccato che è il peccato. Ma per i corporalmente vivi, il passarlo è morire a quella morte, a quel peccato. Dunque esso cambia in certo modo natura. In vero esso è per i vivi il Letè. Nel fatto il Letè cancella pur la memoria del peccato, cioè dei peccati singoli che sono tutti insieme virtualmente contenuti nel primo. Or qual nome cristiano potremo dare al Letè? All’Acheronte questo: morte, tenebra, peccato: peccato originale in lui stesso, peccato attuale nel suo corso sotto altri nomi e con altri aspetti. A Letè, quale? Vi è una fonte che non mai potrà seccare: la misericordia, secondo la quale, a testimonianza di S. Paolo, il Cristo ci fece salvi.6 “Nostro fonte è il Cristo Signore, onde ci abbiamo a lavare, come è scritto: Colui che ci amò e ci lavò dai nostri peccati„.7 Or questo fonte il contemplante di Chiaravalle dice che è uno dei quattro fonti del Paradiso terreno, il quale è Gesù. E dice ancora che in essi quattro fonti sono raffigurate le quattro ferite del Salvatore.
Ma il Salvatore ebbe quattro ferite, due ai piedi e due alle mani, da vivo; e una quinta al costato, da morto. Quest’ultima si dice: “fonte di vita„. In sè Gesù morto, nella sua morte Gesù aprì a noi la fonte di vita. Abbiamo già detto come la fessura del gran veglio, onde sgorgano le lagrime che fanno Acheronte, figurando il peccato originale, raffigura anche virtualmente l’espiazione di quello assunta dal Cristo in sè. È ovvio dunque pensare e credere che quella fessura donde sgorgano quattro fiumi, quella vulneratio che si esplica in quattro ferite, raffiguri ancora la grande ferita al costato di Gesù morto, ferita donde sgorgò la fonte di vita, e le altre quattro ai piedi e alle mani di Gesù vivo, donde sgorgarono altre quattro fonti. Or noi vediamo chiaramente il pensiero di Dante. La fessura del gran veglio è anche la ferita al costato, di Gesù. La natura umana fu assunta dal Dio: quindi in esso ella ebbe quella ferita ed esso in quella.8 L’apriva, quella ferita, Adamo, peccando. E ne sgorgano quattro fiumi, dei quali il primo è per il peccato originale e gli altri tre per le tre disposizioni male.
Dante voleva metter d’accordo Aristotele con questi concepimenti mistici di Beda e di Bernardo. E tuttavia cinque fonti anch’esso riconosce, perchè quando Virgilio gli ha parlato dei quattro fiumi, esce a chiedere: E Letè? Letè egli fa derivare dal Paradiso terrestre e scendere giù giù sino al centro della terra a incontrare la foce dell’altro che scende da Creta. E Letè è misticamente l’Acheronte stesso, e nel tempo stesso è la quinta delle perenni fontane.
S. Bernardo9 riconosce nella ferita al costato l’origine del fonte di vita, e nelle altre quattro i fonti di misericordia, di sapienza, di grazia e di carità. Dante nel Letè, per così dire, di Creta, ossia nel fiume di lagrime che deriva dalla fessura del veglio, ha riconosciuta la salvazione dal peccato, prima nella sua forma unica di peccato originale che tutti i peccati virtualmente comprende, poi nelle sue quattro forme, ch’egli riduce a tre, mettendo insieme le due incontinenze, di peccato attuale: la salvazione con l’opera, prima, della Redenzione o del battesimo, che è una natività nuova ed è la salute in genere; poi con l’ausilio delle quattro virtù: temperanza e fortezza, giustizia, prudenza. Il fiume di lagrime, come mitologicamente ha il nome di Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito, come per i corporalmente morti ha il significato di peccato originale e di incontinenza (di concupiscibile e irascibile) e di ingiustizia col solo cuore e di ingiustizia anche con l’intelletto; ossia di assoluta inordinazione totale, e d’inordinazione, prima, nelle due passioni dell’anima sensitiva e poi anche nella volontà, e poi anche nell’intelletto; così misticamente, nel suo aspetto di Letè figurato in Creta, si chiama Redenzione, e poi temperanza e fortezza, e poi giustizia, e poi prudenza. Non dunque Dante ha seguito il contemplante in questi uffizi del quadruplice o quintuplice fonte. Ma passiamo al Letè vero, al Letè che sgorga dal Paradiso terrestre vero, non dall’Ida che lo raffigura, come il sogno la cosa.
Dante nel suo Letè fonde le due idee di S. Bernardo: le due idee del fonte di vita che dalla ferita di Gesù morto è sgorgato a farci salvi, e del fonte di misericordia, nel quale ci laviamo dai nostri peccati. Tuttavia egli ha continuato a leggere il sermone: “Ma non solo questo è l’uso delle acque; nè soltanto esse lavano le macchie, ma e la sete estinguono„. Ora nel Paradiso terrestre Dante pone anche un altro fiume, l’Eunoè. In questo Dante non è tuffato, ma vi beve:10
s’io avessi, lettor, più lungo spazio
da scrivere, io pur canterei in parte
lo dolce ber che mai non m’avria sazio.
Gli altri fonti di S. Bernardo versano acque di “discrezione„ che si bevono, per abitare nella sapienza e meditare nella giustizia; acque dolci di “devozione„ per irrigare le piante novelle,11 acque di “emulazione„ fervide per cuocere gli affetti nostri; dolci quelle per amare la giustizia, bollenti queste per odiar l’iniquità. Che tutti questi concetti Dante assommi nello Eunoè, vedesi dal fatto che a Eunoè beve, che il bere è dolce e ravviva le virtù, e più da ciò che colui che beve ritorna dall’onda come se fosse stato irrigato:12
come piante novelle
rinnovellate di novella fronda.
Il fiume di lagrime deriva da una fessura del gran veglio. Il Letè va al centro della terra, per una buca “ch’egli ha roso„. Per questa buca Dante e Virgilio escono dalla tomba del peccato “a riveder le stelle„.13 La fessura della statua e il foro del sasso hanno relazione tra loro, come l’Acheronte e il Letè. In verità v’hanno i fori nella pietra, che s’interpretano per le piaghe del Cristo: chè pietra è il Cristo.14 Sono buoni fori, quelli, che ci dànno la fede della risurrezione. Da quei fori sgorga la misericordia: per quelle fessure (rimas) possiamo suggere il miel dalla pietra e l’olio dal sasso durissimo. Di più, il Cristo ci introdusse “in sancta„ per quei fori aperti. Per il foro di Letè, sale Dante a’ piedi del santo monte, dove è il veglio solo, fregiato di lume dai raggi delle quattro luci sante.15 Dante entra nella tomba con la morte del Salvatore; risorge per la buca della pietra, che dà la fede della risurrezione. Ma Bernardo oltre le “sancta„, ricorda le “sancta sanctorum„; come oltre il Purgatorio e il Paradiso terrestre, c’è il Paradiso celeste. Chi entra nel santo, vede solo le spalle del Signore; solo chi meritò di entrare in sancta sanctorum, vedrà la faccia di lui, stante, cioè la chiarità dell’incommutabile. E così il pensiero di Dante si riscontra con quello del contemplante, in ciò che Dante entrando dalla porta rotta dell’Inferno e passando l’Acheronte, cioè la raffigurazione mistica di quel foro nel sasso e di quel fiumicello, entra in sancta e vede le spalle del Signore; e salendo poi per il foro e passando il Letè vede del Signore il viso e la chiarità. Dante invero, di cerchio in cerchio scendendo per l’inferno oscuro, va verso Dio; ma Dio dai demoni e dai dannati ha torta la faccia; sì che egli ne vede le spalle; e poi salendo di cornice in cornice per il santo monte, ha la faccia conversa, dove è conversa quella dei penitenti: a Dio; e poi a Dio con Beatrice ascenderà.
Ma che è questo entrare nel foro della pietra? questo entrare nel santo, e nel santo dei santi? È “contemplare„. E S. Bernardo distingue due gradi di contemplazione, meno e più intensa e soave: l’una intorno allo stato e felicità e gloria della città superna; in qual atto o quiete sia occupata quella grande moltitudine di celesti; l’altra intorno alla maestà, eternità, divinità del re stesso. La prima è significata nelle “caverne di macerie„, la seconda nella “pietra„.16
Le caverne di macerie? Ecco. S. Bernardo dà l’essenza mistica di quel versetto del cantico: “La mia colomba nei fori della pietra, nelle caverne di macerie: mostrami la tua faccia, suoni la tua voce nelle mie orecchie„. I fori della pietra sono dunque le piaghe del Salvatore. L’anima deve nelle piaghe del Salvatore fissarsi con tutta devozione, e con assidua meditazione restare in quelle. Le caverne di macerie sono i luoghi degli angeli che per la superbia caddero, lasciati quasi vuoti da loro:17 “le quali hanno a essere riempite d’uomini, come rovine da rifarsi con pietre vive„. Altrove e altre e per altra causa sono le rovine dell’inferno di Dante; sebbene siano con gli angeli caduti in qualche rapporto, e sebbene siano anch’esse destinate alla salute degli uomini. Ma perfettamente si riscontrano le rovine dantesche con quelle di Bernardo, nel loro significato mistico. Poichè le rovine nei cieli, dice S. Bernardo, “dalle studiose e pie menti non solo si trovano, ma si fanno„. In che modo? dice. “Con la meditazione e con la bramosia. Cede invero, a mo’ di macerie molle, la pia macerie al desiderio dell’anima, cede alla pura contemplazione, cede alla frequente orazione„. Le fa, insomma, la mente, queste caverne; contemplando; e questa contemplazione è appunto quella meno soave delle due; quella intorno agli atti e ai riposi della moltitudine dei celesti. La più soave è invece raffigurata nel foro della pietra; e anche per questa, la mente, con la contemplazione stessa, fora la pietra.
Ora le rovine dell’inferno furono cagionate dalla morte del Redentore; non dal viatore che per esse prese via. Il foro nella pietra fu aperto dal fonte della misericordia, non da colui che per quello sale a veder le stelle. Ma ricordiamo il concepimento iniziale della discesa negli inferi e del passaggio dell’Acheronte. In Gesù l’uomo scende, in Gesù l’uomo passa. Si rinnova il terremoto stesso che alla morte del Redentore scrollò gli abissi e fece le tre rovine. Le tre rovine sono come rinnovate da colui che scende e muore in Gesù. Misticamente dunque Dante fa da sè le caverne di macerie, le rovine di contemplazione. Le quali non rappresentano, è vero, la meditazione intorno agli atti e ai riposi dei celesti; ma è anche vero che non sono nei cieli, sì negli abissi; e quindi rappresentano la contemplazione non di atti di pietà, ma di disperazione, non di riposi beati, ma di martorii crudeli; e non di celesti, ma di dannati. E così Dante ha stupendamente corretto il pensiero del veggente di Chiaravalle; perchè questa di Dante è sì, e veramente, contemplazione per la quale si vedono le spalle (posteriora) di Dio; chè l’inferno è popolato di aversi.18
Dante ha obbedito a S. Bernardo. Questi grida: “Entra nella pietra, nasconditi nella fossa... All’anima ancora inferma ed inerte si mostra la fossa della terra, dove si celi, finchè riprenda forza e profitti, sì che possa da sè scavare i fori nella pietra, per entrare nel più intimo del Verbo, con vigore e purità d’animo„.19 E Dante s’è nascosto sotterra; il che vuol dire: egli contempla. Non basta: egli non saprebbe portare ad altri il frutto della contemplazione sua. Dice S. Bernardo che non suona la voce del contemplante, se non scava il foro da sè. Da sè scavò il foro l’autore dell’Apocalissi, che s’immerse nei penetrali del Verbo. Da sè, colui che parlava sapienza tra i perfetti, sapienza nascosta nel mistero; che giunse al terzo cielo dove udì parole ineffabili che non gli fu lecito ripetere. Ora Dante dichiara sè simile a questi due perchè egli afferma di avere avuto nel cielo comando, non che licenza, di ridire le parole della sua contemplazione. Pietro in persona lassù gli dice:20
Apri la bocca,
e non asconder quel ch’io non ascondo!
In ciò è la singolar grandezza dell’assunto di Dante; in ciò è la confessione della piena coscienza che egli ne aveva. La voce della contemplazione sua non risonò soltanto nel segreto della sua coscienza, come il gorgoglio del fiumicello che si ode e non si vede; ma egli la gettò fra gli uomini e fece manifesta la sua visione.21 Egli dunque, secondo la mistica espressione di S. Bernardo, da sè fece le caverne di macerie, da sè scavò il duro sasso. Il che torna a dire, che ogni uomo può salvarsi scendendo col Redentore e col Redentore risalendo; ma che a ben pochi è dato vedere quello che al veggente di Patmo e all’Apostolo delle genti e a Dante; e a ben pochi ripetere le parole del mistero, come non a Paolo e sì a Dante.
Poichè egli “abitando nella fossa sotterranea aveva tanto profittato nel sanare l’occhio interiore che a faccia aperta potè contemplare la gloria di Dio; e solo allora potè, quello che vide, parlare fiducialiter, piacente e di voce e di aspetto„.
Fiducialiter, cioè rimossa ogni menzogna. Piacente di voce, sebbene ella sia per essere molesta nel primo gusto; e piacente di faccia, perchè non poco onore a lui verrà da quel vento che percuote le cime, da quel vento che è il suo grido.22
Note
- ↑ Inf. I 91, 29; II 62; Purg. XVI 60.
- ↑ Inf. I 114 segg.
- ↑ Purg. XXXIII 91 segg. Inf. XXXIV 127 segg.
- ↑ Inf. III 133 segg.; Purg. XXXI 89 segg.
- ↑ Purg. XXXI 103 segg.
- ↑ D. Bern. In Nat. Dom. Sermo 1. Il luogo di S. Paolo è di ad Tit 2.
- ↑ id. ib.
- ↑ Vedi a pag. 199. Conf. Par. VII 85; Vostra natura, quando peccò tota etc. Par. XIII 86.
- ↑ l. c.
- ↑ Purg. XXXIII 136.
- ↑ Tertius acquarum usus est irrigatio, quam profecto maxime necessariam habent novellae plantationes. Bern. l. c.
- ↑ Purg. XXXIII 148 seg.
- ↑ Inf. XXXIV 127 seg.
- ↑ D. Bern. Super cantica Sermo 61. Alius hunc locum (columba mea in foraminibus petrae) ita esposuit, foramina petrae vulnera Christi interpretans. Recte omnino, nam pietra Christus. Bona foramina, quae fidem astruunt resurrectionis et Christi divinitatis.
- ↑ Purg. I 31 segg.
- ↑ D. Bern. Cant. S. 61.
- ↑ Id. ib. 62.
- ↑ In S. Bon. Summa VII, 3,3, per posteriora s’intende anche «gli effetti». E gli effetti (vedi Th. Summa 2a 2ae 180, 4) divini sono sì i giudizi sì i benefizi.
- ↑ Id. ib. 62. Le prime parole sono di Isaia 26.
- ↑ Par. XXVII 65 seg.
- ↑ Par. XVII 128. Riporto esattamente due passi del Sermone 62. Per «cavare et in petra, puriori mentis acie opus est et vehementiori omnino intentione, etiam et meritis potioribus sanctitatis. Et ad haec quis idoneus? Nempe». S. Giovanni, S. Paolo e forse David: dice S. Bernardo. L’ispirazione che a Dante venne da questi sermoni è manifesta. Dopo la ghiaccia e Lucifero trova Dante il foro di Letè. San Bernardo dice che il foro nella pietra è rifugio per i più gravi peccati. Peccavi peccatum grande, turbatur conscientia, sed non perturbabitur, quoniam vulnerum Domini recordabor. Quid tam, ad mortem quod non Christi morte salvetur? E parla di Caino. Ora Dante quando si mette nella natural burella ha veduto i peggior peccati, e ha passato non solo la Caina ma la Giudecca.
- ↑ Par. XVII 124 e seg.