Sopra le vie del nuovo impero/La lotta di classe araba
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La lotta di classe araba,
attraverso l’emigrante italiano,
contro il dominatore francese.
Tunisi, 9 Marzo.
Col boicottaggio dei tranvai gli arabi di Tunisi attaccarono gli italiani su terreno, come suol dirsi, economico: iniziarono una vera e propria lotta di classe. La lotta nazionale, chiamiamola così, diventò una vera e propria lotta di classe: si esercitò e si esercita per mezzo della lotta di classe. Vedano i lettori le complicazioni del socialismo nelle colonie, del socialismo che appare così semplice, anzi semplicista, come dicono loro, in Europa. In Europa gli italiani che sono qui, costituiscono la vera e propria classe proletaria operaia; ma in Affrica sotto a questa classe ce n’è un’altra la quale è ben più proletaria, e sono gli arabi che sono proletarii di tutto, compresa la possibilità di lavorare. Dinanzi agli arabi d’Affrica gli italiani proletarii d’Europa diventano borghesi che detengono, come sempre dicono loro, il lavoro che è pure una forma di proprietà ed è la fonte della proprietà e della ricchezza. Sbarcando su queste coste d’Affrica l’emigrante italiano portò via il lavoro all’indigeno e ridusse la sua possibilità di vivere a zero. Ora l’indigeno proletario si sollevò contro l’emigrante borghese e per la prima volta domanda la sua porzione di possibilità di vivere, la sua porzione di lavoro. Viceversa, sull’uno e sull’altro, sul proletario indigeno e sull’emigrante borghese, sta il vero e proprio borghese, il dominatore francese che qui portò capitale, armi, amministrazione, leggi.
Il boicottaggio dei tranvai è perfettamente disciplinato, nè un arabo, come dissi nella lettera precedente, lo viola. Ci deve essere dunque un disciplinatore, ci deve essere chi conduce gli arabi, come si conduce un esercito. E costoro sono senz’alcun dubbio i Giovani Tunisini, per quanto essi forse non sian disposti a confessarlo. Ma sta il fatto che nel boicottaggio dei tranvai, come gli arabi fecero la loro prima prova di lotta di classe contro gli italiani, così i loro primi risvegliatori, i loro primi connazionali «evoluti», i Giovani Tunisini, dettero il loro primo saggio di forza e di sapienza ordinatrici. Essi al sollevamento fanatico degli arabi dettero un carattere, un indirizzo, un programma e sopratutto una moderazione. La plebaglia araba, sollevatasi, non avrebbe saputo da se stessa se non far macello, senza tanto distinguere probabilmente tra italiani e francesi; e furono, non vi ha dubbio, i Giovani Tunisini che ammonirono come per il momento fosse opportuno distinguere. Direttasi contro i tranvai, la plebaglia araba non avrebbe saputo far altro, se non cacciarne tutti gli italiani per occuparne essa tutti i posti: i Giovani Tunisini ammonirono che per il momento bisognava contentarsi di alcuni posti soltanto e di un aumento di mercede. I Giovani Tunisini non chiedono di più per i loro: un certo numero di conduttori arabi sia assunto dalla compagnia accanto a un certo numero di conduttori italiani, e la paga dei primi sia uguale a quella dei secondi.
Quando si dice Giovani Tunisini, si pensa ai loro correligionarii Giovani Turchi od ai nazionalisti d’Egitto, loro consanguinei. Ed io infatti a un capo dei Giovani Tunisini, al signor Zauche, domandai appunto se era precisamente così, se, cioè, i Giovani Tunisini derivavano dai nazionalisti d’Egitto, o dai Giovani Turchi, ma il signor Zauche mi rispose di no. Il signor Zauche con perfetta compitezza araba, la quale compitezza è una signorilità di modi, di parola, di voce raccolti e velatissimamente circospetti, mi spiegò l’origine, la natura, gli scopi della parte politica che egli capeggia. L’origine è dalla cultura, la natura è di cultura ed economica, gli scopi sono morali ed economici, per tutto il popolo arabo della Tunisia.
— Non avete anche un fine politico? — io domandai al signor Zauche.
E il signor Zauche mi rispose:
— Non l’abbiamo.
— Niente.... verso la Francia?
— Niente contro la Francia.
— Nemmeno per l’avvenire?
— Nemmeno.
— Nemmeno per il più lontano avvenire?
— Chi può prevedere il più lontano avvenire?
E il signor Zauche così dicendo aveva l’aria di non prevedere affatto. Stava dinanzi a me nel suo scrittojo, compito, raccolto, sommesso, perfetto gentiluomo arabo francesizzato, europeizzato, con un solo distintivo arabo sulla testa, il berretto rosso; ancora giovane, parlando correttamente il francese, quasi correttamente talvolta l’italiano; nello scrittojo della sua azienda industriale che ha in società con un italiano. Non disse la minima parola forte, non soltanto contro i francesi, ma neppure contro gli italiani; talchè m’apparve il docile e pacifico mediatore ideale dei tre popoli, l’indigeno, il dominatore e l’emigrante.
I Giovani Tunisini, a quanto mi disse il signor Zauche, sono contenti di restare sotto la Francia, anche per l’insegnamento datoci dalla storia: che, cioè, la Tunisia fu sempre dominata, dall’oriente o dall’occidente; dall’oriente, quando fu più forte, dall’occidente, quando fu più forte; nè poteva essere, nè potrebbe essere altrimenti, a cagione della sua posizione geografica. I Giovani Tunisini chiedono alla Francia, per il loro popolo, istruzione e lavoro soltanto; chiedono soltanto che essa promuova il risorgimento morale ed economico del popolo arabo. Essi stessi nacquero dalla scuola e nella scuola. Nacquero, i Giovani Tunisini, verso il 1875 in una scuola di Tunisi in cui era penetrata qualche cultura europea. Alcuni alunni di questa scuola andarono a Parigi a perfezionarsi e sempre più si europeizzarono. Quando nel 1881 la Francia venne qui, essa si servì di loro per interpreti, e sempre più i vincoli fra questa esigua avvanguardia del popolo arabo e la cultura francese, europea, si restrinsero. Ma la Francia, una volta installatasi qui, volle far tutto presto. Datasi a costruire in fretta, adoperò il lavoro che le si offriva pronto e migliore, l’italiano, e così l’artigianato indigeno fu soppresso. Ed ora appunto un solo rimprovero i Giovani Tunisini muovono alla Francia: quello di non avere in 30 anni allevata una classe d’operai indigeni buoni e capaci di tener testa agli operai stranieri, vale a dire, italiani. Ma neppure contro gli italiani gli arabi sin qui nutrivano rancore; nessun rancore nei loro animi s’era risvegliato, perchè nella loro secolare sonnolenza non s’erano nemmeno accorti; e soltanto ora, proprio in questi ultimi mesi e giorni è avvenuta la genesi, il primissimo crepuscolo d’una coscienza economica araba in Tunisia; e ora il muratore arabo dice: — Io non lavoro, perchè mi ha portato via il lavoro il muratore straniero, l’italiano! — E così per la prima volta gli animi degli arabi, aiutando la guerra italo-turca e il fanatismo della comune religione, e il cimitero del Djellas e i Giovani Tunisini (per quanto il parere del guardingo signor Zauche, certo degno d’esser preso in considerazione, sia diverso); e altri aiutando forse che mai non appariranno; così per la prima volta gli animi degli arabi si diressero contro gli italiani per una vera e propria lotta di classe. O meglio, i Giovani Tunisini, i soli saggi fra tutti, tiraron su dal sangue dove subito era precipitata, la lotta etnico-fanatica, e la convertirono in lotta di classe illuminata, determinata, misurata e moderata: essi chiesero ad una compagnia francese di far posto sui tranvai ad un giusto numero di conduttori arabi, accanto a un giusto numero di conduttori italiani, a parità di trattamento. Posero le fondamenta di un programma che tocca i tre popoli. Da questo momento l’indigeno, il popolo arabo, materia informe e addormentata, ha per il suo futuro risorgimento in Tunisia una mente, una volontà, una voce, una azione: i Giovani Tunisini. Questi, nel dramma dei tre popoli, incominciano a delinearsi come veri protagonisti. Soltanto, stando a quanto mi disse il signor Zauche, non prevedono nessun avvenire contro la Francia. E proprio così.
La Francia officiale è arabofìla. Parigi, il parlamento, il governo metropolitano sono arabofili. Di lassù fu comandato quaggiù un indirizzo di politica arabofìla. Il residente generale, Alapetite, tornò da Parigi il Febbrajo scorso, dopo una controversia sopra la sua amministrazione tunisina al Palais Bourbon, più arabofilo di prima. Sbarcato, dal porto alla residenza fece la strada a piedi in mezzo a grandissima festa d’arabi.
L’arabofilia, durante questo periodo di guerra italo-turca per la Tripolitania, ha imposto la sua conseguenza estrema: la turco-filia. Gli arabi che il 20 Febbraio accompagnarono dal porto al palazzo il residente generale reduce da Parigi, gridarono evviva la Francia, evviva la Turchia, e un giornale di Tunisi commentò dopo, che gli arabi gridavano evviva la Francia per meglio poter gridare evviva la Turchia. È un dato degno d’esser posto in evidenza, di psicologia popolare, o piuttosto, di psicologia delle relazioni che possono intercedere fra un capo di governo e una moltitudine. In quel momento il rappresentante del governo francese doveva rassegnarsi ad ascoltare quel grido, evviva la Turchia, degli arabi che lo seguivano e l’applaudivano. E a Susa, nel suo recente viaggio, monsieur Alapetite parlò «dei legami di parentela legittimi e rispettabili che uniscono gli arabi e i turchi». Vale a dire, pur di potere essere alquanto turcofilo con gli arabi, si rassegnò ancora ad apparire ignorante di storia, poichè tutti sappiamo che una parentela fra arabi e turchi non esiste.
C’è a Tunisi e in tutta la Tunisia una opposizione francese alla politica arabofila officiale.
Sono oppositori coloro i quali hanno affari sul posto; sono intere classi di persone, tutti i proprietarii di terre, per esempio, i cosidetti colons. Loro interpreti, interpreti degli interessi franco-tunisini in conflitto con gli indirizzi politici che vengono di Parigi, sono alcuni indipendenti delle classi colte, sono giornali. C’è una Tunisie Française che mena una campagna acerrima contro la cosidetta politica d’associazione. «In grazia di questa politica (scriveva giorni sono il foglio tunisino) l’indigeno, già poco disposto ad amarci, s’accorgerà ben presto del poco conto che fa di noi il nostro stesso governo, e da questo a rifiutarci ogni obbedienza necessaria in un contratto di lavoro, è breve il passo. Presa padronanza, l’arabo affetterà disdegno per il colono, lo molesterà da principio nelle piccole e poi nelle grandi cose, e sicuro di trovare l’impunità presso i poteri pubblici e l’indulgenza cieca nell’amministrazione, farà il comodo suo e gaiamente distruggerà tutti gli sforzi fatti sin qui per condurre a bene una colonizzazione difficile, arrischiata, e per avvantaggiare lui stesso. Il colono francese allora, alle prese col rigore d’un clima torrido, le stravaganze d’una cultura per cui l’acqua è sì capricciosa, gli impacci della amministrazione e le sue taccagnerie, la pigrizia atavica de’ suoi «associati», si disgusterà di quest’ultima e dell’ingiustizia della madrepatria. E a poco a poco si ritirerà lasciando campo libero agli italiani che seguiteranno ad invadere il suolo della nostra colonia fino al giorno in cui l’amministrazione francese rimarrà sola in un paese dove gli abitanti saranno di per tutto, eccettochè di Francia».
Ho voluto in questi giorni interrogare alcuni coloni e ho fatto loro la domanda precisa: — Perchè voi siete contrarii alla politica d’associazione, all’arabofilia del residente e del governo francese? — Perchè (m’hanno risposto ad una voce) questa politica, dal 7 Novembre ad oggi, ha reso gli arabi intrattabili, ha suscitato nei contadini arabi lo spirito sovversivo, all’europea. — Se si pensa poi che questi arabi sono così nel pugno dei loro disciplinatori Giovani Tunisini, si ha il quadro compiuto: si ha il perfetto tipo, appunto, del proletariato sovversivo e organizzato, all’europea.
I colons sono antiturchi, non per amore dell’Italia, ma perchè vedono nella turcofilia un tirocinio d’insubordinazione per gli arabi. Giorni sono, la Tunisie Française scriveva: «Non c’è bisogno d’esser residenti generali e basta soltanto sapere un po’ di storia per poter affermare che i nostri tunisini appassionandosi tanto alla lotta che si mena in Tripolitania, moralmente si ribellano alla Francia. Afferrando ogni occasione per testimoniare le loro simpatie alla Turchia, i musulmani della reggenza passano sopra alla politica francese che non da oggi, ma dal 1864 in poi consistette sempre nel respingere, anche con la forza, gli attentati della Porta contro l’indipendenza beylicale. Con la storia alla mano potremmo dimostrare che il grido «viva la Turchia» è in Tunisia sedizioso, e le autorità francesi non avrebbero mai dovuto permetterlo. Al contrario, triste a dirsi, proprio con questo grido prorompente da mille e mille petti fu salutato il ritorno del residente generale da Parigi a Tunisi! Che importa se si gridasse anche viva la Francia? Era manifesto che i nostri indigeni gridavano viva la Francia per poter gridare impunemente viva la Turchia».
Ebbene, concludendo, che vuol dire tutto ciò? Vuol dire che i colons, tutti i francesi insomma trapiantati nel suolo tunisino, hanno già sentito il fatto che sta avvenendo, ed è questo: la lotta di classe araba, attraverso il falso borghese, l’emigrante italiano, già attacca il borghese vero, il dominatore francese. Il lontano avvenire, non previsto dal signor Zauche, già si disegna: assistiamo a Tunisi alla nascita d’una specie di socialismo arabo che avendo cominciato con apparire soltanto antitaliano, già si è anche svelato per antifrancese.
Domenica scorsa ci furono le elezioni per la conferenza consultiva, una specie di parlamentino tunisino. La politica arabofila di monsieur Alapetite fu battuta; furono eletti i candidati dell’opposizione.
Ma in una prossima lettera vedremo come fra le due politiche, quella dei coloni e quella del Palais Bourbon, di monsieur Alapetite e dei Giovani Tunisini, quest’ultima sia destinata a trionfare, per la forza ineluttabile delle condizioni generali dell’impero francese d’Aurica.
Or non è molto il Temps scriveva: «Dobbiamo rinunziare a riconciliar i due popoli obbligati a vivere l’uno accanto all’altro nell’Affrica del Nord? O dobbiamo piuttosto sopprimere i privilegi dei coloni, qualora s’oppongano a detta riconciliazione? Noi diciamo alla colonia tunisina che aumenta il numero di quelle persone le quali pensano che la Francia, se sarà costretta a scegliere, non debba rinunziare alla riconciliazione dei due popoli».