Sole d'estate/Luna di settembre
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LUNA DI SETTEMBRE
Era melanconico, quella sera, il vecchio poeta. Vecchio? Lo diceva lui, per un’estrema civetteria maschile, o meglio per l’abitudine di dare una lieve patina di pessimismo alle cose troppo chiare, e spesso belle, della realtà: ma i suoi folti capelli avevano ancora un’increspatura giovanile, che nascondeva il bianco sotto il nero, e che il riflesso della luna, già alta sulla veranda della villa, dov’egli si abbandonava ai suoi pensieri, accendeva della stessa argentea tremula chiarità del mare.
È vecchio, anche il mare, eppure non è mai apparso, fra gl’intercolunni dei pioppi del giardino, più translucido di poesia, di pace, d’illusione. Immobile, frugato solo dai raggi della luna, dà l’idea di un ghiacciaio azzurro sul quale si possa trasvolare, in un’atmosfera di freschezza e di allucinazione.
Un senso di allucinazione lo prova anche il poeta: la sua stessa tristezza ha un fondo di sogno. E non lo è stata, e non lo è ancora, tutto un sogno, la sua vita? Per quanto ricordi, egli ha sempre sofferto e sempre goduto: come il mare, tempeste che sembravano implacabili, e calme simili a quella di questa notte d’incanto, hanno smosso o fermato i suoi giorni. Un tempo egli aveva adottalo per suo motto la celebre strofa biblica: povero son io ed in affanni fin dalla mia prima età; cresciuto poi fui umiliato e depresso; e invece ricorda che i più alti onori gli furono concessi, che fu amato e lodato da milioni d’uomini; e l’oro colò fra le sue dita come l’acqua e la polvere nella clessidra del tempo. Anche adesso la sua giornata passa in quiete salutare, spesso in letizia: perché dunque, questa sera, la melanconia lo riveste coi raggi della luna? La luna, dicono nei paesi del nord, è il sole dei giovani: ecco perché adesso egli sente la fredda lontananza del pianeta, il cui viso lo sbeffeggia col sogghigno di un cattivo fantasma. Da questo mistero di lontananza, che d’altronde lo distaccava anche dalle cose più vicine, e lo isolava come uno a cui nessuno più possa accostarsi, arrivavano tuttavia voci, suoni, vibrazioni, segni di vita intensa e commossa. Il gemito di passione di un violino sgorgava dalla radio di una villa accanto, e dal lido arrivavano, come stridi appassionati di gabbiani, le risate delle giovani coppie in amore. Povero son io ed in affanni fin dalla mia prima età....
Ecco che i desolati versetti della sua prima giovinezza gli affioravano alla memoria, con un rigurgito acre: sì, tutto si era sciolto fra le sue dita: il tempo, l’oro, la speranza, la fede: in mezzo alla ricchezza del suo giardino, della sua casa, della notte di meraviglie, egli si sentiva al punto di partenza della sua vita: povero fra i più poveri, umiliato e depresso dalla gioia e dall’indifferenza dei suoi simili.
Volle scuotersi: si alzò, alto e come marmoreo nel suo vestito della chiara estate; guardò dentro la sala che dava sulla veranda: la luce vi era spenta, ma s’intravedeva egualmente un lieve splendore di cristalli, di mattoni lucidi, di vasellame e di metalli: in una bottiglia di liquore verde, sul marmo di una mensola, una scintilla di smeraldo ammiccava come l’occhio di una civetta.
Bere! Tante volte, nelle sue solitudini notturne, egli era stato tentato da quell’occhio dolce e diabolico: resisteva, e ne era compensato dal limpido sonno che segue alle astinenze volontarie, e sopratutto dal fresco riso dell’alba che lo richiamava al lavoro e alla vita della nuova giornata.
Ma quella notte la tentazione era più forte del solito: ed egli fece un passo per rientrare nella sala; lo fermò un lieve scricchiolìo della ghiaia del vialetto sotto la veranda. Il vialetto finiva nel cancello che si apriva sull’arenile; e nel volgersi, egli vide il cancello aperto e un’ombra che vi si era introdotta e che con lentezza sicura e familiare si avanzava verso gli scalini della veranda.
Era una figura esile e piccola, vestita di turchino chiaro, coi pantaloni lunghi e larghi: i capelli di rame brillavano alla luna. Sulle prime egli la credette quella di una donna, in pigiama da spiaggia, come se ne vedevano in quei mattini ancora caldi di settembre: ma a misura ch’ella si avvicinava egli ne distingueva il viso brunito, gli occhi piccoli, fissi, e due baffetti neri che lasciando completamente scoperto il labbro superiore, davano l’impressione che fossero finti, agganciati per scherzo alle narici.
Furono questi baffetti che indispettirono il poeta: sapeva bene che erano di moda, come di moda, ai suoi tempi, erano i virili baffoni di alcuni suoi compagni d’arte: ma appunto il paragone lo irritò maggiormente. Pur nel sentire che lo sconosciuto importuno era innocuo come un sonnambulo, si abbandonò a immaginarselo pericoloso, anzi spinto da intenzioni criminose: quindi gli si rivolse ostile, chiedendogli con voce grossa:
— Chi è lei? Che cosa vuole?
Il fantasma era arrivato fin sotto la veranda, e si apprestava a salirne gli scalini: la voce del poeta lo fermò, fra spaventato e stupito: poi il suo ginocchio destro si piegò; tutta la sua persona parve volesse genuflettersi davanti alla grande figura bianca illuminata in pieno dalla luna, come davanti alla statua di un santo sull’altare: la voce sempre più sdegnata del santo fermò anche il rispettoso ginocchio.
— Le proibisco di inoltrarsi. Che cosa vuole?
— Scusi, per cortesia....
— Che cosa vuole? — ripetè tonante l’idolo disturbato, mentre la testa riccioluta di una donna si affacciava a una finestra della villa.
Lo sciagurato visitatore ebbe forse paura: forse vide tutta la servitù minacciosa del poeta che gli si precipitava addosso per cacciarlo via a suon di pugni: ma si sollevò subito, ripescando dal profondo dell’anima mortalmente offesa tutto il suo coraggio. Gridò anche lui, e la sua voce risonò davvero come quella di un sonnambulo crudelmente risvegliato: il suo viso fu tutto un sogghigno.
— Maestro, sì, sono un ladro, sì, sono un malfattore. Qualche cosa volevo rubarle, sì. Passavo, come tante altre volte, davanti al suo cancello: il cancello era aperto....
Già in fondo placato, l’altro ribollì ancora di sdegno, sia nel sentirsi chiamare ironicamente «Maestro», sia nel raccogliere, dalle ultime parole del giovine una piccola bugia.
— Il cancello era fermato con la maniglia, — disse, spingendo il braccio col pugno chiuso — e fosse stato anche aperto, lei doveva suonare, prima di entrarci.
— Signore, lei mi offende....
— Tanto meglio: le sarà di lezione. E adesso mi faccia il favore di andarsene.
Ma l’intruso non la intendeva così: un furore ben più scottante e profondo di quello del poeta lo sollevava tutto: quasi per una forza di difesa contro un nemico mortale, balzò sulla scalinata, fu quasi petto a petto con l’idolo, parve volesse attaccarlo e infrangerlo; ma alle voci era precipitata giù la cameriera, e fu la vista della elegante fanciulla nero-bianca trinata che ricompose immediatamente il maleducato visitatore. Senza affrettarsi, egli ridiscese retrocedendo gli scalini, fece un segno di saluto, e andò via: la cameriera lo raggiunse, e mentre ella apriva e poi chiudeva a chiave il cancello, il padrone si accorse che il giovine, nell’uscire, le diceva qualche cosa.
— Sa che cosa mi ha detto? — ella esclamò, sollevando con un bel gesto teatrale il lembo diafano del grembialino; — che voleva solo farle omaggio, e che un giorno anche lui sarà un grande uomo.
— Tanto meglio per lui, — brontolò il padrone; e sarebbe ricaduto in una più profonda melanconia senza il pensiero che forse la lezione di quella notte avrebbe giovato alla futura grandezza del giovane sognatore.