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Era melanconico, quella sera, il vecchio poeta. Vecchio? Lo diceva lui, per un’estrema civetteria maschile, o meglio per l’abitudine di dare una lieve patina di pessimismo alle cose troppo chiare, e spesso belle, della realtà: ma i suoi folti capelli avevano ancora un’increspatura giovanile, che nascondeva il bianco sotto il nero, e che il riflesso della luna, già alta sulla veranda della villa, dov’egli si abbandonava ai suoi pensieri, accendeva della stessa argentea tremula chiarità del mare.

È vecchio, anche il mare, eppure non è mai apparso, fra gl’intercolunni dei pioppi del giardino, più translucido di poesia, di pace, d’illusione. Immobile, frugato solo dai raggi della luna, dà l’idea di un ghiacciaio azzurro sul quale si possa trasvolare, in un’atmosfera di freschezza e di allucinazione.

Un senso di allucinazione lo prova anche il poeta: la sua stessa tristezza ha un fondo di sogno. E non lo è stata, e non lo è ancora,

Deledda, Sole d’estate 3