Sole d'estate/Una creatura piange
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UNA CREATURA PIANGE
Da molto tempo non andavo in chiesa: e quella volta vi andai per una ragione apparentemente pratica. Mio figlio prendeva parte ad un concorso importantissimo, dall’esito del quale dipendeva il suo avvenire economico e sociale. Più che sicuro di sè, rifiutava sdegnosamente ogni raccomandazione: ma una piccola, diretta raccomandazione alla Madre di Dio non costa neppure la spesa del francobollo, non corre pericolo di gentili rifiuti o di vane promesse.
Vado dunque in chiesa. Scelgo una chiesetta che un tempo frequentavo, in un sobborgo della città: è vecchia, povera, ma con avanzi di mosaici e di vetri istoriati: dai finestroni aperti si vedono due pini, avanzi anch’essi di un antico parco; si sente l’ultimo garrire delle rondini; e le cantilene dei bambini che giocano e danzano nelle strade accompagnano il mormorio delle preghiere. La sera è calda, rossa, odorosa di polvere, ma sa anche di un lontano profumo campestre: sembrerebbe anzi di essere in un villaggio, per la genterella che affolla la chiesetta, se subito dietro i pini non si intravedessero le facciate di quelle bianche costruzioni popolari, a molti piani, con le finestre e le terrazze festonate di stracci, che solo a guardarle stringono il cuore ai vecchi poeti e alle ricche donne sentimentali.
Dentro la chiesetta, però, nella rosea penombra dei ceri e del tramonto, si stava bene. Si ha un bel dire: ma la casa di Dio è sempre la miglior casa dell’anima nostra ancora bambina: ci si rifugia e ci si riposa, sicuri della protezione di un padre al quale nulla sfugge dei nostri più intimi desideri.
Di queste cose parlava, sporgendosi dal piccolo balcone merlettato dell’antico pulpito, il giovane frate bruno e calvo, quando nel silenzio intenso che accompagnava il suo sermone vibrò, prima lieve e sottile, un lamento che pareva quello di un bambino malato o abbandonato. Veniva da una delle case più vicine, usciva libero da una finestra aperta e pioveva giù dal finestrone a sinistra della chiesa: pioveva, sì, con una forza naturale, come un filo d’acqua, un raggio melanconico di luna.
Credetti di essere io sola a sentirlo, ma subito, accanto a me, nella folla delle donne, tutte con la testa coperta di poveri fazzoletti, ne distinsi una, ancora giovane, con un velo di merletto nero messo alla spagnola sui capelli chiari, che porgeva un’attenzione quasi angosciosa al lamento infantile, mentre questo si faceva sempre più alto, supplichevole e insistente.
Tutte incantate ad ascoltare la bella voce profonda e grave del predicatore, le altre donne non sentivano altro: fu piuttosto un sospiro della signora dal velo nero che fece volgere la testa ad una vecchia accanto a noi, e spalancare come al segno di un pericolo i suoi occhi verdicci stralunati. Nell’accorgersi che noi si fissava il vuoto del finestrone, anche lei sollevò il viso, allargandosi sulle orecchie il fazzoletto: e si raggrinzì tutta, di pietà e di sdegno, mentre la creatura che emetteva il lamento, quasi accorgendosi della nuova attenzione, lo raddoppiava, facendolo scoppiare in un pianto sconsolato, sibilante di richiami urgenti e disperati. Parevano gridi di un infelice, tormentato sveglio dai ferri di un chirurgo: e la vecchia disse a voce alta: — Ma è un bambino! Povera creatura, che le fanno?
D’un colpo tutte le donne intorno volsero la testa verso il finestrone: visi arcigni di zitellone disturbate nell’estasi, visi di vecchie buone nonne, e di madri sofferenti e amorose, occhi pieni di ansia, di curiosità, di pietà, di ostilità, tutti furono rivolti verso il punto dal quale l’innocente domandava soccorso. Soccorso, soccorso! Come uno che, abbandonato, rinnegato dalle persone sue più care, anzi da esse condannato a una fine crudelissima, si rivolge, per aiuto, alla comunità degli uomini.
Allora la donna dal velo nero gemé; le rispose il gemito di altre donne; ma il suo era diverso dal loro, e ben lo capì la vecchia dagli occhi verdi. Lucciole nel buio parevano, questi occhi, quando ella domandò:
— Ne sa niente, lei, di questo pianto?
La presunta spagnola non risponde; anzi si alza sdegnosa, fa un profondo inchino verso l’altare; con la mano bianca e fina si sfiora il viso e il petto con un grande segno di croce, e fa per andarsene. Una curiosità morbosa si era diffusa però intorno a lei e le donne la guardavano come una indemoniata; la vecchia, poi, che aveva intorno alle iridi verdi la larga sclerotica bianca delle persone destinate alla pazzia, fece il gesto di afferrarla per le vesti: si rattenne, ma appena l’altra si avviò, anche lei balzò in piedi e la seguì cautamente.
Lì per lì le altre donne non osarono muoversi; anzi la maggior parte, già ricomposte, rispondevano con un dolce belare di caprette commosse alle preghiere che il frate, tornato davanti all’altare, intonava con la sua voce potente di basso. Voce che disperdeva intorno e via per lo spazio, non solo il pianto della creatura travagliata, ma tutte le miserie e tutti i dolori del mondo, e tutti li rimetteva a Chi li manda e li rivuole, a Chi affligge l’uomo per poi consolarlo.
Non tutti i cuori potevano capire quest’armonia divina, e forse neppure il mio era in quel momento capace di intenderla, poiché la mia curiosità umana si rivolgeva piuttosto alle donne inquiete che, appena uscite di chiesa le due principali protagoniste di questo dramma, se la svignavano anch’esse, furtive, con gli occhi bassi, ipocritamente sospirose.
Ed ecco che sono pur io nel loro numero; con la punta delle dita sfioro l’acqua benedetta, e nell’antica pila di marino ingiallito dal tempo mi sembra di vedere il favoloso vaso nel cui fondo verdeggia l’immortale chimera della speranza. A dire il vero la speranza che il dramma del bambino martoriato andasse a finir bene mi galleggiava fin da principio in fondo al cuore: tuttavia seguii fuori le donne, che si dirigevano tutte verso la casa a sinistra della chiesetta, come fosse la loro legittima abitazione: tutte però si fermarono davanti al portoncino spalancato, mentre la vera padrona della casa, la signora dal velo nero, saliva lentamente le scale, lasciandosi pedinare dalla sua inquisitrice.
Il pianto misterioso, che usciva appunto da una finestra del primo piano, si affievoliva e si placava come il lamento di un bambino che si addormenta. Poi tacque. Allora la donna che si era tolta dai capelli d’oro e d’argento il velo nero si affacciò alla finestra: e la risata che scoppiò giù tra la piccola folla dei curiosi parve quella dei ragazzi al teatro delle vicende comiche: poiché la signora teneva fra le braccia il suo bel cagnolino Toti che, dopo aver così a lungo e desolatamente pianto per l’abbandono di lei, adesso guaiva di gioia e le leccava con riconoscenza appassionata le mani.