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apparenze, qualche volta bugiardina: mi piacerebbe, certo, il lusso, il divertimento, le cose belle, l’automobile, le serate di gala, le grandi stazioni balneari...
Si fermò, impaurita di sé stessa; ma la mamma le batté di nuovo la mano sulla mano. Disse scherzando:
— Ti converrebbe il signorino Pùliga, allora.
Scherzava, sì, ma la sua voce aveva come un velo: uno di quei veli che coprono d’improvviso il sole e, senza offuscarlo, per il momento, minacciano vagamente di addensarsi e diventare nuvole burrascose. Leny sollevò le palpebre, ringoiò le lagrime: la luce del suo cuore si spense. Sentì che fra lei e Gregorio, fra lei e la mamma di Gregorio, si apriva un oceano: da una parte loro, madre e figlio, sulla riva lineare di una esistenza fatta di nulla e di tutto; dall’altra lei, sullo sfondo di un miraggio bellissimo e spaventoso. No, la madre non scherzava, con le sue ultime parole; e Leny, con gli occhi bene aperti, adesso, pensava che bisognava andarsene, camminare, cercare altrove: chi cerca trova. E si alzò, decisa di andare in cerca della signora Pùliga. Ma le faceva male il cuore, perché dentro vi sentiva, sì, un nido di serpentelli.