Cap. XI

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XI.

In fatto di musica, Lei lo sa, io sono un villano: abborro le dotte e complicate armonie, sono invece sensibilissimo ai tamburi e alle campane: aboliti quelli e rinviati alla storia, non mi restano più che le campane: la loro possente voce di bronzo che infastidisce tanti timpani delicati, non mi ha mai recato disturbo: anzi talora ha posto fine alle insonnie di lunghe notti cullandomi col sonoro saluto del mattino.

È la monomania del grottesco Quasimodo, lo so: ma fu pure la passione di Giovanna d’Arco, la quale, prima di partire per le sue miracolose imprese, sentiva così profonda la poesia delle campane che aveva promesso al campanaro di [p. 100 modifica]Vaucouleurs una veste di lana perchè fosse diligente a suonarle.

Anche le buone monache di Majano volevano bene alle campane; e nei loro registri ne danno larghe notizie, non trascurando neppure il desiderio del loro confessore ordinario, il quale s’era raccomandato perchè alla sua morte gli venisse suonato un doppio.

Se non ho male studiato nel registro delle monache i documenti del loro fervore religioso, mi pare che l’anno culminante sia il 1714. Le memorie di quell’anno cominciano con esclamare Viva Gesù e Maria: e soggiungono che compiuta una stanza da capitolo, la quale prima mancava, «si principiò a farvisi.... la disciplina ne’ giorni determinati dalla santa regola.... e la lezione spirituale avanti compieta.... con sommo contento delle religiose tutte attente all’osservanza.» Nello stesso anno si fece per nove giorni continui, avanti Natale, l’esposizione del [p. 101 modifica]Venerabile... con sommo decoro e... singolare divozione dei villeggianti. — Nello stesso anno si introdusse la divozione della buona morte, e di Roma si ebbe l’altare privilegiato. — E il giorno del venerdì santo si fece un maestoso sepolcro con cento venti lumi, alla visita del quale intervenne monsignor Panciatichi (vescovo di Fiesole) con tutti i seminaristi con sua somma consolazione.

Ora, signora mia, c’è il vescovo, ci sono i seminaristi, si fanno sepolcri e buone morti, persiste un po’ di divozione nei villeggianti: ma le fervorose monache più non ci sono da molti anni.

Però neppure allora le ricchezze del monastero corrispondevano al fervore. Immagini che il serenissimo Granduca Cosimo III di gloriosa memoria (così almeno dicono le monache) nel 1722 aveva dato per carità 4000 libbre di ferro per fare le grate al coro oltre due lastre quadre per il focolare: ma in vent’anni [p. 102 modifica]successivi il monastero «non ebbe mai il comodo di spendere di proprio per fare dette grate.» E chi sa quanto altro tempo sarebbe trascorso senza effettuare la mente del Granduca, se nel 1742 le sorelle Rosalba e Angiola Del Nero, tutte e due monache là dentro, non si fossero assunte loro la spesa, che fu di scudi 19, lire 3, soldi 16, e 2 quattrini!

E noti che le brave monache non trascuravano le economie. Fino al 1717, prevaleva l'usanza, introdotta da molti anni, di pagare ai cappellani a due paoli l’una le messe delle domeniche e di altre feste: ma in quell’anno le monache ottennero dal vescovo di ridurre ad una lira l’elemosina di ciascuna messa.

E non trascuravano l’industria per aumentare le rendite: nel 1779 poterono impiegare nell’acquisto d’un calice 23 scudi, ricavati dai «bachi fatti colla foglia del monastero in due anni.»

E approfittavano anche per via [p. 103 modifica]ereditaria della divozione dei cappellani. «Il reverendo ser Simone dalla Scarperia, prete governatore, morse in questo luogo con buono esemplo di sua vita poi che più tempo ebbe servito questo convento per cappellano, confessore e governatore e lasciò al convento ogni cosa di suo.»

Gli è che le spese, ordinarie e straordinarie, erano forti: per dir solo delle straordinarie, le divozioni e le indulgenze costavano care. Nel 1616 «suor Maria Donati ha messa la divozione del Santissimo Rosario, e spese, a far venire la bolla dal Pontefice per poter ricevere l’indulgenzie concesse a chi è scritto in detta divozione; arrivò la spesa di scudi 8 fra la bolla e in un libretto per scrivervi e’ nomi delle monache.»

Meno male che le buone suore potevano anche registrare, e a buon mercato, qualche consolazione straordinaria. Ebbero, per esempio, nel 1556, la visita di una [p. 104 modifica]celebre Madonna miracolosa, la «Santa Maria Primerana di Fiesole.»

Se lo stile della sagrestana, che registrò nel Libbro di ricordi i particolari di quella visita, fosse meno barbaro, ricopierei qui la relazione. Ma Ella vuole che anche le cose sante siano belle per farne sua delizia, e corre il rischio che le appaia in visione il Salvatore a rimproverarle, come accadde a San Girolamo, d’essere più ciceroniana che cristiana.

E ad ogni modo, Ella è così fina intendente delle cose dell’anima, da immaginare senza fatica la gioia di quelle semplici e divote monachelle.

E però non voglio chiudere con troppo rustiche citazioni questa mia lettera, che sarà l’ultima da Majano, dove mi sono adoperato a spigolare quello che mi sembrava degno della sua simpatia....

Così è: tutto passa; e sta per finire anche il mio soggiorno in questa deliziosa villa: me ne consolo soltanto col pensiero [p. 105 modifica]che fra poco potrò baciarle la mano, e colla speranza di persuadermi, nel rivederla, che le grazie di Lei, signora mia, sorridano sempre


Al suo devotissimo servo ed amico.