Scritti politici e autobiografici/Perché andammo in Spagna

Perché andammo in Spagna

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A suo figlio Un altro passo verso il precipizio
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PERCHÉ ANDAMMO IN SPAGNA1


Il saluto che siamo venuti qui a dare stasera ai compagni di ogni tendenza che partono o ripartono volontari per la Spagna, ha da essere semplice e virile.

Semplice perché non si tratta di un gesto, ma di un fatto che parla per sé eloquentemente.

Virile, perché questi nostri compagni vanno a combattere, fucile alla mano, correndo i rischi che il combattimento comporta.

I compagni che partono per la Spagna vanno a raggiungere i 2.000 antifascisti italiani che da mesi combattono sul fronte proletario; vanno a raggiungere il primo ma intrepido nucleo della futura armata rossa italiana; vanno a confondersi con le centinaia di migliaia di giovani proletari che a Madrid, a Huesca, a Malaga, fronte Siguenza, Cuenca, Saragozza o Bilbao [p. 177 modifica]tengono alta la bandiera della libertà e della rivoluzione nel mondo.

Dove vanno? Vanno in realtà verso la patria ideale, la patria per cui lottammo in Italia, per cui lottiamo oggi nell’emigrazione, per cui soffrono in galera tanti compagni nostri, per cui tanti sono morti, Viezzoli, De Rosa, Angeloni, Picelli, Jacchia, Falaschi, Centrone.

Dopo i lunghi anni di esilio io confesso che fu solo quando varcai le frontiere della Spagna, quando mi iscrissi nelle milizie popolari, e rivestii la tuta, divisa simbolica del lavoro armato, e imbracciai il fucile, che mi sentii ridiventare uomo libero, nella pienezza della mia dignità.

All’estero siamo sempre e sempre saremo dei minorati, degli esuli. In Spagna no. In Spagna ci sentiamo pari, fratelli. Dopo essere stati obbligati tanti anni a chiedere, magari solo il sacrosanto diritto al lavoro e alla residenza, in Spagna abbiamo la gioia di dare.

Non fosse che per questo, la partecipazione in persona prima alla lotta in Spagna, rappresenta una esperienza preziosa e bellissima. Torneremo, torniamo già dalla Spagna rinnovati, ringiovaniti, anche se talvolta zoppicanti. Il nostro orizzonte si è allargato, ingigantito, arricchito della esperienza senza pari di una rivoluzione e di una guerra in un paese per tanti lati simile al nostro, attanagliato da problemi spesso non diversi dai nostri, a contatto con un popolo che è, a mio avviso, il popolo più nobile, più simpatico, più [p. 178 modifica]ingenuamente aperto all’avvenire che esista attualmente al mondo.

Ricordo con emozione il nostro primo viaggio verso il fronte, il 19 agosto. Eravamo partiti la sera tardi, senza mangiare. Ci avevano detto che probabilmente lo avremmo ricevuto in viaggio. Ma le ore passavano, il treno saliva lento verso l’Aragona e il sonno finì per prenderci tutti. Verso l’una un vociare enorme ci sveglia. Ci precipitiamo ai finestrini e cosa vediamo? La stazione gremita da una folla di migliaia di uomini, donne e ragazzi. Era tutta, ma proprio tutta la popolazione di Tarrasa, piccola città industriale, che era rimasta alzata per salutare i volontari italiani, per portare loro cibi e bevande e dir loro il suo grazie ed il suo augurio. Così faceva Tarrasa tutte le notti, da quindici notti, con una spontaneità ammirevole.

Sentimmo quella notte passare su di noi il soffio rovente di una vera, autentica rivoluzione di popolo. Sentimmo il consenso, la fede. E ci abbracciammo commossi e ci dicemmo a voce alta la nostra gioia di batterci, la nostra sicurezza di vincere, e anche, se occorreva, la nostra tranquilla accettazione del sacrificio.

Questo episodio vi illustra, compagni, meglio di un lungo sviluppo, il sentimento di dignità e di gioia che prova il volontario italiano, che provano tutti i volontari in Spagna.

Ma non è solo dal lato sentimentale e individuale che il volontariato in Spagna assume un così alto valore. È, anzi e sopratutto, dal lato politico. [p. 179 modifica]

L’antifascismo italiano si è affermato in Spagna, come una forza positiva, anche militare, e come una grande forza. Finita la favola di un antifascismo che non si batte. Finita la diffamazione di un proletariato italiano incapace di reagire al fascismo. Finita in particolare l’accademia dell’esilio a cui un ingrato destino sembrava condannarci. L’azione non l’abbiamo solo predicata come padre Zappata. L’abbiamo vissuta.

Migliaia di esuli italiani hanno piantato posto, famiglia, abitudini radicate, per andare a combattere il fascismo, non appena l’occasione si è presentata, neppure aspettando l’invito o il consenso, anzi alle volte il consenso forzandolo, strappandolo.

Questo è un fatto importantissimo nella storia del nostro esilio e delle nostre lotte; è un fatto decisivo. Noi ormai sappiamo che esistono migliaia di compagni nostri che hanno combattuta e saranno capaci di combattere, capaci tecnicamente di manovrare anche le armi più delicate; che li ritroveremo sempre nella lotta rivoluzionaria, per la lotta rivoluzionaria, verso l’Italia, in Italia. L’interrogativo che ci ponevamo spesso: risponderà l’emigrazione alla prova? È risolto. Ha risposto. Esiste. Esistiamo come forza politica e come forza militare.

E finalmente, e terzo aspetto infinitamente importante, il più importante di tutti, questo intervento armato dell’emigrazione italiana in Spagna stabilisce un ponte, un legame con l’Italia che non si romperà più. Non solo perché il popolo italiano — da mille [p. 180 modifica]testimonianze che riceviamo — segue con una passione crescente lo svilupparsi della guerra civile; non solo perché dall’Italia partono, per combattere in Spagna, giovani eroici che già alla frontiera rischiano la galera; ma perché con questo atto virile l’emigrazione italiana — dimenticata, diffamata, qualche volta derisa — torna ad essere un fatto vivo e presente nella storia italiana, diventa forse per la prima volta un fenomeno storico, acquistando il diritto morale ad essere tenuta presente nelle future lotte italiane. Il popolo italiano ha visto nella Spagna come un simbolo.

Mai infatti come oggi noi possedemmo la coscienza di aver agito in nome e per conto della immensa maggioranza del popolo italiano portando in Spagna, contro i generali fascisti e i loro alleati hitleriani e mussoliniani, la voce e il braccio dell’Italia proletaria.

....Vale la pena di combattere quando sono in giuoco valori così grandi, tutta la speranza di un’epoca, il bisogno di emancipazione, la pace stessa del continente, la sorte dei popoli oppressi.

Vale la pena — se necessario — anche di morire.

Oggi in Spagna. Domani in Italia.

Lo storico di domani riconoscerà nel sacrificio semplice, virile, consapevole degli esuli antifascisti italiani l’inizio della riscossa.

Compagni, altri debbono parlare dopo di me e perciò non mi dilungo.

Prima di chiudere vorrei dirvi le ragioni della mia [p. 181 modifica]fiducia nella vittoria della rivoluzione spagnuola, nonostante tutti gli aiuti, gli intrighi, le mediazioni.

Si riassumono tutte in un unico fatto centrale: la rivoluzione.

Può darsi che necessità di politica e propaganda all’estero nei paesi di democrazia borghese consiglino gli stessi spagnuoli di presentare la guerra civile come una semplice resistenza contro la ribellione di una minoranza reazionaria armata a un governo legale espressione della volontà della maggioranza, e può darsi — e ne dubito — che convenga dire che lo scopo della guerra è quello di ristabilire la repubblica democratico-parlamentare.

Ma la verità è che nella Spagna libera è in corso, anzi è già avvenuta, una grande storica rivoluzione che difficilmente può conoscere ritorni. Gli operai controllano le grandi fabbriche; i contadini hanno avuto le terre; il profitto non è più il motore della produzione; le vecchie caste e classi dirigenti sono spazzate; la cultura è resa accessibile al popolo; una nuova classe dirigente sale dal basso; tutta la vita si organizza, oggi in vista della vittoria, domani in vista del benessere materiale e della elevazione morale del maggior numero. Non sono possibili retrocessioni. La rivoluzione non si svuota. Più continua la guerra e più le necessità stesse della guerra svilupperanno e consolideranno le conquiste della rivoluzione.

Note

  1. Discorso pronunciato ad Argenteuil il 1. febbraio 1937. Questo discorso al principio e alla fine è frammentario.