Satire (Ariosto 1857)/Satira I

Satira I

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Satire (Ariosto 1857) Satira II
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SATIRA PRIMA.1




A MESSER GALASSO ARIOSTO, SUO FRATELLO.


     Perc’ho molto bisogno, più che voglia,
D’esser in Roma, or che li cardinali
3A guisa delle serpi mutan spoglia:2
     Or che son men pericolosi i mali
A’ corpi, ancor che maggior peste affliga
6Le travagliate menti de’ mortali;
     Quando la ruota, che non pur castiga
Issïon rio, si volge in mezzo a Roma
9L’anime a crucïar con lunga briga:3
     Galasso, appresso il tempio che si noma
Da quel prete valente che l’orecchia
12A Malco allontanar fe dalla chioma,
     Stanza per quattro bestie mi apparecchia,
Contando per me due con Gianni mio,4
15Poi metti un mulo e un’altra rôzza vecchia.
     Camera o buca, ove a stanzar abbia io,
Che luminosa sia, che poco saglia,
18E da far fuoco comoda, desio.
     Nè de’ cavalli ancor meno ti caglia,

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Chè poco giovería ch’avesser pôste,
21Dovendo lor mancar poi fieno o paglia.
     Sia per me un materasso, che alle coste
Faccia vezzi, di lana o di cotone,
24Sì che la notte io non abbia ire all’oste.
     Provvédimi di legna secche e buone,
Di chi cucini pur così alla grossa
27Un poco di vaccina o di montone.
     Non curo d’un che con sapori possa
De’ varî cibi suscitar la fame,
30Se fosse morta e chiusa nella fossa.
     Unga il suo schidon pure, o il suo tegame,
Sin all’orecchio a ser Vorano il muso,
33Venuto al mondo sol per far letame;
     Che più cerca la fame perchè giuso
Mandi i cibi nel ventre, che per trarre
36La fame, cerchi aver delli cibi uso.
     Il novo camerier tal cuoco innarre,
Di pane ed aglio uso a sfamarsi,5 poi
39Che riposte i fratelli avean le marre,
     Ed egli a casa avea tornati i buoi;
Ch’or vuol fagiani, or tortorelle, or starne,
42Chè sempre un cibo usar par che l’annoi.
     Or sa che differenza è dalla carne
Di capro e di cinghial che pasca al monte,
45Da quel che l’Eliséa6 soglia mandarne.
     Fa ch’io trovi dell’acqua, non di fonte,
Di fiume sì, che già sei dì veduto
48Non abbia Sisto nè alcun altro ponte.7
     Non curo sì del vin, non già il rifuto;
Ma a temprar l’acqua me ne basta poco,
51Che la taverna mi darà a minuto.
     Senza molta acqua i nostri, nati in loco
Palustre, non assaggio; perchè puri8

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54Dal capo tranno in giù, che mi fan rôco.
     Cotesti che farían, che son ne' duri
Scogli de' Côrsi ladri, o d’infedeli
57Greci, d’instabil Liguri, maturi?
     Chiuso nel studio frate Ciurla se li
Bea, mentre fuor il popolo digiuno
60Lo aspetta che gli esponga gli Evangeli;
     E poi monti sul pergamo più di uno
Gambaro cotto, rosso,9 e rumor faccia
63E un minacciar che ne spaventi ognuno.
     Ed a messer Moschin10 pur dia la caccia,
Al fra Gualengo ed a’ compagni loro,
66Che metton carestía nella vernaccia;
     Che fuor di casa, o in Gorgadello o al Moro11
Mangian grossi piccioni e cappon grassi,
69Come egli in cella, fuor del refettoro.
     Fa che vi sien de' libri, con che io passi
Quelle ore che comandano i prelati
72Al loro uscier che alcuno entrar non lassi:
     Come ancor fanno in su la terza i frati;
Chè non li muove il suon del campanello,
75Poi che si sono a tavola assettati.
     — Signor, dirò (non s'usa più fratello,
Poi che la vile adulazion spagnuola
78Messe la signoría fino in bordello),
     Signor (se fosse ben mozzo da spuola),12
Dirò, fate, per Dio, che monsignore
81Reverendissimo oda una parola. —
     Agora non si puede, ed es meiore,
Che vos torneís a la magnana.13 — Almeno,
84Fate ch'ei sappia ch’io son qui di fuore. —
     Risponde, che 'l padron non vuol gli sieno
Fatte imbasciate, se venisse Pietro,

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87Pavol, Giovanni e il mastro Nazzareno.
     Ma se fin dove col pensier penetro,
Avessi a penetrarvi occhi lincei,
90O i muri trasparesser come vetro;
     Forse occupati in casa li vedrei,
Che giustissima causa di celarsi
93Avrían dal sol, non che dagli occhi miei.
     Ma sia a un tempo lor agio di ritrarsi,
Ed a noi contemplar sotto il cammino
96Pei dotti libri i saggi detti sparsi.
     Che mi môva a veder monte Aventino,
So che vorresti intendere, e diròlti:
99È per legar tra carta, piombo e lino,14
     Sì che tener che non mi sieno tolti
Possa, pel viver mio, certi bajocchi
102Che a Milan piglio,15 ancor che non sian molti:
     E provveder ch'io sia il primo, che mocchi16
Sant'Agata, se avvien che al vecchio prete,
105Sopravvivendogli io, di morir tocchi.
     Dunque io darò del capo nella rete
Ch'io soglio dir che 'l diavol tende a questi
108Che del sangue di Cristo han tanta sete?
     Ma tu vedrai, se Dio vorrà che resti
Questa chiesa in man mia, darla a persona
111Saggia e scïente e di costumi onesti,
     Che con periglio suo poi ne dispona:
Io nè pianeta mai nè tonicella,
114Nè chierca vo' che in capo mi si pona.
     Come nè stole, io non vo' ch'anco anella17
Mi leghin mai, che in mio poter non tenga
117Di elegger sempre o questa cosa o quella.
     Indarno è, s'io son prete, che mi venga

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Disir di moglie; e quando moglie io tolga,
120Convien che d'esser prete il desir spenga.
     Or perchè so com'io mi muti e volga
Di voler tosto,18 schivo di legarmi
123Donde, se poi mi pento, io non mi sciolga.
     Qui la cagion potresti dimandarmi
Perchè mi levo in collo sì gran peso,19
126Per dover poi su 'n altro scaricarmi.
     Perchè tu e gli altri frati miei ripreso
M'avreste, e odiato forse, se offerendo
129Tal don fortuna, io non l'avessi preso.
     Sai ben che 'l vecchio la riserva avendo
Inteso d'un costì, che la sua morte
132Bramava; e di velen perciò temendo;
     Mi pregò che a pigliar venissi in corte
La sua rinuncia, che potría sol tôrre
135Quella speranza onde temea sì forte.
     Opra feci io che si volesse porre
Nelle tue mani, d'Alessandro, il cui
138Ingegno dalla chierca non aborre.
     Ma nè di voi, nè di più giunti a lui
D'amicizia, fidar unqua si volle;
141Io fuor di tutti scelto unico fui.20
     Questa opinïon mia so ben che folle
Diranno molti, che a salir non tenti
144La via ch'uom spesso a grandi onori estolle.
     Questa, povere, sciocche, inutil genti,
Sordide, infami, ha già levato tanto,
147Che fatti gli ha adorar da re potenti.
     Ma chi fu mai sì saggio, o mai sì santo,
Che di esser senza macchia di pazzia,
150O poca o molta, dar si possa vanto?
     Ognun tenga la sua; questa è la mia:
Se a perder s'ha la libertà, non stimo
153Il più ricco cappel21 che in Roma sia.
     Che giova a me sedere a mensa il primo,

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Se per questo più sazio non mi levo
156Di quel ch'è stato assiso a mezzo o ad imo?
     Come nè cibo, così non ricevo
Più quïete, più pace o più contento,
159Sebben di cinque mitre il capo aggrevo.22
     Felicitade istima alcun, che cento
Persone t'accompagnino a palazzo,
162E che stia il volgo a riguardarti intento:
     Io lo stimo miseria, e son sì pazzo,
Ch'io penso e dico che in Roma fumosa
165Il signore è più servo che 'l ragazzo.
     Non ha da servir questi in maggior cosa,
Che d'esser col signor quando cavalchi;
168L'altro tempo a suo senno o va o si posa.
     La maggior cura che sul cor gli calchi,
È che Fiammetta stia lontana,23 e spesso
171Causi che l'ora del tinel gli valchi.
     A questo ove gli piace è andar concesso,
Accompagnato e solo; a piè, a cavallo;
174Fermarsi in ponte, in Banchi e in chiasso appresso:
     Piglia un mantello o rosso o nero o giallo;
E se non l'ha, va in gonnellin leggiero:
177Nè questo mai gli è attribuito a fallo.
     Quell'altro, per fodrar di verde il nero
Cappel,24 lasciati ha i ricchi uffici, e tolto
180Minor util, più spesa e più pensiero.
     Ha molta gente a pascere, e non molto
Da spender; chè alle bolle è già obbligato
183Del primo e del secondo anno il ricolto:25
     E del debito antico uno è passato,
Ed uno, e al terzo termine si aspetta
186Esser sul muro in pubblico attaccato.26

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     Gli bisogna a san Pietro andare in fretta;
Ma, perchè il cuoco o il spenditor ci manca,
189Che gli sian dietro, gli è la via interdetta.
     Fuori è la mula, o che si duol d'un'anca,
O che le cinghie o che la sella ha rotta,
192O che da Ripa vien sferrata e stanca.27
     Se con lui fin il guattero non trotta,
Non può il misero uscir, chè stima incarco
195Il gire e non aver dietro la frotta.
     Non è il suo studio nè in Matteo nè in Marco,
Ma specula e contempla a far la spesa
198Sì che il troppo tirar non spezzi l'arco.
     D'uffici, di badíe, di ricca chiesa
Forse adagiato alcun vive giocondo,
201Chè nè la stalla nè il tinel gli pesa.
     Ah, che 'l desio d'alzarsi il tiene al fondo!
Già il suo grado gli spiace, e a quello aspira
204Che dal sommo pontefice è il secondo.
     Giugne a quell'anco, e la voglia anco il tira
All'alta sedia che d'aver bramata
207Tanto, indarno. San Georgio si martira.28
     Che fia s'avrà la cattedra beata?
Tosto vorrà gli figli li nipoti
210Levar dalla civil vita privata.
     Non penserà d'Achivi o d'Epiroti
Dar lor dominio; non avrà disegno
213Della Morea dell'Arta29 far dispoti:
     Non cacciarne Ottoman per dar lor regno,
Ove da tutta Europa avría soccorso,
216E faría del suo ufficio ufficio degno:
     Ma spezzar la Colonna e spegner l'Orso,
Per tôrgli Palestina e Tagliacozzo,

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219E dargli a' suoi, sarà il primo discorso.
     E qual strozzato e qual col capo mozzo
Nella Marca lasciando ed in Romagna,30
222Trionferà, del cristian sangue sozzo.
     Darà l'Italia in preda a Francia e Spagna,
Che sozzopra voltandola, una parte
225Al suo bastardo sangue ne rimagna.
     Le scomuniche empir quinci le carte,
E quindi ministrar si vederanno
228Le indulgenze plenarie al fiero Marte.
     Se 'l Svizzero condurre o l'Alemanno
Si dee, bisogna ritrovare i nummi,
231E tutto al servitor ne viene il danno.
     Ho sempre inteso e sempre chiaro fummi,
Ch'argento che lor basti non han mai
234O veschi o cardinali pastor summi.
     Sia stolto, indôtto, vil, sia peggio assai,
Farà quel ch'egli vuol, se posto insieme
237Avrà tesoro; e chi bajar vuol, bai.
     Perciò gli avanzi31 e le miserie estreme
Fansi, di che la misera famiglia
240Vive affamata, e grida indamo e freme.
     Quanto è più ricco, tanto più assottiglia
La spesa; chè i tre quarti si delibra
243Por da canto di ciò che l'anno piglia.
     Dalle otto oncie per bocca, a mezza libra
Si vien di carne, e al pan di cui la veccia,
246Nata con lui, nè il loglio fuor si cribra.
     Come la carne e il pan, così la feccia
Del vin si dà, c'ha seco una puntura
249Che più mortal non l'ha spiedo nè freccia;
     O ch'egli fila,32 e mostra la paura
Ch'ebbe a dar volta di fiaccarsi il collo,
252Sì che men mal saría bêr l'acqua pura.
     Se la bacchetta pur levar satollo33

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Lasciasse il cappellan, mi starei cheto;
255Se ben non gusta mai vitel nè pollo.
     — Questo, dirai, può un servitor discreto
Patir, che quando monsignor suo accresce,
258Accresce anco egli, e n’ha da viver lieto. —
     Ma tal speranza a molti non riesce;
Chè, per dar loco alla famiglia nôva,
261Più d’un vecchio d’ufficio e d’onor esce.
     Camerier, scalco e secretario truova
Il signor degni al grado; e n’hai buon patto,
264Che dal servizio suo non ti rimuova.
     Quanto ben disse il mulattier quel tratto,
Che tornando dal bosco, ebbe la sera
267Nuova che ’l suo padron papa era fatto!
     — Che per me stesse cardinal meglio era:
Ho fin qui avuto da cacciar dui muli,
270Or n’avrò tre: chi più di me ne spera,
     Comperi quanto io n’ho d’aver, due giuli.34




Note

  1. Creduta dal Baruffaldi del 1517. Tra le manoscritte è la prima.
  2. Cioè presso al tempo dell’Avvento, quando i cardinali, dimesso l’abito rosso, vestono il violaceo. — (Baruffaldi.)
  3. Sotto l’allegoria della ruota che in mezzo a Roma si volge, intese, probabilmente, il poeta la tormentosa ambizione perpetua della corte. — (Barotti.)
  4. Un servitore del poeta, nativo di Pescia.
  5. Intendi: ingaggi o accaparri un tal cuoco, cioè di egregia abilità, quel nuovo cameriere, che uso a sfamarsi ec., ora vuol fagiani ec.
  6. Bosco pieno di selvaggine sul Ferrarese, tra le foci de’ due Po, di Primaro e di Volano, lungo la spiaggia dell’Adriatico. — (Barotti)
  7. L’acqua del Tevere è buona da beversi, dopo che sia purgata.
  8. Latinismo non imitabile (da pus, puris); qui esteso a significare Catarro. Il Barotti leggendo fa invece di fan, interpretava: «puri (i vini) tranno in giù dal capo tal cosa che mi fa roco.»
  9. Intendi: più rosso di un gambero cotto.
  10. Questo Moschino è nominato come gran bevitore, anche nell’atto V, sc. 4 della Cassaria. — (Molini)
  11. In Ferrara, lateralmente al duomo, è un vicoletto chiamato Gorgadello, ov'era un'antica ostería detta la Massara. Il Moro era altra ostería di Ferrara così detta dall’insegna. Si troveranno riaccennate più volte nelle Commedie. — (Molini.)
  12. Traduzione che diremmo fatta a orecchio dallo spagnuolo moço de espuela, staffiere; giacchè espuela non significa spuola, ma sprone.
  13. A quest'ora non si può, ed è meglio che voi torniate alla mattina.
  14. Per ottenere una bolla o chirografo del papa, che suole scriversi in pergamena, con sigillo in piombo appeso a una cordicella. — (Barotti)
  15. Vedi la nota al v. 110 della Satira II.
  16. Preferiamo la spiegazione datane dal Barotti: «che buschi, che netti (dicesi ancora in questo senso Ripulire), che tiri a me; quasi smoccoli. È voce del volgo, e furbesca.» Sant'Agata è titolo di un benefizio ecclesiastico in Romagna, allora posseduto da un vecchio prete suo consanguineo. Vedi Baruffaldi, Vita ec., pag. 112. L'Ariosto aspirava ad ottenere la successione a questa prebenda parrocchiale sino dal mese di novembre del 1511. Vedi, tra le raccolte verso il fine del volume II, la Lettera I; e i seguenti versi 130 a 141.
  17. Sottintendi, nuziali. — (Molini.) — Proposito che poi non si crede che mantenesse, com'è a mantenersi uno dei più difficili.
  18. Si credè di trovare una confessione di tal difetto anche nell'Élegia De diversis amoribus, e in altri luoghi delle poesie volgari. Vedi Baruffaldi, Vita ec., pag. 256.
  19. Il benefizio curato di Sant'Agata.
  20. Questo aneddoto, certo onorevole a messer Lodovico, venne trascurato dal più prolisso de' suoi biografi.
  21. Il più fruttuoso ufficio cardinalizio.
  22. Allusione all'abuso allora corrente di cumulare in un solo più vescovadi.
  23. Abiti lontano; e la lontananza dell'amata sia cagione ch'egli non arrivi in tempo al desinare.
  24. Per divenir vescovo. — (Molini.)
  25. Intende le somme che suole esigere la datería romana nella collazione dei benefizi, le quali ordinariamente equivalgono alla rendita di uno o due anni. — (Molini.)
  26. Quando uno è renitente a pagar quel tributo, viene avvisato due volte a certi intervalli; la terza, è scomunicato, e per tale fatto conoscere al pubblico con un affisso. — (Molini.)
  27. Ripa è quella sponda del Tevere dirimpetto all'Aventino, ove approdano le merci che vengono per il fiume. Dice il poeta, che quando monsignore non cavalcava, la mula andava a Ripa a far vetture. — (Molini.)
  28. Notarono i precedenti editori, come il poeta avesse prima scritto: «Tanto, indarno alcun s'ange e si martíra;» poi mutasse (e la mutazione può essere stata fatta dopo la morte di quel porporato) «Tanto, indarno Sau Georgio, ec.» Qualche curioso poi volle a San Georgio sostituire il Riario. È questa una prova di più, come in quella allusione altri ancora stimassero preso di mira il cardinale Raffaello Riario, di non lodevoli portamenti, e implicato nella congiura del Petrucci contro Leone X; e non già Franciotto Orsini, secondochè vorrebbesi da un più moderno annotatore.
  29. Città dell'Epiro, ove risedette Pirro. — (Molini.)
  30. Accenna l'avidità e la crudeltà d'Alessandro VI e del duca Valentino suo figliuolo. — (Molini.)
  31. I risparmi. — (Tortoli.)
  32. Si dice più ordinariamente per Italia, che il vino fila, quando esso è al fine dalla botte, e però di scadente ed anche guasta qualità.
  33. Detto della qualità, dice adesso della quantità del cibo che davasi ai cortigiani; e sembra esser questa l'interpretazione: Se il segno che si dà colla bacchetta di levarsi da tavola, lasciasse almeno satollo il ventre: prendendo qui, con altri, cappellano come detto furbescamente in quel significato.
  34. Comperi per due giuli tutte le mie speranze. — Questa Satira nell’autografo è sottoscritta dal poeta. — (Molini.)