Satire (Alfieri, 1903)/Satira decima. I duelli
Questo testo è completo. |
◄ | Satira nona. I viaggi | Satira decimaprima. La filantropineria | ► |
SATIRA DECIMA.
I DUELLI.
Pur com’io fossi un uom del volgo, ei crede A carcere plebeo legato trarme? Venga egli, o mandi: io terrò fermo il piede: Giudici fian tra noi la sorte e l’arme. |
Tasso, Ger., V. 43. |
Mano al brando, ti dico; o ch’io gli orecchi
Ti mieto entrambi, e ti cincischio il viso:
Uso mio, cui provaro altri parecchi.
E, in così dir, di fresco sangue intriso
Disguaïnava Marte il crudo ferro
Contro Vulcan da codardía conquiso.
Al tremendo atto del celeste sgherro,
Vulcano a gambe, fin ch’a Giove ei giunga:
L’altro il segue, gridando: Or or ti afferro.
Cosa non è, ch’ale sì ratte aggiunga
Quanto il terrore: onde il buon Lennio zoppo
Va, che par che Tisìfone lo punga.
E grida: Ahimè, Papà, quest’è poi troppo;
Le corna in un sol dì farmi e fiaccarmi!
E in tanto il cuor gli batte di galoppo.
Già il sopraggiunge il fero Dio dell’armi;
Ma il sopracciglio del Monarca Giove
Ambo li rende immobili quai marmi.
Che fu? quai veggo io mai vigliacche prove
Di due miei figli? Udiam: narri primiero
Quei, cui minor tempesta il cuor commove. —
Quell’io mi son, risponde il Battagliero:
Di un cotale offensor vergogna e pieta
Mi prende a un tempo: e il mio narrar fia il vero.
Tu sai ch’, or ha due giorni, in piena Dieta
Di quanti ha Dei l’Olimpo, io fui per giuoco
Dato in trastullo alla brigata lieta.
Fu il derisor, tu il sai, questo dappoco,
Che aggrovigliato entro vil rete m’ebbe
Con Citerèa, mio dolce unico fuoco...
Ma qui il tacersi al buon Vulcano increbbe;
Ond’ei proruppe, rïavuto il fiato:
Odi impudenza! al suo parlar, parrebbe
Che il marito non fossi io pur mai stato
Di quella, ond’osa ei l’amator spacciarsi;
E ch’io fossi il bertone, ei lo scornato.
Padre, tu il vedi, qual dei duo chiamarsi
De’ l’offensore a dritto e qual l’offeso:
Da te giustizia contro il reo vuol farsi. —
Pensoso, a capo chino, e in cuor sospeso,
Vedeasi allor l’Onnipossente Nume
Da due contrarie passïoni acceso.
L’Onor, le Leggi, l’esemplar costume,
Tutto a gara l’oprar di Marte accusa,
Che il sicario e l’adultero si assume:
Ma quella spada stessa, ond’ei sì abusa,
Contro ai Giganti fea prodigj in Flegra:
Astrèa il condanna, ed Eucrestía lo scusa:1
Qual vincerà? — Ma il Re del Ciel men egra,
Che i Re terrestri, in sè la mente acchiude;
Quindi Astrèa non vuol porre in veste negra.
Ecco, il celeste labro ei già dischiude
Alla sentenza, che in esigilo espelle
Marte dal cielo e le sue usanze crude.
Tutte a romore van le olimpie celle:
Godono i Fauni, i Satiri, i Sileni
Di tal legge onde salva avran la pelle:
Fremon gl’Iddii maggior di rabbia pieni
Punir vedendo il Marzïal coraggio,
Perch’ogni reo vigliacco si scateni.
Nè guari in fatti andò, che il gran dannaggio
Dei soppressi Düelli apparve chiaro:
Tal di se stesso diero i Vili saggio.
Ecco, un Satiro là, con riso amaro,
Incontro fassi al Divo Apollo; ed osa
Fargli in viso le fiche, e andargli al paro.
Là scorgo un Fauno a Pallade orgogliosa
Avvicinarsi con proterve voglie,
Pien di villana speme ardimentosa.
Qui pure ogni pudor di mezzo toglie
Lo stesso Bacco; ancor che l’uno ei sia
Dei magni Dei, cui Giove a mensa accoglie.
Tristo guerriero ei sempre, or qui vorrìa
Braveggiando avvilir l’egregio Alcíde:
E lo scompiscia in guisa oscena e ria.
Ma, mentre Bacco in sè d’Ercole ride,
Con la stessa ebra stolida impudenza
Sileno lui del licor stesso intride.
Così a soqquadro è il Ciel, da che temenza
Più di spada non v’ha nè di flagello,
Argini soli alla servil licenza.
Fama è persin, che l’umile asinello
Del buon Silèn, da inverecondia punto,
E dalla certa impunità più snello,
Con gl’ignobili calci ebbe raggiunto
Il maestoso Pegaso nel muso,
E ai calci il sozzo spetezzare aggiunto.
Giove allor dunque, visto il vile abuso
Che nascea d’una legge in sè pur giusta,
Minor mal reputando il barbaro uso,
Ribenedice e Marte e brando e frusta,
Per cui sovra i moltissimi vigliacchi
I pochi prodi pon legge vetusta:
Che, s’egli è forza ognor che si sbatacchi
Giustizia, almen (come Natura il vòle)
Soggiacciano d’ignavia i tristi sacchi.
Nè mi si adducan la Romulea Prole
E il valor Greco, a cui fur sempre ignote
Le düellari Ostrogotesche fole:
Genti eran quelle e libere, e devote
Sovra ogni cosa alle adequate leggi,
Per cui null’uom sovra ad altr’uomo puote.
Ma, se pur anco in esso acuto leggi
Lor guaste etadi e lor discordie prave,
Per minor mal quivi il Düello eleggi.
Che, se ai Gracchi fautor di turbe ignave
Fabii, Emilii, e Scipioni incontro stati
Fosser col brando; o si reggea la nave,
O che in onde men fetide affondati,
Non iscambiavan poi gl’Icilj e i Bruti
Ne’ Tigellini e Paridi affrancati.
Tali havvi ingiurie e audaci modi irsuti,
Con cui può il Tristo al Buon far grave breccia,
Nè legge v’ha che incontro a ciò lo aiuti.
La sola spada ell’è che allora intreccia
Una tal salutifera mistura,
Che fa mite il Valor, muta la Feccia.
Ogni plebeo scrittor vuol far secura
Sua pancia e il tergo, il düellar dannando:
Ma di ciò scriva sol chi, da paura
Sciolto, impugnò pria della penna il brando.
Note
- ↑ Eucrestía, Dea dell’Utile.