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90 | vittorio alfieri |
SATIRA DECIMA.
I DUELLI.
Pur com’io fossi un uom del volgo, ei crede A carcere plebeo legato trarme? Venga egli, o mandi: io terrò fermo il piede: Giudici fian tra noi la sorte e l’arme. |
Tasso, Ger., V. 43. |
Mano al brando, ti dico; o ch’io gli orecchi
Ti mieto entrambi, e ti cincischio il viso:
Uso mio, cui provaro altri parecchi.
E, in così dir, di fresco sangue intriso
Disguaïnava Marte il crudo ferro
Contro Vulcan da codardía conquiso.
Al tremendo atto del celeste sgherro,
Vulcano a gambe, fin ch’a Giove ei giunga:
L’altro il segue, gridando: Or or ti afferro.
Cosa non è, ch’ale sì ratte aggiunga
Quanto il terrore: onde il buon Lennio zoppo
Va, che par che Tisìfone lo punga.
E grida: Ahimè, Papà, quest’è poi troppo;
Le corna in un sol dì farmi e fiaccarmi!
E in tanto il cuor gli batte di galoppo.
Già il sopraggiunge il fero Dio dell’armi;
Ma il sopracciglio del Monarca Giove
Ambo li rende immobili quai marmi.
Che fu? quai veggo io mai vigliacche prove
Di due miei figli? Udiam: narri primiero
Quei, cui minor tempesta il cuor commove. —
Quell’io mi son, risponde il Battagliero:
Di un cotale offensor vergogna e pieta
Mi prende a un tempo: e il mio narrar fia il vero.
Tu sai ch’, or ha due giorni, in piena Dieta
Di quanti ha Dei l’Olimpo, io fui per giuoco
Dato in trastullo alla brigata lieta.
Fu il derisor, tu il sai, questo dappoco,
Che aggrovigliato entro vil rete m’ebbe
Con Citerèa, mio dolce unico fuoco...