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92 | vittorio alfieri |
Qui pure ogni pudor di mezzo toglie
Lo stesso Bacco; ancor che l’uno ei sia
Dei magni Dei, cui Giove a mensa accoglie.
Tristo guerriero ei sempre, or qui vorrìa
Braveggiando avvilir l’egregio Alcíde:
E lo scompiscia in guisa oscena e ria.
Ma, mentre Bacco in sè d’Ercole ride,
Con la stessa ebra stolida impudenza
Sileno lui del licor stesso intride.
Così a soqquadro è il Ciel, da che temenza
Più di spada non v’ha nè di flagello,
Argini soli alla servil licenza.
Fama è persin, che l’umile asinello
Del buon Silèn, da inverecondia punto,
E dalla certa impunità più snello,
Con gl’ignobili calci ebbe raggiunto
Il maestoso Pegaso nel muso,
E ai calci il sozzo spetezzare aggiunto.
Giove allor dunque, visto il vile abuso
Che nascea d’una legge in sè pur giusta,
Minor mal reputando il barbaro uso,
Ribenedice e Marte e brando e frusta,
Per cui sovra i moltissimi vigliacchi
I pochi prodi pon legge vetusta:
Che, s’egli è forza ognor che si sbatacchi
Giustizia, almen (come Natura il vòle)
Soggiacciano d’ignavia i tristi sacchi.
Nè mi si adducan la Romulea Prole
E il valor Greco, a cui fur sempre ignote
Le düellari Ostrogotesche fole:
Genti eran quelle e libere, e devote
Sovra ogni cosa alle adequate leggi,
Per cui null’uom sovra ad altr’uomo puote.
Ma, se pur anco in esso acuto leggi
Lor guaste etadi e lor discordie prave,
Per minor mal quivi il Düello eleggi.
Che, se ai Gracchi fautor di turbe ignave
Fabii, Emilii, e Scipioni incontro stati
Fosser col brando; o si reggea la nave,
O che in onde men fetide affondati,
Non iscambiavan poi gl’Icilj e i Bruti
Ne’ Tigellini e Paridi affrancati.