Saggio critico sul Petrarca/VIII. Situazioni petrarchesche
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VIII
SITUAZIONI PETRARCHESCHE
3. Malinconia.
Questa canzone, cosí ricca di contenuto, cosí varia di sentimenti, cosí balda e sicura di tono, cosí vigorosa e sobria d’espressione, fu la sua prima ed ultima ispirazione politica. Appresso, il letterato e l’erudito si sforza invano di supplire il poeta. L’Italia fu per lui un amore filosofico, abbellito ed animato dalla giovanile immaginazione, ma che, rimaso fuori del vario agitarsi della vita reale, appunto per questo difetto di nutrimento andò degenerando in un’astrazione letteraria. Ben presto Laura occupò tutto il suo cuore. Ma Laura stessa non valse a cavargli dall’anima che rari suoni di una giovinezza fuggente. Di rado in tante poesie senti il suono romoroso della speranza e della gioja, dello sdegno, d’una forte risoluzione. Dice di sé:
Ed io son un di quei che ’l pianger giova. |
Ed altrove:
ed i’ desio Che le lagrime mie si spargan sole. |
Anche nella maggior serenitá, anche nelle canzoni sugli occhi, frutto geniale di una forza momentanea, vedete tutt’a un tratto l’anima, come esausta dallo sforzo, intenerirsi e abbandonarsi. Qui è l’originalitá del Petrarca. E quando seconda la sua natura, sparisce dalla sua poesia ogni vestigio di sottigliezza, di gonfiezza e di rettorica, è naturale senza volgaritá, d’una semplicitá elegante.
Precursore del Tasso e del Leopardi, il Petrarca in pien Medio evo, vale a dire in tempi di tanta energia nel bene e nel male, fu senza saperlo attinto da quella specie di malattia morale, che nei tempi moderni s’è dichiarata con tanti esempli. La quale consiste nella disproporzione tra quello che vogliamo e quello che possiamo, ed uccide l’anima lentamente, che si dissimula l’impotenza, logorandosi ed intisichendo in vane immaginazioni. Questo male ha afflitto gl’italiani nel punto che, come riscossi da lungo sonno, hanno sentito il bisogno d’una vita nuova senza poterla attingere; e voi ne sentite la febbre ne’ furori dell’Alfieri e nelle disperazioni del Foscolo. Dopo d’avere come misterioso colera invaso tanti alti spiriti, eccolo svelato, e voglio credere conquiso, nelle pagine del Leopardi, che ne ha avuto una cosí straziante coscienza. E cesserá, quando nell’uomo e nel popolo che ne è tormentato, penetra la misura e l’amore del reale, di cui il Manzoni è una espressione tanto serena; quando, in luogo di fantasticare dietro l’assurdo, sua principale occupazione sará di esaminare quello che trova, ed averne piena notizia: conoscere è quasi giá possedere. E questo terribile reale, che come ombra ci fugge sempre dinanzi, noi lo conquisteremo noi, se lasciando i problemi assurdi dell’alchimia, ci metteremo nel campo della scienza.
Uno di questi alchimisti, ed il piú innocente, fu Francesco Petrarca. Ebbe scarsa coscienza del suo male; spese gran parte della vita in far quello a cui non era destinato; nello strazio di giornaliere contraddizioni, nel flutto delle illusioni e delle disillusioni consumò ogni energia, perdette ogni serenitá ed ogni coraggio; stanco, trasportato dalla invitta natura, senza piú resistenza, si gittò in solitudine, ove, con quelle risoluzioni estreme che son proprie di questi caratteri, s’acconciò a vita da selvaggio. Dapprima quel modo di vivere gli fu caro, gli parea di poter meglio attendere a’ suoi studi, di poter svellersi dall’anima una passione che lo teneva inquieto e scontento; e la sua «cameretta» gli sembrò «un porto», il suo «letticciuolo» «requie e conforto». Vedete quest’uomo, come un solitario del deserto, tutto solo per i campi, parlando, piangendo, intenerendosi, manifestando alla natura quello che cela agli uomini, e in mezzo a tanti disinganni fabbricandosi nuovi inganni. Avea volto le spalle al mondo, e non s’accorgea che il suo male era al di dentro di lui; meno si trovava col mondo, e più si trovava con sé stesso. Questa vita di concentrazione gittò l’animo in uno stato violento. L’immaginazione sali a tale esaltazione che talora confinava con la pazzia; gli parea di sentir Laura, usciva di camera come spaventato, si gittava pe’ campi, e quella voce sempre all’orecchio; contrasse una sensibilitá malaticcia, quella voglia di piangere, che con lo sfogo t’allevia un istante e ti consuma ancora piú:
Ed io son un di quei che ’l pianger giova. |
Allora quella cameretta divenne la camera delle lacrime, quel letticciuolo fu bagnato di pianto; e quest’uomo che s’era sottratto a tutto il mondo, andava cercando la compagnia fosse pur d’un contadino, per fuggire sé stesso, per non trovarsi solo col suo amore.
Ben so che il volgo parla con superbo disprezzo di questi spiriti malati: per me, desidererei meglio la loro malattia che la sua salute. Ci sono certe malattie aristocratiche, privilegio di certi uomini e certi popoli. L’Italia ha goduto di una salute da ben parecchi secoli, e quando ha cominciato a sentirsi malata, il dolore l’ha avvertita che ritornava a vivere. Cosa dunque impediva il Petrarca di menare questa vita di uomini sani? Perché tanto agitarsi? perché la sua immaginazione non trova requie? perché si ostina in una passione senza speranza? perché cosí poca logica nella sua condotta? perché errare angosciosamente di contraddizioni in contraddizioni? Gli è perché non è volgo; gli è perché, se non ha avuto la sanitá del genio, ne ha avuto almeno la malattia. Mai il Petrarca non è stato si gran poeta, che lá dove si sente malato. Le idee platoniche fuggono innanzi alle sue lacrime; le reminiscenze letterarie appena è se qualche volta compariscano timidamente nella frase; le antitesi, i giuochi di pensiero o di parola, le acutezze, le inversioni artificiose, i ragionamenti, le allegorie, le metafore, tutto sparisce; vi sentite innanzi ad una emozione sincera e profonda, innanzi ad un cuore che sanguina. Tal è l’impressione che vi fa provare il seguente sonetto:
O cameretta, che giá fosti un porto Alle gravi tempeste mie diurne. Fonte se’ or di lagrime notturne, Che ’l di celate per vergogna porto. O letticciuol, che requie eri e conforto In tanti affanni, di che dogliose urne Ti bagna Amor con quelle mani eburne Solo ver me crudeli a si gran torto! Né pur il mio secreto e ’l mio riposo, Fuggo, ma più me stesso e ’l mio penserò. Che seguendol talor, levomi a volo. Il vulgo, a me nemico ed odioso, Chi ’l crederia? per mio refugio chero; Tal paura ho di ritrovarmi solo. |
In un altro sonetto la sua vita solitaria è descritta in modo che vi fa presentire questa tragica fine. Il poeta non si lagna: non fa che narrare; ma al tono grave e solenne, sentite che è consumato da una insanabile melanconia. Ha l’aria di chi vi racconti le cose piú strazianti con semplicitá, senza aggiungervi alcuna osservazione, ma la sua faccia è pallida e sulle labbra è morto il riso:
Solo e pensoso i piú deserti campi Vo misurando a passi tardi e lenti; E gli occhi porto, per fuggir, intenti, Dove vestigio uman l’arena stampi. Altro schermo non trovo che mi scampi Dal manifesto accorger delle genti; Perché negli atti d’allegrezza spenti Di fuor si legge com’io dentro avvampi: Si ch’io mi credo ornai che monti e piagge E fiumi e selve sappian di che tempre Sia la mia vita, ch’è celata altrui. Ma pur sí aspre vie né sí selvagge Cercar non so, ch’Amor non venga sempre Ragionando con meco, ed io con lui. |
E difficile trovare un sonetto cosí pieno di cose, e che con si poca ostentazione di passione sia piú appassionato. Nella misura lenta e grave de’ due primi versi sentite il suono monotono e tristo del passo; quegli occhi spaventati che fuggono ogni vestigio di piede umano ti rivelano, con una immagine che illumina tutta la faccia, l’amarezza dell’anima ferita, sazia e disgustata del mondo; e vedete se in quegli «atti d’allegrezza spenti», frase cosí originale, cosí energica di costruzione, non si nasconde piú dolore che in tutta una «notte» di Young. Ma quest’uomo ha abbracciato la solitudine per disperazione, vi ha portato tutti i pensieri del mondo, e l’amore, attaccatosegli dietro, ve lo persegue. E tutto questo detto con tranquillitá, sotto cui giace la tempesta. Mai il poeta non si è tanto avvicinato alla nuditá antica, vale a dire a quello stile tutto cose, recisa ogni espressione di sentimento, a quello stile di marmo, che tanto ti spaventa nel Machiavelli. Nel Petrarca, poeta della forma, è un momento passaggiero, che esprime un dolore concentrato, di cui non sa assegnar la causa, una desolazione muta, senza sfogo. Confesso che di tutt’i suoi sonetti nessuno mi commove tanto profondamente quanto questo sonetto senza lacrima, cupo e fosco. Ma la sua anima tenera non potea lungamente reggere in questa silenziosa consunzione; succede l’alleviamento, lo scoppio delle lagrime, il prorompere di lamenti: «O cameretta!» «o letticciuolo!».
Il carattere proprio di questa malattia morale è quello che i francesi chiamano rêverie, a cui non saprei trovar parola nostra che vi risponda appuntino. L’italiano è vivo, pronto, tutto gesti, a salti e a impeti, espansivo; questo ripiegamento braminico dell’anima in sé, questa immobilitá e tristezza contemplativa, comune al nord, non si affa al nostro genio. Solo inaudite oppressioni e compressioni hanno potuto qualche volta far piegare il capo pensoso al piú vivace popolo del mondo. In bocca del popolo non troverai dunque parola che esprima uno stato di cui non ha esperienza: ben ci ha certi modi di dire, che sotto sopra vi si approssimano, come «pensoso», «pensieroso», «sopra pensiero», il «fantasticare». Ma questo stato è familiare alle nature squisitamente temperate, da Dante sino al Berchet. Dante chiama «fantasia» il suo fantasticare:
Allor lasciai la nuova fantasia, Chiamando il nome della donna mia. |
La fantasia differisce dal sogno, perché questo sopprime ancora le condizioni di spazio e di tempo, laddove quella dá agli oggetti tutta l’apparenza della piú precisa realtá. In cambio di quella, che non ha forza di conquistare, il poeta se ne foggia una docile e mobile, a suo talento.
Il carattere delle fantasie del Petrarca è una malinconia piena di grazia. Nella sua anima gentile non entra mai amarezza, rancore, niente di basso o di cupo. Le sue fantasie sono sfogo d’animo troppo pieno, che allevia e scioglie quel non so che di grave e d’amaro che il dolore vi condensa. Fantasticando il poeta raddolcisce ed infiora la sua pena. Ha bisogno d’esser consolato, accarezzato, d’una realtá che gli rida, lo compatisca, di sentirsi dire: — Povero Petrarca! — .E se la realtá gli resiste, non si pone di rincontro a lei risoluto e minaccevole, ma la disfá e la ricompone, ne fa la sua adulatrice, e le fa rendere i suoni piú melodiosi e piú insinuanti, che sieno usciti mai da nessuna poesia. Qui soprattutto si rivela quel carattere generale, che abbiamo assegnato al suo ingegno: la bellezza e la grazia. Simile ad un fanciullo d’intelligenza e d’immaginazione, che ne’ suoi trastulli pone tutta la serietá della mente, il suo castello di carta è d’una finitezza di forma a fargli illusione, e si piace ad ornarlo, e lo vagheggia, tutto lieto. In riva al Rodano s’arresta stanco e mesto, ed ecco una leggiadra fantasia passargli per il capo. Fa del Rodano il suo ambasciadore, come la rondinella, messaggiera d’amore ne’ poeti orientali. In questo punto tutto gli ride. Laura gli par che lo attenda e si doglia del suo indugio (son. CLIV):
Forse (o ch’io spero) il mio tardar le dole. |
L’erba piú verde, e l’aria piú serena. |
Baciale ’l piede, o la man bella e bianca; Dille: il baciar sia ’nvece di parole: Lo spirto è pronto, ma la carne è stanca. |
La canzone, che meglio esprime questo stato di fantasia turbato, ma non soverchiato dalla presenza del reale, è la decimaterza1. Il poeta si trova in Italia, e, come lo tira la sua natura, erra tutto solo per monti e per valli, col pensiero all’amata lontana. Addolorato dalla lontananza, si consola fantasticando, e in mezzo alle adulazioni della fantasia lo coglie di nuovo la realtá:
Or ride or piagne or teme or s’assicura: E ’l volto che lei segue, ov’ella il mena, Si turba e rasserena, Ed in un esser picciol tempo dura; Onde alla vista uom di tal vita esperto Diria: questi arde, e di suo stato è incerto. |
Come i pensieri fluttuano al di dentro, cosí le immagini al di fuori: consonanza della natura e dell’anima; ogni cangiamento di luogo è cangiamento di pensiero:
Di pensier in pensier, di monte in monte. |
Di rado una canzone comincia con tanta felicitá: siete giá nel pieno della situazione, ed avete appena cominciato.
I siti innanzi a cui s’arresta il poeta, sono romantici, tali che raccolgono l’anima e l’invogliano a fantasticare: una piaggia solitaria, o una fonte, una valle tra due poggi, alti monti, selve aspre, campi ombreggiati da pini o da colli, montagna sovrastante a montagna. In ciascuno di questi luoghi il combattimento interiore prende una forma e si determina. Era entrato in cammino, tristo ed abbattuto, in uno di quei momenti di scoraggiamento, da cui non sono liberi gli uomini piú forti. In questo stato, guardandoci nello specchio, torciamo la vista con ripugnanza dalla nostra propria immagine; ci sembra che tutti ci debbano disprezzare, diventiamo «vili a noi stessi». Come perseguito dagli uomini s’addentra per monti e per selve, e si sente piú tranquillo:
ogni segnato calle Provo contrario alla tranquilla vita. Se ’n solitaria piaggia, rivo o fonte, Se ’n fra duo poggi siede ombrosa valle, Ivi s’acqueta l’alma sbigottita... Per alti monti e per selve aspre trovo Qualche riposo; ogni abitato loco È nemico mortai degli occhi miei. |
La solitudine gli fa bene, gli offre immagini ridenti, lo rialza al suo cospetto: si beffa egli medesimo de’ suoi timori, e con l’audacia della speranza s’abbandona a’ forse, a’ chi sa; quando, tutt’a un tratto, uscendo dalla sua fantasia, esclama con un sospiro: «Or potrebbe esser vero? or come? or quando?». Ed eccolo ricaduto ne’ tormenti e ne’ timori di prima:
A ciascun passo nasce un pensier novo Della mia donna, che sovente in gioco Gira il tormento ch’i’ porto per lei: Ed appena vorrei Cangiar questo mio viver dolce amaro, Ch’i’ dico: forse ancor ti serva Amore Ad un tempo migliore; Forse a te stesso vile, altrui se’ caro Ed in questa trapasso sospirando: Or potrebb’esser vero? or come? or quando? |
L’esposizione è semplice e sobria, cosí piena, che quasi ciascun verso è una fiaccola illuminatrice di un vasto orizzonte. Un romanziero moderno farebbe una pagina di comentario sopra ciascuna di queste impressioni, e ti farebbe un’analisi del cuore umano, anatomica certo, ma perciò appunto povera di quei misteri e di quelle ombre che scuotono e mettono in moto la piú pigra immaginazione. Nella solitudine l’uomo parla solo, e non ci è forse niente che tanto logori, quanto questo inevitabile dialogo dell’anima con sé stessa. In questo duplicarsi, farsi due dell’uomo, com’è carezzevole il pensiero che lo conforta, come ingegnoso! «Sovente gira in gioco il tormento» è una di quelle forme, che per novitá ed energia gridano al lettore: — Fermati e pensa — . Girare in gioco il tormento è la ricordanza di un passato pieno di dubbii e d’angosce e di timori in mezzo allo scroscio di risa dell’animo rialzato e rassicurato; è l’uomo d’oggi, che fa la baja all’uomo di jeri. E quanta misura in quell’«appena vorrei», che è un contentarsi provvisorio d’uno stato che non vorrebbe durabile! Quanta finezza in quell’«altrui», in luogo di «a Laura»: «altrui se’ caro», che è come un palpare sorridendo il povero fanciullo sbigottito e dirgli: — Mi capisci — ; e farlo sorridere anche lui! Ma, salito tropp’alto con la speranza, l’innamorato si risveglia con un sospiro; e fa come chi non è ben sicuro di troppo lieta novella, e si fa ripetere tutte le circostanze, e moltiplica nelle interrogazioni, ne’ ma, ne’ forse, ne’ quando, ne’ come, mezzo tra la gioja e la paura:
Or potrebb’esser vero? or come? or quando? |
In dieci versi, quanta parte del cuore umano illuminata! Quanta tenerezza in quei «forse», che, mentre hanno aria di riso, ti fanno piangere! Sentite che, se l’amante ride in immaginazione, gli è per cessare il pianto; se si abbandona a’ suoi «forse», gli è perché ne ha bisogno, perché soffre; sentite che con tutti i suoi sforzi non può giugner mai ad un perfetto obblio, che la sua è una mezza illusione, interrotta nel piú bello del gioco da quel tragico sospiro che ti fa crollare il capo come di chi dica: — Non è vero— , e ti rigitta nell’abisso. Questa contraddizione scoppia con indicibile tenerezza nella stanza seguente. Eccolo sotto l’ombra di un pino o d’un colle fermarsi, cadere in fantasia, gli occhi su d’un sasso, ove disegna il viso di Laura, e non se ne accorge. Perché piange? Perché nel sogno ci è la confusa coscienza del sogno; perché Laura, che la fantasia gli presenta vicina, egli sa che è lontana; la disillusione e l’illusione sono contemporanee; quel pianto è un sentimento inconsapevole che si è messo accanto alle sue illusioni e non le lascia mai, e che dopo un istante d’obblio diviene parola e gli dice: — Non è vero — :
Ove porge ombra un pino alto od un colle, Talor m’arresto, e pur nel primo sasso Disegno con la mente il suo bel viso. Poi ch’a me torno, trovo il petto molle Della pietate; ed allor dico: ahi lasso, Dove se’ giunto, ed onde se’ diviso! |
Il poeta dalla disillusione ti fa indovinare l’illusione. Si era trasportato in immaginazione nel paese di Laura, e le stava innanzi, quando la lacrima turba la visione, e si trova nel bosco, a tanta distanza da lei, e prorompe in un gemito:
ahi lasso! Dove se’ giunto, ed onde se’ diviso! |
Uno de’ fenomeni piú poetici di questo stato è che l’amante sa che l’immaginazione l’inganna e si compiace d’essere ingannato; fugge dal vero e cerca il falso, il dolce errore, come chi vorrebbe sognar sempre per sottrarsi ai pungoli del reale; che se cosa gli spiace, gli è che l’errore sia di troppo corta durata, gli è che troppo brevi sono le gioje dell’obblio:
Ma mentre tener fiso Posso al primo pensier la mente vaga, E mirar lei, od obbliar me stesso, Sento Amor si da presso, |
Che del suo proprio error l’alma s’appaga: In tante parti e si bella la veggio, Che, se l’error durasse, altro non cheggio. |
Chi non ricorda i bei versi del Leopardi?
E potess’io L’alta specie serbar! che dell’imago, Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago. |
Aggiunge effetto la maraviglia del poeta, che rappresenta ciò che prova con gli occhi attoniti d’un fanciullo: «or chi fia che mel creda?». Ha l’aria di chi narra cose miracolose del regno delle fate. Con che voluttá si trattiene, con che ebbrezza, nelle sue illusioni! — Io l’ho veduta viva, dic’egli (notate quel «viva», non un fantasma, ma lei proprio), nell’acqua chiara, sopra l’erba verde, nel tronco d’un faggio, in bianca nube — :
E quanto in piú selvaggio Loco mi trovo e ’n piú deserto lido, Tanto piú bella il mio pensier l’adombra. |
Poi quando il vero sgombra Quel dolce error, pur li medesmo assido Me freddo, pietra morta in pietra viva, In guisa d’uom che pensi e pianga e scriva. |
Ove d’altra montagna ombra non tocchi, Verso ’l maggil1 piú spedito giogo, Tirar mi suol un desiderio intenso: Indi i miei danni a misurar con gli occhi Comincio, e intanto lagrimando sfogo Di dolorosa nebbia il cor condenso, Allor ch’i’ miro e penso, Quanta aria dal bel viso mi diparte. Che sempre m’è si presso e si lontano. |
Quante montagne ed acque, Quanto mar, quanti fiumi M’ascondon que’ duo lumi! |
Lá dá nel tenero: ina qui «quant’aria» è sublime, come sublime è quel «misurar con gli occhi i miei danni»: sono impressioni intere, gagliarde, subitanee, scompagnate da analisi, che in mezzo al dolore fanno sentire non so che di scuro e di pauroso. Questo è la realtá, la terribile ed angosciosa poesia del vero; ma non tarda a comparir l’errore co’ suoi leggiadri fantasmi. Eccoti il secondo pensiero, che, con aria di compatimento, lo chiama: «lasso!», gli susurra all’orecchio nel solito tono di familiaritá e di reciproca intelligenza:
Che fai tu lasso? forse in quella parte Or di tua lontananza si sospira: Ed in questo pensier l’alma respira. |
Ivi è ’l mio cor, e quella che ’l m’invola: Qui veder puoi l’immagine mia sola. |
Chi vuol sentire l’eccellenza di questa canzone, non ha che a compararla con l’antecedente. La perfezione tecnica ti rivela lo stesso poeta; ma niente dimostra meglio come la poesia è nell’anima. Si tratta delle visioni di Laura: il poeta la vede in ogni tempo e in ogni luogo. Ma queste visioni non sono rappresentate nel momento che nascono, con le occasioni, i moti dell’anima, che le producono, le impressioni che ne nascono. Sono isolate dalle condizioni del loro vivere, e riprodotte in una situazione d’animo affatto diversa. Il poeta pone in rassegna certi tempi e certi luoghi, e sottilizza sulle relazioni tra quei tempi e quei luoghi, e questa o quella qualitá di Laura. Ne nasce una poesia a rapporti e similitudini, per esempio, tra la primavera e Laura fanciulla, l’está e Laura giovine, l’autunno e Laura matura, tra le viole e l’abito color di viola di Laura, tra le stelle e gli occhi, tra un vasello d’oro con entro rose bianche e vermiglie e le tre eccellenze del viso di Laura, le trecce bionde, il collo di latte e le guance infocate (canz. XII). Il buon Muratori, ponendo questa canzone in risguardo con la seguente, dice timidamente: — Vale meno, se mal non m’appongo — ; tanto è incerto il giudizio, quando ha per base la parte tecnica! Fra queste due canzoni corre quella differenza che è tra il mediocre e l’eccellente. Perché la canzone decimaterza soprastá di tanto? Perché ivi tutto è in atto nel momento della produzione, perché i fenomeni non sono pezzi anatomici, sciolto giá l’organismo e senza vita; ma voi li vedete, se posso dir cosí, nell’atto del parto, con tutti i dolori e le gioje che li accompagnano. Lá assottiglia, carica e fraseggia; qui è semplice, sobrio ed efficace: e senza sforzo, anzi senza coscienza, ottiene i maggiori effetti poetici. Il che gli vien fatto, perché nelle situazioni tenere, in questi strazii di volontá, che sono nella sua natura, ci è nel suo cuore e nella sua mente quel «qualche cosa» di cui parlava Andrea Chénier. In questi casi l’intimo commovimento genera la frase, ed è questo che chiamiamo il vero nell’arte. Onde avviene che, posta la stessa abilitá tecnica, due poesie dello stesso poeta possono essere tanto distanti fra loro, quanto il vero dal falso, quanto è il Petrarca acuto, ornato, rettorico, manierato, dal Petrarca semplice e grande.
Di questa semplicitá nella grandezza il monumento piú saldo è la canzone:
Chiare, fresche e dolci acque.2 |
L’antecedente della canzone è uno stato di tristezza divenuto abituale. Il poeta s’intrattiene con una sinistra compiacenza in pensieri di morte. La sua immaginazione è d’accordo col suo stato. Non che fare uno sforzo per sottrarvisi, vi si profonda. Tutto dietro a queste immagini funebri, giunge ad una fonte, dove ricorda aver veduta un giorno Laura porre le sue belle membra. Ne nasce la purificazione, anzi la trasfigurazione, di quella tristezza.
Quando il poeta indovina la situazione, il principio ti ci fa trovare entro. Molto ammirata, ed a ragione, è la prima stanza. Commosso da una vista che gli sveglia tante memorie, l’amante, calda giá l’immaginazione, entra in colloquio con la natura, chiama ad uno ad uno tutti quegli oggetti, a cui si lega una ricordanza di Laura, li decora de’ piú gentili ed affettuosi epiteti, e, comunicando con loro le sue pene, le sente giá raddolcire. Questa entrata drammatica gitta di slancio l’immaginazione del lettore fuori della vita comune in un concitamento poetico, si che l’interesse comincia dalle prime parole. Ha innanzi come un mazzetto di fiori, pieni di grazia e di delicatezza, quando in mezzo al suo godimento si sente non so come inumidire il ciglio. Gli è che in tanta voluttá sente alitare un’aura di passione sconsolata, illuminata sinistramente dalle ultime parole. È un innamorato, che ricorda quegli oggetti non col giojoso orgoglio d’una passione soddisfatta, ma con la disperazione di un desiderio vano, lungamente nutrito. Pure, le tinte sono cosí soavi, che quella disperazione è come rattiepidita dalle nuove impressioni; e, se debbo dare un nome al sentimento «dolce amaro» che ne nasce, gli è la tenerezza: l’anima indurata e cupa di tristezza, che comincia a stemprarsi innanzi a quelle care memorie. Vedete ora finezza d’analisi. Non c’è cosa che l’autore non accompagni di qualche aggiunto significativo, il quale ora te ne dá l’immagine, ora il sentimento. Quel «solo a me par donna», quel malinconico «con sospir mi rimembra», e quel disperato «il cor m’aperse», quel gentile «far colonna al bel fianco», oltre tanti epiteti leggiadri, lumeggiano e colorano il quadro.
La tristezza si è giá purificata, s’è spogliata di ciò che è in essa d’amaro e di fosco. La lacrima comincia a spuntare; la fantasia spande un raggio di luce sulla tetra fisonomia, e se non può cacciar via i pensieri funebri che occupavano l’animo, li mescola delle piú care consolazioni, rende la morte amabile, desiderata. — Se amor mi dee uccidere, morire qui, esser seppellito qui, dove Laura è stata, dove può ritornare; e chi sa! versare una lacrima sulla mia fossa! — Questa fantasia postuma intenerisce l’animo, lo accarezza, lo gitta in obblio, lo attira tutto intero nelle sue lusinghiere immagini; né mai il poeta è rimaso si lungo tempo sprigionato dalla realtá, da quella realtá formidabile, che attossica tutt’i suoi godimenti nell’altra canzone. Con che compiacenza descrive i piú minuti particolari, dá corpo e sangue alla sua illusione! E come il cuore gli batte, con che interesse, con che affetto assiste alla scena fabbricatagli dalla benefica immaginazione! L’istante della morte è rappresentato senza amarezza, anzi con una certa civetteria: è Amore che gli chiude gli occhi lagrimanti, come volesse dire: — Non pianger piú — . Si rappresenta morto, foggiandosi in fantasia uno di quei gruppi che gli scultori sogliono porre su’ sepolcri: Amore impietosito, che si china a chiudere gli occhi stanchi, da’ quali esce l’ultima lacrima. Il poeta accompagna di un tenero compatimento il corpo e lo spirito nel momento della loro separazione: «lo spirito lasso, il meschino corpo, la carne travagliata», di un tenero compatimento, congiunto con una malinconica soddisfazione, immaginando, fine a tanti affanni, quel porto riposato, quella fossa tranquilla. Il piú commovente è che tutto questo è in forma di preghiera a quei luoghi, dove si è fabbricato il castello incantato della morte. E cerca di moverli a compassione del suo corpo, e si fa piccolo piccolo, domanda loro cosí’ poco, contento d’ogni menoma cortesia:
Qualche grazia il meschino Corpo fra voi ricopra. |
Scontento della vita, si finge delle gioje nel sepolcro. Uno de’ misteri della natura melanconica è questo intrattenersi deliziosamente nel cimitero, e dipingersi le dimostrazioni d’affetto che vi riceverá il suo frale. E come si lusinga il poeta, immemore de’ dolori presenti, come sorbe a stilla a stilla i piaceri che gli offre la compiacente immaginazione! Ella giugne «bella e mansueta», i suoi occhi «desiderosi cercano me»: — Lá io lo vidi! — , e lá con la «letizia» della speranza corrono gli occhi. Un improvviso grido di stupore e di dolore, un «oh pietá!» t’annunzia un cambiamento di scena, reso piú commovente dalla confidente letizia dell’amata. Lá dove cerca l’amante, vede, ed ecco un’immagine solenne che ti sveglia ad un tratto tutte le vanitá delle cose umane, vede «terra intra le pietre». Il poeta tripudia, s’asciuga lacrime di tenerezza, figurandosi Laura sospirosa, supplichevole a Dio per lui:
E faccia forza al Cielo, Asciugandosi gli occhi col bel velo. |
11 Tasso attribuisce ad Erminia la stessa fantasia; ma le circostanze piú delicate e affettuose sono ite via, supplite da epiteti inutili: l’imitazione non raggiunge l’originale. È ciò che di piú soavemente malinconico è stato immaginato nel Medio evo; è la voluttá della malinconia. Messosi vivo nella fossa per darsi il piacere di contemplare Laura, pietosa e lacrimante per lui, la vista della bella supplichevole nell’attitudine pittorica d’asciugarsi le lagrime col velo, «col bel velo», può tanto sul rapito amante, che dimentica esser morto e sepolto, gitta via ogni pensiero funebre; e cosa resta di tutta la visione? resta Laura, la bella Laura. Come nel sogno d’immagine pullula immagine, di fantasia qui nasce fantasia; mentre Laura prega, il poeta è tutto in ammirazione, tronca all’improwiso la sua funerea fantasia, e rimane li estatico, innamorato innanzi a tanta bellezza. La Laura del sepolcro si trasforma nella Laura, apparsagli quivi stesso, sotto una pioggia di fiori. Ben disse, giunto colá:
Erba e fior, che la gonna Leggiadra ricoverse Con l’angelico seno. |
Ma quei cari oggetti ebbero virtú d’abbellire, non di cancellare la sua tristezza; l’impulso era dato, il poeta pensava alla morte; segui negli stessi pensieri, che fluttuano mescolati con le nuove immagini. Ora quei pensieri sono cacciati via, o, per dir meglio, sono spariti da sé, senza saper come; quelle immagini restano sole; l’anima è purificata da ogni tristezza, anzi è inondata di luce. Volere che il poeta noti e spieghi questo passaggio, pretendere come alcuni di corta immaginazione, che ci sia qui lacuna, e che forse per isbaglio s’è omessa una stanza, è un voler supporre nello stato fantastico del poeta la coscienza di questo passaggio; è un ignorare che nell’azione ci son pure i momenti spontanei, irriflessivi, bruschi, che Dante attribuisce alla Grazia; e che in questo caso lo sparire di certi pensieri e il comparire improvviso di certi altri dee succedere senza che si sappia il come, a quel modo che in sogno: il poeta dee rappresentare la vita, non spiegarla o interpretarla.
I fiori sono come la veste della natura, che noi le rubiamo per decorarne le nostre belle. Qui piovono sopra Laura nelle piú vaghe attitudini, e sembra che abbiano giudizio, cadendo in guisa da imitare gli ornamenti dell’arte, la veste ricamata a fiori, le trecce rilevate da una superba rosa. Tale andava in processione la Madonna, su cui da terrazzi o da finestre piovevano fiori, testimonianza d’onore rimasa come l’apoteosi della donna. Le ultime foglioline, come cullate dal vento, s’arrestano vaganti in su e ti fanno l’effetto d’esseri animati. C’è in questa descrizione qualche cosa di cosí aereo, e insieme di cosí preciso, che ti senti sforzare l’immaginazione, perdi di vista la misura ordinaria delle cose, e non sai se sei in cielo o in terra. All’illusione ajuta il verso facile, trasparente, scorrevole come su d’una superficie liscia, uscito pur mo’ tutto riso e grazia da una forza allegra, che produce come per sollazzo. Ma la grazia cede il luogo ad un sentimento piú serio; la bellezza confina con la grandezza e si trasfigura nel sublime. Cessa il descrivere, i particolari ondeggiano e scompariscono; il portamento, le parole, il riso, il volto di Laura la cingono d’un’aureola, l’alzano da terra; la descrizione si trasforma in un grido di spavento, di quello spavento del sublime che ci fa chiuder gli occhi impotenti innanzi all’inaccessibile, e ci annichila:
Costei per fermo nacque in Paradiso! |
Cosi carco d’obblio Il divin portamento E ’l volto e le parole e ’l dolce riso M’aveano, e si diviso Dall’immagine vera, Ch’i’ dicea sospirando: Qui come venn’io, o quando? Credendo esser in Ciel, non lá dov’era. |
Analizza i fiori; Laura rimane senz’analisi, e s’india come Beatrice o Margherita, in mezzo agli angeli; l’obblio del poeta è tale che quando estatico si riscuote, è il suo sogno che gli pare realtá, ed è la realtá che gli pare un sogno, e si domanda con stupore e dolore: «Qui come venn’io, o quando?». Anche uscito dallo stato di fantasia, anche quando può guardarsi intorno e veder gli oggetti, rimane per un momento incredulo, gli pare ancora d’essere in cielo. Ma quando dall’alto delle sue immaginazioni si trova fra l’erba, ebbene, no, non si lamenta, non ti fa sentir l’oimé del disinganno, si è avvezzo a contentarsi di godere in immaginazione; e questa volta la sua fantasia è stata tanto durabile, ha goduto fuor del costume cosí lungo tempo e senza alcuno interrompimento, che benedice a quei luoghi ed assicura, con la bonaria semplicitá d’un amabile fanciullo, che lá solo trova la sua pace:
Da indi in qua mi piace Quest’erba si, ch’altrove non ho pace. |
Vi giunge tristo; se ne va consolato. Qual’è la sua buona ventura? un piacere immaginario e che sa immaginario. Nell’altra canzone questa coscienza amareggia il godimento, rompe a mezzo la fantasia, c’è un inesorabile: alto lá! che non gli lascia neppure la voluttá dell’errore:
Che se l’error durasse, altro non cheggio. |
Questa canzone è giudicata a ragione come la piú squisita cosa che sia uscita dalla penna del Petrarca. Sovente rappresenta il suo stato per via di pensieri generali, non senza ragionamento; qui l’animo è colto in un momento particolare ben circostanziato. Il poeta non lo ricorda, non ci si pone al di sopra e lo spiega; ma nel punto che scrive, lo soffre, vi soggiace con una oscura coscienza, narra, fantastica, si lamenta, si rallegra, come attore nel caldo e nello spontaneo dell’azione. In ogni strofa la situazione avanza, rasserenandosi, insino a che giugne all’ultimo dell’obblio e dell’estasi, e si scioglie in un pacato sorriso. Il che avviene per avvenimenti interni dell’animo eccitati da una vista piena di memorie, e succedentisi come onda sopra onda, di per sé, con appena qualche barlume di coscienza, senza che la volontá o l’intelligenza vi prenda parte. Le immagini sono cosí precise e contornate, che sembrano statue; ma si tirano appresso de’ sentimenti, che a poco a poco le fondono in note musicali. Nessun sentimento si stacca dall’immaginazione e si continua da sé; ma c’è, se si può dir cosí, una generazione continua, quasi in ciascun verso, talora in un epiteto. Il sentimento è tanto piú profondo, quanto è piú nascosto; il poeta vede, e nel vedere soffre o si allegra; ma non lo dice: lo senti nella melodia del verso, in qualche aggiunto, in qualche perifrasi, in accessorii talora inespressi, ma inevitabilmente presenti. In questo cielo fosco, che a poco a poco si rischiara in sino a che t’abbaglia uno splendore di sole, senti pure stendersi non so che malinconico, che certifica una soddisfazione inquieta, il sogno felice d’un ammalato. Mai non puoi cogliere il poeta in un momento di freddezza, di stagnazione, di sforzo, di riflessione, di assottigliamento; il poeta è qui soggiogato dall’uomo, s’è identificato coll’uomo. Per qual miracolo la parola, mentre esprime dolore, ti rivela tanta grazia? mentre esprime contento, ti rivela tanta malinconia? È una fusione di tinte, che ti dA la vita nella sua pienezza, nel suo misto di luce e d’ombra. Amabile fantasia, la primogenita fra tante simili dell’arte moderna, ispirate alle anime tenere dalla solitudine e dal dolore! Contiene in grembo la nuova poesia, che spunta sulla tomba di Laura.
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Di pensier in pensier, di monte in monte
Mi guida Amor; ch’ogni segnato calle
Provo contrario alla tranquilla vita.
Se ’n solitaria piaggia, rivo o fonte,
Se ’n fra duo poggi siede ombrosa valle,
Ivi s’acqueta l’alma sbigottita;
E, com’Amor la ’nvita.Or ride or piagne or teme or s’assicura:
E ’l volto che lei segue, ov’ella il mena,
Si turba e rasserena,
Ed in un esser picciol tempo dura;
Onde alla vista uom di tal vita esperto
Diria: questi arde, e di suo stato è incerto.
Per alti monti e per selve aspre trovo
Qualche riposo; ogni abitato loco
E nemico mortai degli occhi miei.
A ciascun passo nasce un pensier novo
Della mia donna, che sovente in gioco
Gira il tormento ch’i’ porto per lei;
Ed appena vorrei
Cangiar questo mio viver dolce amaro,
Ch’i’ die o: forse ancor ti serva Amore
Ad un tempo migliore;
Forse a te stesso vile, altrui se’ caro:
Ed in questa trapasso sospirando:
Or potrebb’esser vero? or come? or quando?
Ove porge ombra un pino alto od un colle,
Talor m’arresto, e pur nel primo sasso
Disegno con la mente il suo bel viso.
Poi ch’a me torno, trovo il petto molle
Della pietá te; ed allor dico: ahi lasso,
Dove se’ giunto, ed onde se’ diviso!
Ma mentre tener fiso
Posso al primo pensier la mente vaga,
E mirar lei, ed obbiar me stesso.
Sento Amor si da presso
Che del suo proprio error l’alma s’appaga:
In tante parti e si bella la veggio.
Che se l’error durasse, altro non cheggio.I’ l’ho pili volte (or chi fia che mel creda?)
Nell’acqua chiara e sopra l’erba verde
Veduta viva, e nel troncon d’un faggio,
E ’n bianca nube si fatta che Leda
Avria ben detto che sua figlia perde.
Come stella che ’l Sol copre col raggio:
E quanto in piú selvaggio
Loco mi trovo e ’n piú deserto lido.
Tanto piú bella il mio pensier l’adombra.
Poi quando il vero sgombra
Quel dolce error, pur li medesmo assido
Me freddo, pietra morta in pietra viva,
In guisa d’uom che pensi e pianga e scriva.
Ove d’altra montagna ombra non tocchi,
Verso ’l maggior e ’l piú spedito giogo,
Tirar mi suol un desiderio intenso:
Indi i miei danni a misurar con gli occhi
Comincio, e ’ntanto lagrimando sfogo
Di dolorosa nebbia il cor condenso,
Allor ch’i’ miro e penso,
Quanta aria dal bel viso mi diparte,
Che sempre m’è sf presso e sí lontano.
Poscia fra me pian piano:
Che fai tu lasso? forse in quella parte
Or di tua lontananza si sospira:
Ed in questo pensier l’alma respira.
Canzone, oltra quell’alpe.
Lá dove ’l del è piú sereno e lieto.
Mi rivedrai sovr’un ruscel corrente.
Ove l’aura si sente
D’un fresco ed odorifero laureto.
Ivi è ’l mio cor, e quella che ’l m’invola:
Qui veder puoi l’immagine mia sola. - ↑
Chiare, fresche e dolci acque.
Ove le belle membra
Pose colei che sola a me par donna;
Gentil ramo, ove piacque
(Con sospir mi rimembra)
A lei di fare al bel fianco colonna;
Erba e fior, che la gonna
Leggiadra ricoverse
Con l’angelico seno;
Aer sacro sereno,
Ov’Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
Date udienza insieme
Alle dolenti mie parole estreme.S’egli è pur mio destino
(E il Cielo in ciò s’adopra)
Ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda.
Qualche grazia il meschino
Corpo fra voi ricopra,
E tomi l’alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
Se questa speme porto
A quel dubbioso passo;
Che lo spirito lasso
Non porta mai in piú riposato porto
Nò ’n piú tranquilla fossa
Fuggir la carne travagliata e l’ossa.
Tempo verri ancor forse,
Ch’ali’usato soggiorno
Torni la fera bella e mansueta:
E lá Velia mi scorse
Nel benedetto giorno,
Volga la vista desiosa e lieta,
Cercandomi; ed, o pietá!
Giá terra infra le pietre
Vedendo, Amor l’inspiri
In guisa che sospiri
Sí dolcemente che mercé m’impetre,
E faccia forza al Cielo,
Asciugandosi gli occhi col bel velo.
Da’ be’ rami scendea
(Dolce nella memoria)
Una pioggia di fior sovra ’l suo grembo;
Ed ella si sedea
Umile in tanta gloria,
Coverta giá dell’amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo.
Qual su le trecce bionde,
Ch’oro forbito e perle
Eran quel di a vederle;
Qual si posava in terra, e qual su Tonde;
Qual con un vago errore
Girando, parea dir: qui regna Amore.Quante volte diss’io
Allor pien di spavento:
Costei per fermo nacque in Paradiso!
Cosi carco d’obblio
Il divin portamento
E ’l volto e le parole e ’l dolce riso
M’aveano, e si diviso
Dall’immagine vera,
Ch’i’ dicea sospirando:
Qui come venn’io, o quando?
Credendo esser in Ciel, non lá dov’era.
Da indi in qua mi piace
Quest’erba si. ch’altrove non ho pace.
Se tu avessi ornamenti quant’hai voglia,
Potresti arditamente
Uscir del bosco e gir infra la gente.