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La Nerina di Giacomo Leopardi

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Il principio del realismo Le nuove canzoni di Giacomo Leopardi
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LA NERINA DI GIACOMO LEOPARDI


Ciascuno si forma il suo Dio: e ciascuno si forma la sua Donna. Le grandi epoche dell’umanitá sono contrassegnate appunto da queste formazioni. Si può dire che la sua storia ne’ tratti essenziali non è se non la storia di Dio e della Donna.

Piú pura è l’anima, piú elevata è l’intelligenza, e piú sale il concetto della donna. Sicché non è di piccolo interesse a vedere com’ella è stata concepita dagli uomini superiori.

Fra questi uno, a cui la donna per una gran parte della vita fu la sola fede rimastagli, era Giacomo Leopardi. Io voglio investigare per quali gradazioni giunse a formare quel tipo della donna, che è detto «la Nerina».

La donna gli si presentò dapprima sotto le forme petrarchesche. Tale è la giovine morente di mal sottile, e la giovine del suo primo amore. Una prima concezione originale apparisce nel Sogno. Li la donna è proprio il contrario del tipo petrarchesco.

L’ideale della donna come fu concepito da Dante e dal Petrarca, lambiccato e affinato poi e sempre piú guasto da’ successori, è nell’altro mondo. Li trovi Beatrice e Laura, bellezza assoluta, bontá assoluta, veritá assoluta, che compariscono in visione agli amanti, e li consolano e li ammaestrano. E di li sono cavati i colori piú smaglianti della loro vita terrestre. Elle sono «angelette di ciel venute», raggi divini, che [p. 209 modifica]mostrano la via «che al ciel conduce», un riflesso del cielo in terra. Sopra questo fondo si è ricamato per molti secoli, e ne è venuta una rettorica messa in rima.

Siccome però «celeste», «angelico», «divino» non ti offre niente di preciso, ma un semplice grado comparativo, un piú e meno, un «piú bella e meno altera», nasce nella forma un non so che, un vago e indistinto, che è stato detto musicale, e stanca e scontenta l’immaginazione. Né il cuore riman pago innanzi a quelle donne dell’altro mondo, che girano e girano nelle loro luci come stelle, e nella comune beatitudine sentono tutte a un modo, e pensano Dio e non pensano noi. Ci si ribella il nostro povero cuore d’uomo. Quella Beatrice che quanto piú sale a Dio, e piú si sente lontana dall’amato, sin che te lo pianta del tutto, quasi mi fa dispetto. Quell’«amare in Dio» sará ortodosso, ma non è poetico. Vogliamo il paradiso si, ma lo vogliamo secondo il cuor nostro. Quella beatitudine contemplativa ci sembra una monotonia, non ci va. A noi non parrebbe di godere, se non in compagnia de’ nostri cari, e rifacendo colassú la nostra famiglia e la nostra patria. Gl’indiani che non volevano andare in paradiso per non incontrare colá gli odiati spagnuoli, non avevano gran torto. Ragionavano col nostro povero cuore d’uomo. E il cuore, volete o non volete, è il giudice della poesia. Quando l’innamorata dice che andrebbe in inferno, se lá è il suo amato, il pubblico applaude furiosamente. Se la ragione la condanna, il cuore l’assolve.

I poeti anche piú spirituali hanno foggiato un paradiso secondo il cuore, appunto perché poeti, com’era Salomone nella sua Cantica. Se hanno derivato dal cielo colori per la terra, hanno insieme trasportato un pezzo di terra in cielo, dando alle anime sentimenti e forme umane, che sostentano l’immaginazione e muovono il cuore. Non importa se questo sia in sé contraddittorio e irragionevole. I poeti non ci guardano poi tanto pel sottile. Ciò è stato detto un paganizzare l’arte.

Laura è beata. Ma la sua beatitudine, che non cape in intelletto umano, perciò appunto c’interessa poco. Ciò che c’interessa e ce la rende adorabile, è quella beatitudine che cape in [p. 210 modifica]intelletto umano, quel desiderio del suo corpo e del suo amante, che le fa sentire una mancanza in quella pienezza di beatitudine. «Te solo aspetto!»

Questa è la donna, che a traverso molte imitazioni poco febei riappare nel nostro secolo con fusioni ancora piú ardite tra divino e umano. La base è sempre l’oltre umano, raddolcito e avvicinato a noi, ma sempre un di lá, un maggiore del vero, come vediamo in Ermengarda e sino in Lucia. L’interesse artistico è tutto nello stretto legame di affetti e di pensieri fra terra e cielo, onde nasce la preghiera e la speranza in terra e l’apoteosi e la beatitudine in cielo. Ciò che chiamiamo vita, è un breve sonno; con la morte s’inizia la vita vera. L’altro mondo è una divina commedia, la corona e la perfezione della vita, la fonte della poesia.

Nel Sogno di Leopardi la base è capovolta. La vita è tutta e sola in terra; la morte è separazione eterna da’ nostri cari; tutto l’altro è l’ignoto, è mistero. L’altro mondo è sottratto a ogni contemplazione poetica. Fonte della poesia è la vita terrena, anzi quella sola e breve parte della vita, che è detta la giovinezza. Sopravviene la morte o il vero, e tronca tutte le illusioni, tutte le gioie della vita. L’anima nell’altro mondo è trista, e ricorda la breve gioventú ed il breve amore:

                                                             nel fior degli anni estinta,
Quand’è il viver piú dolce e pria che il core
Certo si renda com’è tutta indarno
L’umana speme  .  .  .  .
               

Cioè a dire, prima che sopraggiunga il vero, e mostri la vanitá delle illusioni e delle speranze giovanili.

La vita diviene una divina tragedia, elaborata dal Fato, conchiusa con la morte:

                                                             felicitá non rise
Al viver nostro, e dilettossi il cielo
e’ nostri affanni.
               
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La morte è l’alto motivo tragico di questa concezione. Ti fa venire il freddo quella voce cupa dell’altro mondo, che coglie l’amante in mezzo al suo obblio e al suo delirio:

                               Nostre misere menti e nostre salme
Son disgiunte in eterno. A me non vivi,
E mai piú non vivrai.
               

In eterno mai piú! Questo è il motivo funebre che penetra come tossico nelle brevi gioie della vita. Le distanze sono abbreviate; gli estremi si compenetrano. Vivere è amare, e amare è morire; una triade leopardiana, sempre e tutta presente. La morte solo è; tutto l’altro è apparenza, è la vita, che in seno alla morte riapparisce come una ricordanza acerba, a maggiore strazio.

Appunto per sottrarsi a queste conclusioni tragiche, le quali furon dette prosaiche, incoronarono di fiori la tomba, e foggiarono una poesia della vita in un altro mondo. Nel Sogno tutta questa poesia è ita via, ogni lieta immaginazione umana è distrutta in nome del vero. Con la morte finisce tutto, gioventú, bellezza, amore e poesia. «Di beltá son fatta ignuda», dice la morta.

E l’interesse poetico è appunto nella profonda e straziante impressione che fa sull’anima questa morte di ogni poesia, un sublime negativo. Il povero cuore umano voleva questa poesia; Leopardi lacera e schianta il cuore, annichila l’immaginazione, ti precipita nell’eterno vuoto. Maggior catastrofe non ha immaginato nessuno. È la tragedia non di questo o di quello; è la tragedia del genere umano. È l’ultima poesia, una poesia fondata sulla morte della poesia, e che appunto in questa impressione funebre raggiunge i suoi fini estetici.

È chiaro che in questa concezione spaventosa la donna tiene il principal luogo. Lo sparire della donna è lo sparire della bellezza e dell’amore. Essa è il motivo elegiaco della poesia, come l’uomo è il suo motivo tragico. La rassegnazione di Saffo raddolcisce la disperazione di Bruto. C’è soavitá nella tristezza femminile, «soave e trista». [p. 212 modifica]

L’uomo che concepiva cosí il mondo e la donna, era un giovane di appena ventun anno. E non era giá uno scettico o un cinico. Non era un filosofo che menasse vanto di avere demolito cielo e terra e chiarita la nullitá delle cose. Era una anima solitaria e malinconica, avida di bellezza e di amore, con desiderio intenso della giovanezza perduta. La vita appena libata era giá per lui una memoria, e una memoria era la giovinetta che prima gli fe’ battere il cuore. Tutto gli parve, come avviene agli infelici, memoria, ombra e illusione, tutto un apparire sparente, e sola veritá la morte e il nulla. Se il cuore umano protesta e si ribella, il primo a ribellarsi è il suo cuore. Perché nella tragedia universale egli sente la tragedia sua, e quando a te lacera il cuore, il suo giá sanguina. Questa sinceritá di dolore e di convinzione ti riconcilia col poeta, primo martire lui del suo pensiero.

La vita era giá per lui una memoria, e questa memoria era la giovinezza, etá sola felice, in cui le illusioni sono ancora intatte, non distrutte ancora dal disinganno. Aveva appena ventun anno, era nel fiore dell’etá, pur dice:

                               Giovane son, ma si consuma e perde
La giovinezza mia come vecchiezza.
               
La gioventú è giá una morta che gli ha lasciato di sé lungo desiderio:
                               E giovinezza, ahi giovinezza! è spenta.                

E gli pare ancora piú bella, perché meno goduta, e ancora desiderata, guardata con l’occhio amoroso del desiderio.

La donna è l’ideale della giovinezza, è la sua stella, la sua compagna nel viaggio della vita. Quella donna che non trova piú in cielo, il poeta la trova nel cuore del giovane. Beatrice, morta in cielo, sopravvive ne’ dolci sogni della gioventú. Ciascuno di noi l’ha vista, ciascuno ne’ primi anni aveva la sua Beatrice. Cosi l’ideale femminile ricomparisce, ma la sua base è altra, non è in cielo, è nel cuore umano. Essa è l’eterno fantasma, che rivela la donna alla gioventú. Il giovane non sa [p. 213 modifica]cosa esso sia e dove sia; ma nella sua ingenua fede crede alla sua esistenza, ed è suo ignoto amante, e lo cerca in terra, e spera di trovarlo in terra.

Ma qui la gioventú è giá una memoria. Morto è il cuore giovanile, e morta è la fede di trovarlo in terra. Ciò che l’occhio non trova, rimanesse almeno nell’immaginazione! ma il fantasma, «l’alta specie», appare sempre piú di rado, insino a che scompare affatto dall’immaginazione:

                               Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli...
                              E potess’io,...
L’alta specie serbar, che dell’imago.
Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.
               

Qui è tutta la storia del nostro ideale femminile. Quel «celeste», quell’«angelico», quel «divino» è il fantasma generato dal cuore e dall’immaginazione giovanile. Muore la gioventú, e il fantasma scompare.

Questo ideale immaginato e sentito, ma non veduto e non trovato, è senza contorni, fuori della forma e di ogni esistenza materiale, non ha le forme fisse e i sentimenti delle Laure e delle Beatrici, e de’ Celesti immaginati dai nostri padri. È un ideale muto come una statua e sparente come un vapore, ricordato e non rappresentato. Se gli dai la parola, se gli fai esprimere un sentimento, se gli dai un contorno, una forma qualunque di esistenza, lo hai profanato. Esso non ti vede e non ti parla, sparisce quasi nel punto stesso che apparisce, e tu non sei a lui che un ignoto amante. Purificato di ogni elemento mitologico o plastico, appartiene piú al sentimento che all’immaginazione, simile a Dio, che si sente e non si vede, e in questo senso si può chiamare il divino.

Questa pura idea, appena un’immagine, non si trova in quaggiú nuda, com’è d’ogni forma sensibile:

                                                             cui di sensibil forma
Sdegni l’eterno senno esser vestita.
               
[p. 214 modifica]Qualsivoglia forma piú a lei somigliante non è lei:
                                                             e s’anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria cosí conforme assai men bella.
               

Pure il giovane ha fede di trovarla in terra, e crede di averla trovata in quella donna che gli fa battere il cuore e scolorile il viso, perché ciò che vagheggia e ama in quella, è appunto lei, la sua idea. La mutola parla, l’invisibile si vede, i contorni si fissano, quella donna lí è l’ideale, e il giovane vi si appaga e non cerca altro. Questo miracolo operato dalla gioventú toghe il contrasto e la fusione grottesca tra divino e umano, introduce l’ideale nella vita, lo fa umano, lo rende partecipe delle gioie e de’ dolori umani.

Se il Leopardi fosse giovane e concepisse come giovane, questo miracolo avrebbe rappresentato. Avremmo visto la statua sotto le braccia supplichevoli di Pigmalione palpitare e rendere il bacio d’amore.

Ma la gioventú è ita, e non è che una memoria, divenuta essa medesima un ideale muto e sparente. E non è maraviglia che a quella immagine Leopardi figuri la donna. La sua Silvia e la sua Nerina non è che quello ideale divino sotto apparenza terrena.

La sua donna è innanzi tutto una memoria, come la sua gioventú. È la giovinetta, «nel fior degli anni estinta, quand’è il viver piú dolce», rimasta viva nella memoria dell’amante.

La memoria è la regina delle muse. Essa è la grande maga trasformatrice che scorpora e idealizza la vita. Della donna amata a poco a poco non rimane nell’immaginazione che la parte piú spirituale, inviolabile al tatto, il sorriso, lo sguardo, il suono della voce, la fisonomia, il sentimento. Ti è innanzi il fantasma di quello che un giorno fu corpo, e simile in tutto al primo fantasma evocato dalla fantasia giovanile. Se non che questo è il fantasma del desiderio, e quello è il fantasma della memoria. L’uno è accompagnato dalla fede che esso dee [p. 215 modifica]apparire, dee vivere, e il giovane si sforza di dargli un corpo, ci mette dentro le sue aspirazioni, l’impazienza del possesso, in quell’ideale pregusta il reale. L’altro nella piú splendida apparizione è accompagnato da questo pensiero che non è piú, che dá a’ piú smaglianti colori della vita il sentimento del muto e dello sparente, del destinato a morire. L’uno è abbellito da tutte le illusioni, l’altro è colpito dal disinganno. La tendenza dell’imo è a incorporare, la tendenza dell’altro è a scorporare.

Silvia è una rimembranza. La vita che i giovani si fingono eterna, è per lei vita mortale, e non fu che un giorno;

                                    Silvia, rammenti ancora
Quel giorno della tua vita mortale.
Quando beltá splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventú salivi?
               

Quei verbi in tempio passato, «splendea», «salivi», gittano il gelo della morte in quella bella vita giovanile. È la vita nel riso della sua espansione, ne’ suoi lieti sogni, nel suo vago avvenire. Gli occhi sono ancora fuggitivi, la voce è un canto, il riso che è negli occhi, è in tutta la natura, è nel suo avvenire. Un’eco di questa vita gioiosa giunge al giovine, e gli fa battere il core, e gli illumina l’avvenire.

                               Che speranze, che cori, o Silvia mia,
Quale allor ci apparta
La vita umana e il fato!
               

«Allor!» Quell’allor fa giá penetrare nell’illusione il disinganno, in quell’apparire lo sparire. Quei lieti sogni, quel vago avvenire, quei pensieri soavi erano illusioni, inganni della natura. La veritá fu lo sparire, la morte. Ella sparve e non vide la sua giovanezza. Anche a lui negarono i fati la giovanezza. E che cosa rimase di cotanta speme?

                               La fredda morte ed una tomba ignuda.                
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Questa non fu solo la sorte di Silvia e di Leopardi, è piú o meno la sorte della stirpe umana. È la tragedia della vita. La vita è un’apparenza, un sogno. Il vero è la morte; e la morte è il nulla. Nella catastrofe de’ due giovani si sente la catastrofe universale. Di che si lamenta il giovine?

                                    Questa è la sorte delle umane genti.                

Questo il vero. E non è possibile che vi resista l’intelletto. Ma vi resiste il cuore. E in questa ribellione del cuore è la poesia. Cosa ci fa il vero? Sappiamo pur troppo che tutto è caduco, e che in fondo alla vita è la tomba. Pure, finché il cuore è giovine, vogliamo sentire, immaginare, godere, e ci attacchiamo alla vita come fosse eterna. Questa è la poesia di Anacreonte, giovine co’ capelli bianchi:

                                    Questa vita è troppo labile,
Sempre in pianto e sempre in pene,
Se dell’uva il sangue amabile
     Non rinfranca ognor le vene.
               

Un po’ di questo liquore generoso è nella circolazione della vita, e ce la rende bellezza, amore e poesia.

Ma il povero Leopardi si sente giá vecchio ne’ suoi giovani anni. La vita a lui inetto a goderla è un desiderio senza speranza. Nella mente la speranza è morta. Nel cuore è rimasto il desiderio. Il cuore è vivo ancora, e ha virtú di evocare l’ombra della prima giovinezza, i dolci sogni del desiderio colorito dalla speranza, accompagnata da lacrime, perché oggi la speranza è morta:

                                              Mia lacrimata speme!                

Onde nasce l’interna scissura della sua forma poetica, il carattere drammatico della sua lirica, riso e lacrima, vita e morte. Ma questa vita evocata come memoria non è vita piena [p. 217 modifica]e ricca, descritta e rappresentata nella varietá delle sue gradazioni, è il fantasma della vita, leve, aereo, rapido, labile, fuggitivo come gli occhi di Silvia, è il muto e lo sparente, con la morte scritta in fronte. Le forme sono vaghe, indefinite, e i sentimenti sono musicali, simili a suoni, che inspirano tante emozioni, e non esprimono alcuna: «lieta e pensosa», «vago avvenire», «lingua mortai non dice Quel ch’io sentiva in seno», «che pensieri soavi. Che speranze, che cori!». E appunto questo aereo e questo indefinito ti dá il sentimento di una vita in fuga e in lacrime, non piú vita, ma l’ombra della vita.

La forma nel suo indefinito è chiara, e nelle sue impressioni è semplice, niente di nebuloso e di sentimentale, come ne’ romantici allora in moda. Quel giovane affacciato lí sul verone che ha interrotto gli studii, e tende l’orecchio al canto di Silvia, e mira il sole in tramonto che indora le vie e gli orti, è una immagine fuggente, ma perfettamente illuminata. Il poeta non la intuisce in uno stato di oblio, non si trasferisce in quella, non vi si trattiene, non vi si espande. È un’apparizione labile come un malinconico: — Io fui — , e presto sottentra il presente, anzi il presente è inchiuso nella stessa apparizione. La forma è senza espansione, quasi uno schizzo lampeggiato lí per li alla mente e gittato sulla carta, ma è precisa, e ti si fissa nello spirito e diviene la tua compagna nei momenti poetici della vita. Silvia non è piú la classica Beatrice, e neppure è la romantica vaporosa, a forme fantastiche, a impressioni tragiche. È la vita nel suo primo apparire giovanile, gioioso e pieno di sogni, è Silvia, la tessitrice, una giovinetta che non ha niente di angelico, ed è come la natura l’ha fatta con tutti gl’istinti di quella etá. Nei suoi sogni ci è la lode dalle nere chiome e degli sguardi innamorati e il ragionar d’amore con le compagne, ne’ suoi colloquii col giovanetto della sua etá salta fuori il mondo dorato della gioiosa immaginazione:

                               I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi.
Onde cotanto ragionammo insieme.
               
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É tutta la vita femminile nel suo fiore, nel suo vago avvenire, il quale esce fuori a sprazzi, quando non è piú, e apparisce con l’impronta dello sparire. Silvia è una stella luccicante in cielo oscuro, che a poco a poco l’annuvola e la involge nella sua oscuritá. Il cielo è oscuro, ma tranquillo; non ci è tempesta, non ci è strida; non ci è lamento, non ci è tenerezza. Sei al cospetto di natura muta e formidabile. Qualche lamento della vittima è schiacciato sotto la muta rovina. L’ultima impressione è l’eterno sparire e l’eterno disinganno, con l’impronta del mistero.

Fondere insieme lo sparente e il preciso, l’ideale e il naturale, la chiarezza dell’immagine e il vago del fantasma, sicché tutto vedi e tutto ti fugge, è il miracolo di questa poesia. Nel suo naturalismo, nella sua chiarezza plastica, nella sua semplicitá a dir cose anche le piú terribili, senti la lunga domestichezza del poeta co’ greci, che in una concezione essenzialmente romantica lo tenne lontano da ogni maniera del romanticismo.

Maggiore espansione è nella Nerina. Il poeta ritornava da Firenze, rivedeva la casa paterna affollata di memorie care e tristi. Ci è nei suoi lamenti una effusione tenera; ci è nei suoi ricordi una grandezza artistica d’impressioni; si sente la vita che gli rinasce, il fiato della primavera. Com’erano belli quei primi anni giovanili! E come sono passati rapidamente! Passati, e cosa importa? Egli li ricorda, li pensa, li rivive, li risente rinato a quei di. Con lui rinasce Nerina. Anch’ella passò; ora è nel sepolcro. Cosa importa? Tutto gli parla di Nerina; l’immaginazione del redivivo la cava dal sepolcro, la ricrea. È una Silvia a rovescio. Li è la vita che va sparendo in seno alla morte. Qui è la vita che riapparisce in fondo al sepolcro. Il motivo della Silvia è lo sparire. Il motivo della Nerina è il riapparire.

E come è bella, come è piena questa vita che riapparisce! — Nerina non è morta, ella vive nel mio pensiero, sente in me l’antico amore. Da quella finestra mi parlava; gli occhi lucenti di gioventú, la fronte gioiosa; la vita per lei era una danza; tutta fede, non le pareva mai che potesse finire. [p. 219 modifica]Com’era bella, quando si adornava e andava alle feste, quando a primavera portava sul seno il fiore, dono dell’amante! Come le piaceva la vita! Com’era contenta a mirare il cielo! —

Questa vita è tutta nel pensiero concitato dell’amante, che illumina il sepolcro, e ti fa colá dentro sentire ogni illusione di una vita gioiosa femminile. Non sai come, ma quella morta lí te la vedi innanzi danzante, col suo abito di festa, ornata di fiori, e par che dica: — Come la vita è bella! come piace di vivere! — . La poesia è piena di luce, colorita, vivace, calda, primaverile. Gli è che il poeta è rifatto giovine e considera la vita come giovine, ed è pieno di emozione, rivedendo la casa paterna. Il core risente i primi palpiti, riama la giá amata. La risurrezione della vita è in lui reale e seco risorge l’amata:

                               Seco ritorna a vivere
La piaggia, il bosco, il monte.
               

E seco ritorna a vivere Nerina. Non maledice più la vita, vendetta dell’impotenza a vivere. La contempla, la vezzeggia, la illumina, la infiora, l’aspira, la gode. Va pur talora a feste, a radunanze; ha i suoi giorni sereni, i suoi «colli odorati», la sua «piaggia fiorita», ha i suoi «teneri sensi», i «tristi e cari moti del core», il suo «vago immaginare», gode e sente di godere. Nerina è il riflesso, il riverbero di questa risurrezione primaverile: lá nel sepolcro.

Dico nel sepolcro, perché questa vita nuova scintilla davvero dalle ceneri del sepolcro. Non è giá una costruzione riscaldata da una immaginazione in delirio, che finga viva quella che è morta. Ella è ben morta, e la sua vita ti apparisce in lontananza, nel passato, come nel fantasma, accompagnata co’ piú dolci lamenti, con le piú tenere espressioni di affetto: «dolcezza mia», «eterno sospiro mio». Ti apparisce, ma portandosi nel fianco come uno strale il suo sparire: «passasti», «sparisti». E non è giá un prima e un poi, una storia ragionata di un apparire destinato a sparire, come è la Silvia. È un simultaneo apparire e sparire, una rimembranza oscurata dalla realtá. [p. 220 modifica]una realtá illuminata dalla rimembranza, tutta l’illusione della vita e tutto il disinganno della morte intrecciato, compenetrato, effetti contraddittorii fusi insieme, del presente e del passato in un solo periodo poetico, quel suono lontano di voce, quello scolorare del volto, e quella finestra deserta, e quel mesto raggio delle stelle:

                                                             quella finestra,
Ond’eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che piú non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Che, dal tuo labbro, a me venisse, il volto
Scolorarmi? Altri tempi. I giorni tuoi
Fûro, mio dolce amor...
               

Anche qui è accenanto al mistero inchiuso in questo apparire che è uno sparire, e in questo sparire che è uno apparire: «Spegneati il fato»; «passasti; ad altri il passar per la terra oggi è sortito». Ma vi è accennato come a un fatto noto e abituale, di cui è vano mover lamento. Il concetto è tutto profondato e sommerso nella storia individuale e non se ne stacca, come nella Silvia.

Nerina e Silvia sono il tipo piú accentuato delle donne sparenti. La loro vita è un sogno, un fantasma indefinito e muto, fuggente, fluttuante. I nostri antichi rappresentavano la donna anche cosí, considerando la vita come il velo o l’apparenza del divino o dell’angelico, come il raggio tremulo e sparente della vita eterna e fissa. Scorporavano, idealizzavano la vita, cercavano nell’umano il divino. Innanzi a Leopardi non c’è che l’umano e il naturale. La sua donna si compiace delle lodi, ragiona d’amore con le compagne, parla all’amante dalla finestra, si adorna a festa, ha sul seno il fiore, pensiero dell’amante. E non è perciò men bella e men pura e meno ideale. È un ideale umano che nasce dalla morte e dall’amore, i due grandi motivi di ogni poesia. La morte imprime sulla faccia di Silvia quel carattere muto e sparente che rende tutta la sua vita [p. 221 modifica]fuggevole, incorporea. L’amore empie di luce i sepolcri e vi risuscita i morti. Ciò che nei nostri antichi era effetto di fede, era realtá, qui è effetto dell’immaginazione poetica, consapevole di essere immaginazione. La vita è un’immaginazione; la realtá è il morire. L’idealismo antico aveva a fondamento la realtá dell’altro mondo. L’idealismo di Leopardi è una creazione del suo spirito; la sua donna è lui, è il suo riflesso, perché la vita fu per lui un fantasma.

Questi fantasmi bisogna guardarli di lontano. Se troppo vi avvicinate, li violate. Voi disputate, se Nerina era figlia di un cocchiere o di un cappellaio. Oimè! mi avete uccisa Nerina. La veritá è che Leopardi rimaneva come incantato innanzi a ciascuna donna, perché vedeva in ciascuna non questa o quella, ma la donna, anzi la donna sua, la creatura del suo spirito. Ciascuna donna era la donna sua, e in veritá non era piú essa, diveniva la donna sua. Il sentimento reale della donna lo ha colui, che, uscito dalla prima immaginazione giovanile e acquistata potenza di affetto, ama la tale donna: questo è amore, questo è il sentimento della donna. Leopardi poetizzava la donna, la trasformava, la faceva una sola creatura, e questa creatura della sua immaginazione gli fuggiva innanzi come un fantasma, come gli fuggiva la vita. Paolo Heyse ha voluto dare un corpo a questo fantasma, formare una Nerina propria e vera, che leggeva e gustava le poesie di Leopardi, e comprendeva lui ed era compresa da lui. E ha commesso un peccato mortale, perché di un colpo mi ha ucciso Leopardi e Nerina. Sono contraffazioni e profanazioni questi tentativi di ricostruzione. Ma possiamo perdonare ad Heyse, visto ch’egli pecca perché ama, ama molto l’Italia e gl’italiani.

Le donne sparenti sono oramai sparite. Il giorno che mancò la fede nell’altro mondo, mori Beatrice. E il giorno che Leopardi scoperse nella sua donna la sua idea, mori Nerina. Una signora di spirito mi diceva in Firenze che Leopardi aveva un bello istrumento poetico, ma se lo sonava solo. La donna non era che lui. E la poesia, come la vita, vuol esser due, l’uomo e la donna. La natura negò a Leopardi la forza di [p. 222 modifica]concepire la donna nella sua personalitá, la vita nella sua realtá, e l’amore nella sua veritá. La vita è pur bella, quando può concepire Nerina; ma la vita è un fantasma, quando Nerina è un’ombra della sua immaginazione. E cerchi Nerina, e trovi Aspasia. Visse il povero poeta di fantasmi e di illusioni, e l’ultima sua illusione fu la donna. E anche questa illusione fini. Morí Nerina, e nacque Aspasia. Morí l’entusiasmo, e nacque l’ironia. La tragedia della vita fu consumata. Morí il reale, e morí la poesia.

Con Aspasia il regno ideale della donna è finito. Comincia la donna reale, nella pienezza della sua personalitá. Ma oimè’ si travede; non si vede ancora.

[Nella «Nuova Antologia», gennaio i877.]