Saggi critici/«Epistolario» di Giacomo Leopardi
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«EPISTOLARIO»
di Giacomo Leopardi.
Chi ha letto le poesie e le prose di Giacomo Leopardi, aprirá con desiderio questo libro, vago di conoscer l’uomo, conosciuto le scrittore. E troverá quello che lo scrittore dettò aver l’uomo pensato, sentito e fatto: qualitá rara, nella quale è posta la veritá e la dignitá dell’arte. Or questa severa conformitá del pensiero e della vita rende difficile, a chi voglia esaminare queste lettere, il separarle dalle altre opere dell’autore. Se non che, leggendo le lettere, ti stringe l’animo tanto privato dolore; leggendo le opere, tu pensi a’ dolorosi destini del genere umano, l’anima di un uomo fattasi anima dell’universo. Noi possiamo dunque, lasciando star lo scrittore, affisarci unicamente nell’uomo di tanto straordinaria infelicitá, e mostrare in queste lettere il piú eloquente comento delle sue scritture, e la materia quasi ancor grezza ch’egli nelle poesie lavorò e condusse a tanta perfezione.
Una raccolta di lettere è come una raccolta di sonetti; difficilmente duriamo a quella lettura continuata, e noi stanca quel passar di cosa in cosa, senza legame di fatti e senza sospensione o interesse di sorta. Ma queste lettere con diletto avido perseguiamo infino alla fine, come quelle che, ordinate per ordine di tempo a consiglio di Pietro Giordani, sono pietoso racconto dei casi della sua vita, e quasi ritratto dell’animo dello scrittore, il quale ansiosamente accompagniamo nella sua dolorosa peregrinazione da Recanati suo paese natio, per varie contrade d’Italia.
Giovanetto, Recanati era per lui la stanza della biblioteca paterna; vi entrò recanatese, ne usci cittadino del mondo. Ché tale è la scienza, la quale rende l’uomo contemporaneo de’ passati e meditativo dell’avvenire, e dá all’anima un occhio che abbraccia l’universo. Ma a Leopardi l’universo tu muto, e la vita senza degno scopo, a cui volger potesse la forza invitta dell’animo; a lui crudele la fortuna e gli uomini. In giovane etá vide sparita per sempre la sua giovinezza; visse oscuro, avuto fama ed invidia postuma; ricco e nobile, e patí miseria e disprezzo; e non gli rise mai sguardo di donna, solitario amante di sua mente stessa, a cui ponea nome Silvia, Aspasia, Nerina. Onde con precoce ed amara conoscenza quello che noi stimiamo felicitá, reputò illusione ed inganni di fantasia; gli obbietti del nostro desiderio chiamò idoli, ozii le nostre fatiche, e vanitá il tutto. Cosi ei non vide quaggiú cosa alcuna pari al suo animo, che valesse i moti del suo cuore; e piú che il dolore, l’inerzia, quasi ruggine, consumò la sua vita; solo, in questo ch’ei chiamava «formidabile deserto del mondo». In tanta solitudine la vita diviene un dialogo dell’uomo con la sua anima, e gl’interni colloquii rendon piú acerbi ed intensi gli affetti rifuggitisi amaramente nel cuore, poi che loro mancò nutrimento in terra. Tristi colloqui e pur cari, onde l’uomo, suicida avoltoio, rode perennemente sé stesso, ed accarezza la piaga che lo conduce alla tomba.
Leggete ora le sue lettere. Voi vi troverete questa lamentabile istoria. Prima cagione di dolore è Recanati; l’animo giá capace dell’universo sentesi angusto in un oscuro villaggio, crudele al corpo e mortale allo spirito. «La terra è piena di maraviglie, egli scrive al Giordani, ed io di diciotto anni potrò dire: In questa caverna vivrò, e morrò dove son nato!» Allora ei varca col pensiero i confini della sua prigione natia, e con l’occhio fiso in piú largo orizzonte, esclama: «Mia patria è l’Italia, per la quale ardo di amore, ringraziando il cielo di avermi fatto italiano». E lascia Recanati: e giunto in Roma, il crediamo alfine contento, ed egli pure sei crede. Breve illusione! Roma, Bologna, Milano, Firenze, Napoli sono luoghi diversi, dov’ei s’incontra sempre col medesimo uomo, sé stesso, «suo spietatissimo carnefice».
Eccolo in Roma: eccogli innanzi altre cose, altri uomini. Leggete ora la prima lettera ch’egli scrive di Roma: «Delle gran cose ch’io vedo non provo il menomo piacere, perché conosco che sono maravigliose, ma non lo sento; e t’accerto che la moltitudine e la grandezza loro mi è venuta a noia dopo il primo giorno». — «Infin dal primo giorno, — dice altrove, — io sono in braccio di tale e tanta malinconia, che di nuovo non ho altro piacere se non il sonno;... non sento piú me stesso, e son fatto in tutto e per tutto una statua.» — «Domandami, — ei dice al fratello, — se in due settimane da che sono in Roma, io ho mai goduto pure un momento di piacere fuggitivo, di piacere rubato, preveduto o improvviso, interiore o esteriore, turbolento o pacifico, o vestito sotto qualunque forma. Io ti risponderò in buona coscienza e ti giurerò che, da quando io misi piede in questa cittá, mai una goccia di piacere non è caduta sull’animo mio.» Ma che giova seguire? Basterá solo ch’io dica, come dopo lunga peregrinazione l’infelicissimo desidera, ma era giá troppo tardi, quella terra natale, giá tanto odiata ed ora odiosa non piú che il resto del mondo. Vanamente dunque noi cercheremo in queste lettere descrizioni delle maraviglie della natura e de’ costumi degli uomini, che tanto ci allettano nelle scritture di quelli, la cui vita è tutta fuori di loro. Al Leopardi non è dato che rado affisarsi in alcuno spettacolo della natura; né il fa senza un subito ed angoscioso ritorno sopra sé stesso. Ché se fosse stato a lui conceduto di allontanare gli occhi dalla molesta ombra del suo pensiero, e riposarli in alcuna immagine esteriore, giá avrebbe egli conseguito quel sospirato oblio di sé stesso, che Manfredi, di cui il Byron sotto la piú fantastica forma scrisse una istoria si vera, indarno dimandò a tutte le forze occulte dell’universo.
Tale è il nodo principale di questa, direi quasi tragedia dell’uomo; gli episodii non sono men dolorosi, quasi malinconico suono che accompagni una mesta poesia. Fin dalle prime lettere noi sentiamo la stessa inquietudine del Giordani per la sua salate; e ben tosto l’udiamo lamentarsi di quella miseranda infermitá che noi lasciò piú infino alla morte; per modo che la sua vita si può dire con veritá essere stata una lunga agonia. Lo stato della salute è il principio consueto di ogni conversare e di ogni lettera; sicché in tutte quasi queste lettere materia assidua e presente di dolore è il suo male, o piuttosto i suoi mali; ché, col procedere dell’etá, par che il malore assaglia altre parti del corpo, e sotto nuove forme gli appresti nuovi tormenti, cruciandolo massimamente col privarlo de’ suoi cari studii e negargli ogni speranza di gloria e di lieto avvenire. La quale infermitá avvalora quella disposizione di animo, di cui è parlato di sopra: ché a poco a poco l’infermitá dell’anima e del corpo diviene un solo soffrire, con qualitá comuni ed indivise, e quella finzione, che noi chiamiamo metafora, per la quale lo spirito prende faccia visibile, e i corpi son circonfusi di alcunché di etereo che ce li ruba agli sguardi, diventa in lui una crudele realtá.
E ci è ancora altra materia di dolore. Per uscir di Recanati ei dovè lasciare gli agi della casa paterna e pati il bisogno. Non so se il padre potè aiutarlo e non volle; so bene che per soccorrerlo alquanto attese che il figliuolo condotto allo stremo gliene facesse dimanda. Ma se si può severamente riprendere Monaldo Leopardi, a noi non dá l’animo di usar gravi parole verso il padre di Giacomo; e quanto il figliuolo fu pio, e noi saremo indulgenti. Né rare son le lettere nelle quali a’ suoi piú intimi confessa l’autore le angustie ed i travagli dell’animo per procacciarsi la vita: fastidii e molestie del comun vivere, a cui basta il volgo e di cui non sono pazienti i generosi. La piú facile arte è quella di far danari, se mi è lecito di dire volgarmente cosa volgare, e l’aurea mediocritá degli uomini ha a questo una maravigliosa attitudine. E qui vediamo come il povero Leopardi sospirò invano un piccolo posto a Roma per intercessione del Niebhur, desiderò un tenue sussidio dallo Stella in ristoro delle sue fatiche, e dovè annoiarsi fieramente con discepoli dappoco, non capaci d’intenderlo; e come tutt’i suoi amici non poterono in tutta Italia trovare a Giacomo Leopardi altro che una cattedra di storia naturale, la quale non potè pur conseguire.
In tanta materia di dolore vi è qualche cosa pur di sereno in queste lettere, nelle quali quanto calcato è piú, tanto si rileva piú alteramente l’uomo, maggiore della fortuna. Qualitá nobilissima ed antica: in questo fiacco secolo, non paziente de’ mali e non ardito a’ rimedii, ammirata piú che imitata. La dignitá adorna l’infortunio, come della ricchezza e della potenza è ornamento la temperanza. E questa dignitá non è posta solo in quella specie di virtú negativa, ch’è detta «decoro», ed è quel non chinarsi mai per nessuna cagione ad atto men che nobile e gentile; di che ci è esempio la delicata risposta del Leopardi alle profferte del Colletta, e quella lettera, nella quale domanda quasi la caritá al padre suo, alteramente supplichevole. Ma vi è una dignitá di altra sorte, o meglio direbbesi magnanimitá, la quale è quel tener l’animo sempre alto sui casi umani, e non lasciar che altri abbia la gioia di aver potuto anche un istante turbare la tua serenitá. Ed il Leopardi alla ferrea necessitá che lo preme soprastá in guisa, che spesso, non che risolversi in vane querele, de’ suoi mali non parla altrimenti che filosofando con tranquilla ragione, divenuto egli stesso obbietto di meditazione al suo pensiero. E le invidie e gli odii e le mah dicenze e le calunnie e le ingiurie e le malizie e le insidie, e tutto che arma uomo contro uomo non basta a vincere il suo disprezzo, o forse la sua compassione. Vendetta unica ch’è forse lecito all’uomo dabbene, e che fa la disperazione e la rabbia de’ suoi nemici: mirarli in faccia e ridere e disprezzarli. «Io non m’inchinerò, egli dice, mai a persona del mondo, e la mia vita sará un continuo disprezzo di disprezzi e derisione di derisioni,» E altrove, dopo di aver descritto con un’amara freddezza questa guerra infaticata di ciascuno contro ciascuno, beffandosi dei vani sforzi dei suoi nemici, non possibili di giungere alla sua altezza, «io sto qui, egli segue, deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, menando l’intera vita in una stanza, in maniera, che, se vi penso, mi fa raccapricciare. E tuttavia m’avvezzo a ridere e ci riesco. E nessuno trionferá di me, finché non potrá spargermi per la campagna e divertirsi a far volare la mia cenere in aria».
Ma forse maggior virtú e piú difficile ancora è il serbare in mezzo alle calamitá il cuor giovane ed affettuoso, veggendo siccome l’avversitá suol rendere l’uomo d’indole aspra e quasi selvatica. Ed uomini maligni e senza cuore si finsero un Leopardi misantropo, fiero odiatore e nemico dell’uman genere. Se alcuno tra loro è che possa mai amare, ch’ei legga queste lettere ed amerá il nostro Giacomo: di cui solo conforto fu l’amicizia, non quale se la dipinge il volgo tutta vezzi e complimenti e sorrisi, ma una vita di due anime. Ciò che si desidera piú ne’ nostri scrittori di lettere, è l’affetto, senza il quale elle non sono che un formulario ipocrita. E qui soprabbonda l’affetto; né alcuno amato fu mai, come il Leopardi amò; testimonio il Brighenti e il fratello Carlo e la sua Pilla e quella cara anima di Antonietta Tommasini e sopra essi tutti Pietro Giordani. Forse la piú cara cosa che di costui ricorderanno i posteri, è l’amicizia straordinaria che lui sommo e famoso legò ad un giovanetto sconosciuto di diciotto anni. Ben fortunato cui Giacomo degnò di tutta la pienezza del suo amore. Amore inesausto e quasi ideale, bisogno supremo di quel cuore d’angelo, e che solo non lo lasciò mai in tutto nella sua vita. «Amami per Dio, supplica al fratello Carlo; ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita.» E in veritá si può dire che il dolore e l’amore sieno la doppia poesia di queste lettere.
Pochi, specialmente se si misuri col nostro desiderio, son i giudizii che dá il Leopardi delle condizioni del nostro paese in fatto di letteratura e filosofia: cosí brevi intervalli ha il suo dolore. Il concetto ch’egli ha delle cose è si alto, che a noi non fará maraviglia se egli ci parrá giudice severissimo, e, se piú che lodare quello che abbiamo, egli ci mostra quel che ci manca. Ma non è mio intendimento di esaminare, in che i suoi giudizii si discostano (né poco, né in cose di poco momento) dalla scuola purista, ristoratrice dei buoni studi e prima redentrice d’Italia dallo straniero. Anzi, poiché è ormai tempo, vo’ conchiudere il mio dire, senza far parola di quell’ultima materia delle lettere, che è quasi la parte prosaica e volgare; le imprese letterarie, la stampa delle sue opere, e i consueti uffici e i convenevoli della vita comune, e gli affari e le commissioni particolari, e facezie e scherzi, a cui egli inchinò talora l’animo austero per compiacere al suo Carlo, alla sua Pilla, o al suo fratello Pierfrancesco, tutto vano del suo canonicato. Alcuni schivi avrebbero voluto che questa parte fosse lasciata stare in dimenticanza: ma noi non osiamo biasimare il giudizio o piuttosto l’affetto di Pietro Giordani, che volle tutto raccogliere del suo Leopardi, anche le cose minime e di poco pregio: con quella riverenza che l’esule serba e tien caro ogni menomo nulla della sua patria diletta, che non spera piú rivedere.
[Nel «Cimento», Torino, a. IV, s. IV, vol. VII, pp. 3-9, i856].